Non è che ti serva la colla per applicarti

In quanto figlio degli anni ’80 ho vissuto un’infanzia in cui supereroi e videogiochi erano qualcosa da sfigati. Raccontare di considerarli come propri hobby equivaleva a un’ammissione di scarsa vita sociale. Se dicevi di preferire startene a casa ti guardavano in modo strano. Oggi a vedere i film Marvel ci va chiunque e un qualsiasi ragazzino ti considererà uno sfigato se non sai cosa siano Fortnite, Minecraft o CoD.

Qualche settimana fa parlavo con un amico che organizza da quasi vent’anni una rassegna di cinema d’autore. Affermava che secondo lui il cinema sta andando verso la morte. Ha sempre la tendenza a parlare con toni apocalittici di qualunque cosa e credo l’ultima volta che abbia guardato alla vita con ottimismo sarà stato all’ultimo scudetto del Napoli.

Però questa volta mi sa che ragione ne ha. La pandemia ha accelerato un declino. Le sale non si riempiono più. Leggevo un commento, a caso, sotto un articolo sulla crisi dei cinema, di un tizio che diceva “Preferisco stare a casa sul divano”.

Ecco. Vent’anni fa “preferisco stare a casa sul divano”, come accennavo, era un atto coraggioso che andava incontro al giudizio altrui. Oggi, invece, è la normalità.

Certo, a casa ti puoi alzare quando vuoi, ti stendi, parli.

Due delle azioni che ho elencato sono a mio avviso sindromi di un deficit di attenzione. Non è più concepibile nell’homo applicans (cioè l’essere umano che si dedica a fare un sacco di cose, tutte male) l’idea di stare fermi e dedicarsi a una singola attività per un tempo prolungato. Magari anche in silenzio. Mi vengono in mente quelli che dicono «Non riesco a leggere». Apri il libro e mettitelo davanti agli occhi: è un buon inizio.

Anche io, già distratto di mio di natura, vivo saltando da una cosa all’altra. Con tutte le conseguenze del caso: per dire, ormai sono oltre l’entrare in una stanza e dimenticarmi il perché di averlo fatto. Mi dimentico proprio di entrare nella stanza.

Voglio provare a fermarmi. A tornare a ragionare di più sulle singole azioni. A fare esercizio di consapevolezza. E se magari il cinema non muore, pure sarei contento.

Non è che per il bove un bel giogo duri poco

Ogni tanto lancio uno sguardo distratto alle vetrine dei negozi di giocattoli. Oltre che per ammirare qualche giovane mamma, lo faccio per controllare eventuali cambiamenti nei balocchi rispetto a quelli di quando ero bambino.

Credo sia questo il diventare anziani.


Mi riferisco a fare confronti con la propria infanzia, non il guardare le mamme.


Tra invasioni Marvel e Star Wars – sia maledetto Topolino e la sua industria – vedo che poco è cambiato. Omoni snodabili e pistole attentatrici oftalmiche esistono ancora e continueranno a farlo.

Qualche volta dovrei investigare sull’esistenza di altre tipologie di giochi: le minchiate.

La minchiata non è il robot gigante o l’astronave con le lucine. La minchiata è quella cosa che desiderano tutti ma che non si capisce a cosa serva e perché mai debba esser acquistata.

Quando ero piccolo c’erano molte minchiate.

Il Crystal Ball è secondo me un chiaro esempio.

Con crystal ball ci puoi giocare (crystal ball)
e tante cose da inventare (crystal ball)
ci puoi far cose divertenti (crystal ball)

Tante cose è un po’ pretestuoso, considerato che potevi crear solo delle bolle sgraziate. E le cose divertenti mi sfuggono, a parte calpestare con i piedi le bolle e poi andare in giro per casa con le scarpe appiccicaticce per la gioia di Madre che aveva appena lavato il pavimento.

Il CB puzzava di petrolchimico in modo inverecondo. Mi risulta sia ancora in commercio e con una formula diversa, più profumata e meno appiccicosa.

Ma io son sicuro che venti e passa anni fa inalavamo tanto di quel benzene che manco un ingegnere dell’ENI.

In tema di cose puzzolenti e dalla dubbia composizione chimica, le manine adesive delle patatine erano un altro bell’esemplare di minchiata. Fuffa allo stato puro, dopo averle tolte dalla confezione e lanciate contro il muro il loro effetto adesivo si azzerava. Una scuola di pensiero dell’epoca sosteneva che bastasse lavarle con acqua e sapone per farle tornare come prima.

Falso.

Così quando erano inservibili le appallottolavo e le lanciavo con la fionda.

Le manine, come accennavo, avevano un odore molto strano e sgradevole. Credo fossero comunque meno tossiche delle patatine che le contenevano.


Va detto che spesso io compravo le buste per prendere la sorpresa e gettare il resto.


In tema di tossicità credo che nulla potesse però battere i braccialetti di gomma profumati e dalle sfumature arcobaleno. Una minchiata così minchia che purtroppo non riesco a trovarne traccia nell’internet (che eppure di minchiate ne conosce!).

Apparvero dal nulla, così come nel nulla scomparvero. Si potevano comprare dal tabaccaio e nelle mercerie. Nel periodo in cui ero alle elementari diventarono la moda del momento, fino a che le mamme non cominciarono a boicottarli perché si diffuse la voce che fossero pericolosi.

In effetti col sudore tendevano a scaricare colorante sul polso, lasciando macchie che sembravano ecchimosi di manette. Senza contare che il profumo di cui erano impregnati non credo fosse prodotto con estratti bio di lavanda e jojoba.

Sulla loro tossicità a scuola fiorirono leggende metropolitane, come ad esempio il fatto che causassero addirittura la polmonite!


La correlazione tra colorante e polmonite mi sfuggiva, ma chi ero io per contraddire l’efficiente sistema informativo del passaparola scolastico?


Non ebbi mai un braccialetto colorato, perché il Gazzettino delle Mamme Apprensive arrivò a casa mia prima che potessi acquistarne uno.

Traendo le somme, con tutte le minchiate tossiche con cui siamo venuti a contatto da bambini credo che oggi dovremmo avere tutti dei superpoteri.

In effetti alcuni di noi sono diventati dei superminchioni.

Non è che un elettricista possa risolvere problemi alla spina dorsale

A volte immagino la mia spina dorsale come un albero di Natale rinsecchito, cui sono appesi gli organi a mo’ di palle. Non riesco a visualizzare le viscere come un unico conglomerato di massa carnosa e sanguinolenta, ma soltanto come entità separate collegate da una qualche semplice autostrada neurale/circolatoria fra loro.

Da adolescente fui visitato da un internista per la mia colonna vertebrale. Considerando che era allegro come un becchino, forse era più probabile fosse un interista (si era nella seconda metà degli anni ’90…)*. Mi squadrò con la sufficienza di Joe Bastianich quando guarda il piatto di un concorrente di Masterchef.


* Per chi non segue il calcio: negli anni ’90 l’Inter era nota per essere una squadra sfigata.


Emotivamente parlando, forse non ce l’ho una spina dorsale. O quantomeno, sarà spezzata in vari punti. Qualche palla di Natale barra organo vitale sarà cascato. Il fegato l’ho perso da tempo o forse non l’ho mai avuto. Lo stomaco sarà ulceroso, a forza di digerire amaro.

Dovrei rimettermi in sesto e forse anche in settimo con qualche esercizio che operi su mente e corpo. Ad esempio lo yoga antigravità. Questa sera ho appreso da una conoscente – una classica trentenne faccio cose vedo gente come ormai ne siamo in tanti in giro solo che a sentir parlare loro sembra che stiano lavorando a una cura per il cancro – che intende specializzarsi in questa disciplina di cui ignoravo l’esistenza. Quando l’ho sentita, ho pensato che fosse una cosa spettacolare: immaginavo gente che cammina sui soffitti come Spiderman.

Poi me l’ha spiegato e non l’ho trovato più così figo perché non soddisfava molto le mie aspettative supereroistiche.

Perché nessuno apre una scuola per supereroi? Volete mettere l’effetto che fa dire “Io insegno in una scuola per supereroi?”. Altro che faccio cose vedo gente.

Non so che problema abbiano le donne di oggi, ma mi sembrano tutte delle esaurite. O forse sono io a vedere in giro solo donne esaurite.

Poi scopro che il coinquilino della mia amica – l’artista “espansivo”, quello a cui per diletto ho spostato gli oggetti in camera perché a uno che si autodefinisce artista espansivo viene spontaneo fare degli scherzi da college – ogni week end rimorchia qualcuna da portarsi a casa. Parliamo di uno che vive da solo ma non sa lavare i piatti e a cui la madre prepara il pranzo e lava la stanza.

Certo, potremmo dire che per rimorchiare una sera non sono qualità necessarie: mica bisogna sposarselo. In fondo, un tizio potrebbe anche essere quello che scoprirà la cura per il cancro ma poi rivelarsi nel privato un completo imbecille.

Ma io penso esistano delle competenze che influenzano anche altri ambiti della vita: uno che avrà imparato da poco a utilizzare la carta igienica da solo, che abilità seduttive può avere mai?

Sono sempre più basito.

Non è che l’universitaria ansiosa è una tesa di laurea

Negli ultimi tre mesi ho fatto da ‘consulente’ a una ragazza per la stesura della tesi di laurea. Ho avuto modo di comprendere, grazie a questa esperienza, come è fatta una persona che vive fuori dal mondo.


Il Maestro di maturità

Pensavo di vivere io fuori dal mondo, perché ad esempio sono il tipo che quando vede un grande negozio di giocattoli devo entrare per cercare le spade laser di Star Wars oppure per guardare i Lego o provare le maschere dei supereroi. Forse si tratta di differenti modi di essere fuori dal mondo, la mia maturità – personificata dal tipo con la barba lunga delle serie Conosciamoci un po’ e Siamo fatti così – me lo dice sempre: “Gintò, ma o’ vir che gli altri trentenni e pure quelli più giovani si sposano e fanno figli?”. Al che ho realizzato una cosa: debbo sposarmi e fare figli così da avere il pretesto, per gli anni a venire, per poter frequentare i negozi di giocattoli.


La mia ‘cliente’ pur essendo al quinto anno complessivo di università e con  già una triennale alle spalle, non aveva la benché minima idea di come fosse fatta una tesi di laurea nella sua struttura basilare, intesa quindi come un testo composto da indice-introduzione-capitoli-conclusioni-bibliografia.


Poi ho avuto modo di capire che per la triennale fosse stato il padre a farle da ‘consulente’ e questo spiega tutto.


Non aveva alcuna idea, inoltre, su come si reperisse il materiale. Ma quello non è stato un problema: il padre le ha fornito dei libri, la madre dei documenti.

Specifico: la madre ha incaricato gli stagisti del suo ufficio di cercarle dei documenti.


E voi che scommetto associate lo stagista a uno che fa le fotocopie. Invece, se siete fortunati, potreste ritrovarvi nell’ufficio di una persona importante che vi incarica di cercare materiale per la tesi della figlia.


A quel punto è stato chiaro come questa famiglia rappresentasse bene un comandamento presente nella civiltà umana sin dai tempi più antichi, sembra fosse scritto anche sulle tavole di Mosè che poi per distrazione deve essersi dimenticato di tramandarlo: non fare qualcosa se gli altri possono farlo per te*. In questo meccanismo mi sono fatto volontariamente coinvolgere anche io, in cerca di possibilità di guadagno facendo il ‘consulente’.


 *A riprova della storicità di tale ammonimento c’è il fatto che il Dio biblico per l’appunto agiva spesso per interposta persona!


La ragazza, comunque, era molto in ansia per il rush finale verso la conquista di ciò che è volgarmente denominato “pezzo di carta”: il suo desiderio è il 110, cosa di cui non si riteneva sicura, partendo da un misero 108-109.

L’altra sua fonte di ansia riguardava la natura della consulenza: sarà giusto – si chiedeva – ricorrere a un piccolo aiutino? Per sicurezza, mi confessò una volta, aveva cancellato tutte le nostre mail per il timore di essere intercettata dalla polizia postale.

Non ritenni di dover fare domande (Quello il pazzo va assecondato, diceva Totò) e mi assicurai che le portiere della sua Smart – stavamo parlando in auto – non fossero bloccate.

Il fondo l’abbiamo toccato quando mi ha inviato un documento riservato, in possesso della madre, da utilizzare nella tesi, ovviamente senza citarlo né riportandone il contenuto, ma utilizzandolo soltanto come ispirazione. La raccomandazione era quella di eliminarlo una volta letto.


Non so che livello di riservatezza potesse avere – non parliamo di segreti di Stato, ovviamente – però di certo credo fosse un documento non disponibile per terze persone e privati cittadini. Ciò mi ha fatto riflettere sul funzionamento delle cose in Italia: la madre dà alla figlia un documento riservato – e già qui non ci siamo proprio – che, a sua insaputa, lo consegna poi a un illustre sconosciuto.

Ho pensato sarebbe stato divertente rintracciare la madre e presentarsi da lei facendole un discorso di questo tipo:
– Signora, in questa penna usb c’è il documento e la mail che sua figlia mi ha inviato. Ne ho una copia conservata in un posto sicuro. Sarebbe un fatto veramente increscioso se si venisse a sapere che simili importanti comunicazioni siano alla mercé del primo che capita, non trova? Per sua fortuna ha trovato una persona onesta come me…Le lascio qui la pennetta. Ah, posso chiederle un’informazione? Sa se per caso da queste parti o una qualche sua conoscenza assume dipendenti? Sa, cerco lavoro e pensavo che forse lei con le sue competenze e capacità potrebbe essermi d’aiuto…sa, se non ci si aiuta tra noi persone oneste dove si andrebbe a finire?

Sì, più o meno l’avevo visualizzata così la scena, prima di eliminare il file.


Vorrei poter raccontare altre perle ma scenderei troppo nei dettagli. Sono grato alla mia vita comunque per farmi incontrare sempre persone che non mi annoiano.

Nel martedì grasso per me solo magre figure

Ho sempre avuto un rapporto di odio e amore con le festività e il Carnevale, che si sta avvicinando, non fa eccezione. Le mie difficoltà nell’approcciarmi a tale festa nascono da anni di umiliazione a causa di una tradizione di tale periodo: il travestimento.

In genere da bambino ti travesti da ciò che hanno deciso per te i tuoi genitori: salvo poi, col passare degli anni, ottenere la possibilità di poter contrattare ed esprimere una preferenza. La cosa non mi ha preservato l’amor proprio dalla frustrazione per i motivi che andrò a spiegare in questo post.

Il primo costume di cui ho memoria, risalente ai tempi dell’asilo, fu da fungo. Amanita muscaria, per la precisione, solo che ovviamente all’epoca non sapevo si chiamasse amanita muscaria e che fosse più letale di un comizio di Scilipoti. Il motivo per cui nell’immaginario collettivo infantile qualcuno abbia diffuso un fungo velenosissimo come rappresentante del mondo dei miceti mi sfugge. Così come mi sfugge perché mai un bambino debba travestirsi da fungo!

Il costume era interamente fatto in casa, compreso il cappello, fatto di cartone e ricoperto di stoffa. Dato che ottenere una cupola tonda di cartone era alquanto complicato, il risultato fu che io in testa avevo un cappello a cono. Ero un fungo cinese, appena colto da una risaia.


Alle elementari ricordo due costumi ben riusciti: moschettiere, con tanto di baffetto a riccio fatto col mascara, e cowboy. Sorvoliamo che però il cowboy andava in giro con un anacronistico jeans, non tanto per il pantalone, che esisteva all’epoca, ma per l’enorme targhetta della marca che di sicuro non c’era all’epoca di Jesse James.

In quarta elementare volli vestirmi da Tartaruga Ninja. Da Leonardo, per la precisione, perché era quello più serio e coraggioso. Ciò che volevo, in realtà, era il costume preconfezionato che vendevano nei negozi di giocattoli e del quale la pubblicità durante Bim Bum Bam mi aveva fatto il lavaggio del cervello. Ovviamente non lo ottenni, anche perché, secondo i miei genitori, non era aderente alla realtà. Tanto per cominciare, aveva il guscio marrone, mentre avrebbe dovuto essere verde scuro.

La soluzione fai-da-te non mi sembrava molto più somigliante: un cuscino verde attaccato alla schiena. Ripeto, avevo un cuscino verde attaccato alla schiena. Ero un ninja del pisolino. Il piastrone davanti era invece un rettangolo di stoffa arancione cucito sul torace.

L’anno dopo chiesi Wolverine, ma per dignità mi rifiutai di andare in giro in mutande e calzamaglia, così quello fu un costume morto appena dopo il parto. L’annoso problema dei supereroi che non hanno ben capito che la biancheria intima vada sotto e non sopra. Anche il mio eroe, nel vecchio style Marvel, soffriva di tale incomprensione.

In prima media fu l’ultima volta che mi travestii. Credo di averlo già raccontato, ero un bravo di Don Rodrigo. Il costume constava di: camicia bianca con le maniche a sbuffo, un gilet di stoffa marrone, un pantalone di velluto a righine color muschio esausto al quale fu attaccato lateralmente un nastro dorato, soprascarpe di panno marrone che davano l’illusione di un paio di stivaletti. Una retina in testa, una sciabola di plastica e un pizzetto disegnato a matita completavano il quadro. Non era neanche malaccio, anche se più che un bravo sembravo un cartomante di un circo gitano. Peccato che nessuno mi riconoscesse.
– Chi sei?
– Un bravo di Don Rodrigo.
– Ah.
Fui infine moralmente demolito da una compagna che, indicandomi col dito sentenzioso, disse
– Ma stasera alla festa vieni così?

A quel punto dissi basta.

Voi avete storie di travestimenti imbarazzanti?

(A proposito di carnevale, beccatevi un po’ di ska-punk)