Non è che serva essere musicisti per una nota di colore

Mi sono reso conto solo oggi che è parecchio che non salgo su un mezzo pubblico. Uno dei miei sport preferiti era osservare le persone. Chiedermi chi fossero e cosa facessero sulla base di qualche particolare.

A volte mi ispiravano un colore. Vedevo persone ‘nere’ o ‘blu’ o ‘rosa’ eccetera. In genere l’attribuzione del colore era sulla base dell’umore o del modo di porsi se chiacchieravano con qualcuno.

Le persone rosa, ad esempio, mi sembravano troppo svenevoli e stucchevoli nel loro parlare.

Le persone verdi non lo erano di rabbia, ma semplicemente neutre rispetto al mondo intorno. Quelle gialle caldo, paciose e rassicuranti.

Il viaggio su un mezzo, quando non avevo un libro con me, era accompagnato da tutta una fase di soliloqui interiori. Anche i miei monologhi mentali avevano un colore. In genere era legato al clima esterno, ma non sempre. Potevo avere pensieri positivi giallo-arancio anche con un temporale in corso, talvolta.

Il resto dipendeva anche dal contesto. A prescindere dal pensiero che avevo in quel momento, quello che mi spingeva mentre salivo o scendevo mi faceva vedere rosso. Che era il sangue che desideravo fargli scorrere dal naso.

Abbinare i colori alle persone mi fa venire in mente una filastrocca di Gianni Rodari che ci insegnò la maestra di italiano alle scuole elementari.

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’alzano prima degli uccelli
e han farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gli imbianchini;
gli operai dell’officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso:
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano un dito
ma il loro mestiere non è pulito.

Ho sempre trovato i colori un dato oggettivo, purché non si insistesse troppo sulle sfumature. Intendiamoci, in certi casi è utile essere precisi, mentre in altri distinguere un rosso carminio da un rosso cremisi o un blu petrolio da un blu anatra (ma poi le anatre non hanno la testa verde?) è una cosa di cui non me ne cale né tanto né poco.

Però a volte anche senza andare nel dettaglio dei pantoni non ci si trova d’accordo. Per me è rosso, per te è mattone. E va bene così, perché, parafrasando il bambino di Matrix che sosteneva di dover giungere alla verità, cioè che il cucchiaio non esiste, la realtà è che i colori non esistono.

Quindi, non esiste giallo, arancio o rosso.

Però secondo me il marrone sì.

Non è che devi per forza lavorare al supermercato per etichettare

Sono M.E.B..

Che non vuol dire Maria Elena Boschi. Sta per Maschio Etero Bianco.

Non ho mai avuto problemi per l’appartenenza a queste tre categorie. Al massimo sono stato oggetto di scherno per l’insinuazione di non appartenervi abbastanza. Si sa come sono i ragazzi: coglioncelli.

Al liceo se non mostravi di posseder figa – perché non ci si accompagna, il vero MEB ce l’ha come proprietà – potevi esser accusato di non soddisfare appieno la voce E. Oppure di indugiar soltanto nelle attività manuali. A me è andata bene, capitò appunto di esser accusato della seconda. Meglio onanista che ricchione, si diceva.

Alle scuole medie  l’esser M lo si dimostrava righello alla mano. Mi sono sempre sottratto a queste discipline geometriche. Non perché avessi dubbi su di me. All’inizio. Poi alcuni compagni iniziarono a vantare virtù elefantiache e allora smisi persino di andare a orinare a scuola per non sottopormi a imbarazzanti rivelazioni. Suppongo quei compagni ora siano tutti dediti al cinema d’intrattenimento adulto professionale viste le loro presunte dimensioni artistiche.

Durante le scuole elementari, invece, ero più scuro di adesso. Poi negli anni mi son sbiancato: effetto Michael Jackson, probabilmente. Non ho avuto particolari criticità a parte quando nel club degli Acchiappafantasmi dissero che io al massimo potevo fare “quello nero”.

Accantonati questi patetici trascorsi scolastici, oggi vivo l’età della consapevolezza, conscio del mio esser MEB e certo che nessuno mi fischierà, additerà, guarderà con sospetto in strada perché io in quanto MEB ho pieno diritto di fare e disfare quel che mi pare.

Il MEB è socialmente intoccabile.

A parte qualche giorno fa.

Non ho mai fatto mistero di esser del Napoletano (tra l’altro non vedo perché dovrei). L’altro giorno ero per lavoro nel Salernitano, insieme ad altri colleghi. Una signora di una cittadina di quelle parti, sentendo delle origini, fa, accigliandosi (giuro):

– Ah…siete di Napoli…

Cambiando discorso, mi metto a parlare con lei del più e del meno. Lei non so perché ci tiene a raccontarmi della figlia che vive a Reggio Emilia:

– Lei sta da sola là…come si deve fare…Che poi, pure là…ci sono un sacco di napoletani…

E di nuovo si acciglia.

E io avrei voluto dirle: “Signora, cos’ha da dire? Insinua che non siamo anche noi dei MEB?”.

Poi mi son ricordato di tutte le battute sui napoletani che ho sentito. Di tutte le volte che da gente di fuori Napoli ho sentito dire, nello stesso tono preoccupato e rassegnato della signora di cui sopra, che “Qua si stanno trasferendo un sacco di napoletani…”

Mi sono ricordato di tutte le volte che qualcuno mi ha detto “Però! Non sembri di Napoli”. Come se si aspettassero forse che io parlassi urlando, saltassi all’improvviso sulla sedia per intonare Abbiamo un sogno nel cuore Napoli torna Campione e mangiassi solo pizza e sfogliatelle.

Com’è possibile? Io sono un MEB. Riconoscetemi in quanto tale!

Per carità, queste son sciocchezze. Sono aneddoti per strappar una piccola risata perché, in sostanza, qui sopra scrivo per rider di tutto e niente. Puttanate, stronzate, per dirla in francese.

Però che la gente sia cogliona, questa non è una stronzata. Che ami etichettare, aver pregiudizi, offendere, insinuare, questa non è una puttanata. Lo vedo fare ogni giorno su chiunque essere umano non si trovi in una condizione di privilegio. E allora per costoro ho coniato una nuova etichetta: BEM.

Bastardi Emeriti Minchioni.

Non è che se sbagli i congiuntivi ti senti in pericolo perché la situazione è grammatica

Alle scuole elementari ero un vero asso nelle gare di coniugazione verbi. Bisogna dire che non mi ci applicavo neanche. Per me era una questione di tonalità. “Se io avessi saputo” ha una tonalità gradevole rispetto a “Se io avrei saputo”, che suona come delle unghie su una lavagna. Era tutto qui. Non mi sforzavo a ricordare le regole grammaticali. A dire il vero non sono mai stato neanche uno studente sgobbone.

Le gare di coniugazione, però, alla fine le perdevo sempre. Erano gare a squadre e sia che io stessi nella squadra dei maschi, sia nella squadra del lato est (o ovest) dell’aula, mi trovavo sempre nella parte più scarsa e a nulla serviva la mia prestazione sopra la media.

insegnante

È tutta la vita che mi sembra di ritrovarmi sempre dal lato sbagliato. Di quelli che hanno compiuto un errore di collocazione.

E pensare che c’è gente che, masticando aforismi e defecando stronzate, si sente fiera di dirsi seduta dal lato del torto. A me in tutta sincerità non farebbe specie star dalla parte della ragione. O quanto meno di quella dei ragionevoli, ma sono testardo e anche questo non mi giova.

Non è che la ginecologa con dei disturbi legati al lavoro abbia le turbe di Falloppio

Non ho mai ricevuto un’educazione sessuale, se si esclude una precoce iniziazione con Postalmarket proseguita poi con l’anime di Lamù.
Senza andare poi a scomodare le pagine della finta posta del Cioè rubato alle compagne di classe.

Fin dal primo episodio evidenziava il proprio potenziale formativo.

Fin dal primo episodio evidenziava il proprio potenziale formativo.

Quel che ho poi imparato in maniera più seria l’ho appreso di mia iniziativa sui libri. Un po’ per desiderio di conoscenza, un po’ per quella pruriginosa curiosità che può avere un ragazzino.

La prima reazione fu quella di pentirmi del prurito. Insomma, uno dovrebbe poi infilarsi in un posto umido, a volte maleodorante, dalla dubbia estetica e pieno di batteri? In pratica è come entrare in un ristorante cinese.


Beata ingenuità infantile.


Gli insegnanti non hanno mai offerto molto supporto, seppur i vari testi scolastici trattassero l’argomento, con differenti modalità.

Il sussidiario di scienze delle scuole elementari spiegava in un paio di pagine la riproduzione, anche se senza alcun riferimento anatomico: ricordo i disegni di una cellula uovo (stilizzata) e di uno spermatozoo che vi si appropinquava. Quest’ultimo era raffigurato come fosse un biscione nero.


In pratica sul libro avevo il logo dei Queens of The Stone Age:


Il libro di educazione fisica delle scuole medie era molto più dettagliato e completo.

Peccato che un libro di educazione fisica in una classe sia cosa più inutile di un frigorifero in Groenlandia.

Le due ore scarse – il professore aveva divorziato dalla puntualità – di lezione a settimana erano dedicate soltanto a calcio (i maschi) e pallavolo (le femmine). E se eri masculo non giocavi con le femmine: oggi dicono che ci si ammala di gender, allora ti davano del ricchione.


E qui che si capisce che non serve alcuna educazione sessuale: non si deve inculcare ai ragazzi l’idea che non sia normale dare del ricchione a qualcuno.


Qualche volta, quando si era in pochi in classe, abbiamo permesso alle femmine di giocare a calcio con noi. Loro potevano fare cose riservate all’altro sesso ma solo per gentile e temporanea concessione da parte nostra, revocabile in qualsiasi momento.

In genere la partita finiva quando una ragazza rimaneva acciaccata da una pallonata sul petto o sul basso ventre. Quella fu un’altra lezione di anatomia: le parti intime femminili sono delicate e sensibili anche al Super Santos.

Ricordo una sola occasione in cui aprimmo il libro di educazione fisica, in un giorno di pioggia e con le palestre inagibili.

Il professore lesse un capitolo riguardante la pubertà. Finita la lezione chiuse il libro senza aggiungere una parola di spiegazione, della serie Questo è, il mio dovere l’ho fatto.

Quella si potrebbe avvicinare a essere stata una lezione di educazione sessuale avuta a scuola.

A casa invece l’unico insegnamento ricevuto fu quando Madre mi disse “Non portarci nessun dispiacere a casa, capisci a me“, alludendo al prestare attenzione a non impollinare improvvidamente qualche fiore.

Mi sono tornati in mente questi ricordi dopo aver visto un video su Internazionale in cui una giornalista e una regista si interrogano su quanto le persone, in particolare le donne, conoscano la struttura dei genitali.

I risultati sono un po’ sconfortanti. Saranno magari casi estremi ed estrapolati da un contesto, anche se a volte mi chiedo quanta educazione intorno certi temi ci sia tra la gente.

Se molti devono istruirsi da sé – e io almeno avevo l’interesse verso libri di divulgazione – non posso allora considerare inusitato che ci sia chi confonde vagina e vulva o che pensi che l’uretra sia una cantante soul.


La famosa Urethra Franklin.


In realtà tutto il post era teso ad arrivare a questa battuta.


Non è che per giocare a polo devi spegnere il riscaldamento

Il ritorno al lavoro dopo un periodo di ferie è un evento traumatico, in genere. È una sveglia del lunedì mattina moltiplicata in modo esponenziale.
È una cefalea pulsante.
È un programma televisivo pomeridiano dove una donna racconta di essersi ripresa da una sbronza dopo che le è apparso Paolo Brosio e il pubblico inquadrato si commuove e fa anche l’espressione di chi non si accorge di essere inquadrato.

Per me non è così.

Sono il tipo di individuo che, sin dai tempi delle scuole elementari, vive il rientro con positiva agitazione.

Nei giorni precedenti avverto tristezza per la fine delle vacanze, ma quando è il mattino del ritorno al dovere mi ritrovo invece piacevolmente ansioso di ricominciare, rivedere persone note con cui condividere esperienze, scoprire le novità che il nuovo inizio porta.

Tale fanciullesco entusiasmo si è poi ogni volta rivelato effimero. Durava il tempo necessario per tornare a odiare le persone note e le esperienze color marrone che le riguardavano. Senza considerare che le uniche novità che la vita offre si trovano al massimo nel volantino di un supermercato che deve liberarsi dalle eccedenze di magazzino spacciandole per nuove offerte.

Durante il periodo della scuola, il ritorno dopo le vacanze di Natale significava fare i conti con i termosifoni che non funzionavano a dovere, essendo stati spenti per due settimane. È ciò che sta accadendo anche in questi giorni in vari istituti lungo lo Stivale. È bello vedere una continuità storica tra le generazioni.

Quando ero a scuola io però nessuno mai ha sollevato polveroni per il fatto che in classe eravamo costretti a stare col cappotto.
Anche perché probabilmente visti i nostri edifici sarebbero stati polveroni di amianto e non era il caso quindi di sollevarli.

Alle elementari per esorcizzare il gelido periodo alcuni di noi inventarono “La Banda FBI”, con un arzigogolato collegamento logico.

Si sa che gli investigatori vanno in giro sempre in cappotto o impermeabile anche a Ferragosto. Tanto per loro poco cambia perché in qualsiasi periodo dell’anno c’è buio e/o pioggia e/o freddo. Ebbene, noi che indossavamo il giaccone in classe e nei corridoi eravamo quindi come dei detective.


È un po’ come dire che mettendosi una boccia di vetro in testa si è un astronauta. E solo ora realizzo che questa sarebbe stata un’idea più divertente di quella dei detective.


Domanda: ma se tutti indossano giacconi e cappotti cosa rendeva degni di appartenere “all’FBI” solo alcuni?

La simpatia.

Una delle regole non scritte del mondo infantile è che qualsiasi decisione viene presa democraticamente a simpatia. Se piaci sei dentro, se non piaci sei fuori. Insomma, le giurie popolari non le hanno inventate mica gli adulti.

E io piacevo o no?

Io a dire il vero sono sempre stato “un tipo” e quindi andava come capitava.
Alle volte ero dentro, altre volte ero fuori.

Ironia della sorte quando crescendo si è cominciato a parlare di ragazze mi sono sentito anche io, come tanti, dire “Sei simpatico, ma…” al che ho replicato “Allora se ti sto simpatico formiamo una banda!” ma lei mi ha guardato strano ed è fuggita.


Per la cronaca, fui “dentro” l’FBI, ma solo perché avevo un bel giaccone che aveva anche uno stemma sul petto all’altezza del cuore che sembrava tanto un distintivo. Ebbi quindi il dubbio che non fossi io quello simpatico alla banda, ma il mio giaccone, e provai un sentimento di rancorosa invidia.


 

Non è che il disegnatore attraversi sulle strisce a fumetti

Ultimamente in mezzo ai blog che seguo o, più precisamente, in mezzo a quella che è la cellula più attiva, mi sento in preda alla sindrome da spogliatoio maschile.

Tutti artisti. Tutti cui io guardo di sfuggita, metaforicamente, il pene. Comparandolo col mio.
Alidivelluto mi ha sbattuto in faccia il suo pisello, per chiudere il cerchio!

Molti disegnano.

Io non ho mai saputo disegnare, fatta eccezione per le scuole elementari quando i miei disegni venivano elogiati dalla maestra perché, al posto di disegnare la classica casetta con l’alberello e il sole, io disegnavo una casa che si spostava sulle proprie gambe, un albero parlante e un sole che, poverello, si lamentava della propria soletudine.

Purtroppo il mio stile è rimasto quello di un bambino.
Io lo so che è soltanto un inganno della mente, che tutti potremmo disegnare (certo non diventare Michelangelo), basta semplicemente spegnere la parte razionale del cervello e iniziare a disegnare con quella creativa. Forse prima dovrei disegnarmi un interruttore per switchare.

Com’è come non è, io disegno brutto.

E lo so cosa pensate: che non avete nulla contro la bruttezza né contro i brutti, sono persone come le altre. Anzi, voi avete amici che fanno brutto. Soltanto che, magari, potrebbero non ostentare la bruttezza. Facessero brutto in privato. Perché poi come spieghi a un bambino un adulto che fa brutto?

Ebbene, io da oggi rivendico il mio diritto a esternare la bruttezza e viverla in libertà. Per strada, sui mezzi pubblici, al parco. Ovunque.

Pertanto, voglio inaugurare una mie serie di strisce a fumetti. Brutte, ovviamente. Non so quanto durerà perché tendo ad annoiarmi presto di ciò che faccio.

Brutte strisce #1

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Non è che nel Signore degli Anelli l’essenziale sia invisibile agli orchi

Oggi il Capo ci ha comunicato che a breve la società cambierà nome. Decisione della nostra consorella di Bruxelles.

Anche se più che sorella maggiore, per potere e dimensioni sembra una suocera.

Dovremmo assumere quindi il nome del gruppo di cui facciamo parte (Pinco Pallino) + Central Europe. A meno di non avere altre proposte di denominazione.

Al che mi sono alzato (metaforicamente perché sono rimasto seduto) e ho detto che, sì, suonerebbe più internazionale ma finirebbe per far smarrire identità alla società. Sarebbe forse meglio un qualcosa come Pinco Pallino Hungary oppure Pinco Pallino Budapest.

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È sempre positivo con gli ungheresi far leva su questioni come l’identità e l’orgoglio, ovviamente esaltandoli. Ad esempio, per guadagnare la loro stima puoi parlare di calcio citando la squadra storica (non è che poi il panorama calcistico nazionale offra altri esempi), l’Aranycsapat (“la Squadra d’Oro), cioè l’Ungheria degli anni ’50 che arrivò a giocarsi un Mondiale con la Germania. Acquisterai punti ai loro occhi.

Da questo punto di vista ci sarà molta attesa per i prossimi Europei di calcio, dove la squadra nazionale si è qualificata dopo anni. Vorrò essere altrove in quei giorni perché ho sempre remore a dire agli altri che non me ne importa nulla del loro entusiasmo e non me ne sento partecipe.


So fingere tante cose (tra cui anche orgasmi ma questa storia la riservo per momenti peggiori) ma l’entusiasmo non rientra tra le cose su cui riesco a recitare.


Come quella volta che arrivai a Londra il giorno della finale di Wimbledon tra Murray (idolo di casa seppur scozzese: gli inglesi storicamente si son sempre presi ciò che gli serviva) e Federer nel 2012.

La tizia che mi mostrò la stanza ci tenne a farmi presente che il televisore era funzionante e riceveva tutti i canali, in particolare quello che avrebbe trasmesso l’incontro.
– Perché, sai, oggi c’è la finale di Wimbledon, alle 16 (orario inventato perché non lo ricordo).
– Ah, sì, certo, la finale. Dissi io.

Il pomeriggio ovviamente me ne sono andato in giro perché non ero affatto interessato alla finale di Wimbledon.


NOTA 1
Non riesco a farmi piacere il tennis.
Ho un problema con uno sport dove è previsto il silenzio. Per me lo sport deve essere rumoroso, perché se non puoi fare rumore non so come ci si possa divertire.


NOTA 2
È lo stesso principio che seguivo per le feste alle scuole elementari. Non vedevo il perché andarci se non per fare casino.


NOTA 3
Poi arrivò la dannata festa delle medie (cit.) e cambiò tutto, ma su questo argomento c’è già una esauriente letteratura.


Insomma, col mio discorso sull’orgoglio identitario del nome li ho colpiti. O almeno ne sono convinto ma non ne sono certo perché non li guardavo in volto mentre parlavo.

Ho l’abitudine, quando dico qualcosa di serio, di fissare un punto a medio-bassa altezza davanti a me e tenerlo lì inquadrato, muovendo anche le mani come Alberto Angela intorno a qualcosa che vedo soltanto io.

È il discorso. È lì, prende forma mentre esce dalla mia bocca. Lo plasmo con le mani. Lo vedete?, penso mentre parlo. Poi alzo gli occhi e mi accorgo che gli altri non hanno visto un bel niente e credo non mi abbiano dato molto retta. Faccio discorsi invisibili seppur – credo – interessanti. È proprio vero che l’essenziale è invisibile agli occhi, come disse Galileo Galilei prima di inventare la fotocamera digitale.

Non parlo comunque sempre in questo modo. Fissando punti inesistenti davanti a me, intendo.

Ad esempio, Ti amo l’ho sempre detto guardando negli occhi.
Non è per quella convinzione che si è sinceri solo se ci si guarda negli occhi e se distogli lo sguardo allora significa che eccetera. Trappole da mentalisti.

Semplicemente, anche in quel caso sto seguendo un discorso. Negli occhi dell’altra persona. Come se ci fosse un “gobbo” che regge il cartello con scritto “Ti amo” celato nell’iride altrui.

Perché secondo me l’amore non è un qualcosa che nasce dal di dentro. Non del tutto, almeno. L’amore è lì fuori, prende corpo nelle altre persone. Lo andiamo semplicemente a cercare per riacquisirne il contatto. Come si spiegherebbe che si possa pensare a persone lontane centinaia e centinaia di chilometri se non con il fatto che hanno un qualcosa di nostro dentro di loro e che noi rivogliamo.

A volte c’è chi poi esagera e trova amori troppo facilmente e di continuo. Secondo me costui/costei o si è spezzettato/a troppo o vede amori altrui come se fossero i propri e allora lì è un problema perché non c’è mai amore per tutti.


È un discorso molto da libro di Moccia, ne convengo. “Amore è abbassare la tavoletta del water”, da venerdì in tutti gli Autogrill in promozione con “50 sfumature di Topo Gigio”.


La questione dei nomi è comunque intrigante.

Ho scoperto che nel nostro stabile al piano interrato prolifica una società hipster.
Prima scoperta è che quindi gli hipster sono qui più diffusi di quanto pensassi e si radunano insieme, seppur nei seminterrati.

La seconda scoperta è che questi hipster sono quelli di BP Shop, linea di abbigliamento marchiato Budapest: loro cavallo di battaglia è lo slogan Buda Fucking Pest.

Geniale, non c’è che dire. Avere successo è trovare il nome giusto e diffonderlo in giro.

La prima impressione che avevo di loro si ricollegava a una battuta di Bart Simpson: Guardatemi, sono un laureato, ho guadagnato 600 dollari l’anno scorso!

Poi ho scoperto che in realtà i loro affari vanno abbastanza alla grande e allora forse Bart Simpson si addice più a me. 

E quindi il tutto sta nel farsi un nome ed essere visibili.

Non è che in Ungheria tu possa dire Pest e corna di qualcuno

Coltivavo ancora una speranza che dalla Federazione Autisti Operai potessero farmi sapere qualcosa nelle settimane a venire (puntata precedente). Ma lo stare così parcheggiato come un panchinaro mi gettava un po’ nello sconforto.

Percepivo di nuovo quella sensazione di spegnimento che accuso in alcuni periodi della mia vita e che necessita di un riavvio a spinta. O a calci.

L’anno scorso, in un periodo simile, venni a sapere che una ragazza che conoscevo si era uccisa. Avvenne il giorno della sua laurea o presunta tale: in realtà aveva mentito sugli esami ad amici e parenti fino a quel giorno.

Non la vedevo dalle scuole elementari, ma la cosa mi sconvolse gettandomi in una profonda inquietudine. Continuavo a chiedermi, nei giorni successivi, cosa pensasse, come si sentisse in una vita che probabilmente le era sfuggita di mano.

Qualche giorno dopo andai dalla mia ex (ora ex al quadrato) a dirle che pensavo ancora a lei. Pur sapendo che non ne avrei ricavato niente. Ma ero terrorizzato dall’idea di morire da un momento all’altro senza togliermi un peso.


Non so perché pensassi di morire da un momento all’altro ma lo pensavo.


Settimane dopo, mandai il cv a una ong che cercava qualcuno per un lavoro in Albania. Non era così campato in aria, anzi sarebbe stata la cosa più attinente alla mia laurea che avrei fatto sino a quel momento.

Ovviamente non mi presero, perché ero senza esperienza.

Quando raccontai questa cosa a due ex colleghi di università, loro si scambiarono un’occhiata sorniona e sarcastica come se avessi detto che da quel giorno avrei cominciato a girare in gonna e autoreggenti.

Mi resi conto che gli ignoranti cominciavo a non tollerarli più. Ma non ignoranti nel senso di persone senza cultura o conoscenze: ognuno di noi è ferrato su alcune cose e su altre no, quindi l’ignoranza è sempre relativa. Per la serie “Lei è ignorante nel senso che ignora e lei è imbecille nel senso che imbelle”.

Poi non ho più riprovato questa strada sino a quest’anno: nel frattempo ho fatto un lavoro che mi teneva impegnato 45 ore a settimana sino alle 22 di sera per poche centinaia di euro e che mi ha procurato una gastrite, un incidente stradale e l’avvicinamento all’ignoranza forse assoluta.


Se qualcuno mi scrive “via Leonardo d’Avinci” io comincio a dubitare seriamente del sistema scolastico.


Venendo al sodo o all’occhio di bue, dalla Federazione Autisti Operai non ho ancora saputo nulla e a questo punto credo mai lo saprò: oggi ho sostenuto un colloquio per andare a Budapest. Mi vogliono lì dal 1° dicembre.

Quando venerdì mi hanno detto di quest’opportunità, le prime cose che ho pensato sono state:

  1. Oddio lì non c’è l’euro.
  2. Oddio hanno una lingua non indoeuropea.
  3. Oddio come farò a vedere il nuovo Star Wars al cinema?

Ora sto lentamente cominciando a fregarmene. Della partenza improvvisa, delle difficoltà, di tutto.


Anche se la cosa di Star Wars è difficile da digerire.


Perché sono stanco. Forse lo spiegherò in un altro post.

Mi dispiace lasciare Roma. Mi ha fornito tanti spunti interessanti.

Quest’oggi l’ultimo: mi siedo nell’autobus. Di fronte a me si siede un tale che sembrava Edward Nygma 10 anni più vecchio. Anche gli atteggiamenti ansiogeni sembravano quelli del personaggio.

Mi fa, a un certo punto:
– Scusi, sa…se questo autobus ferma in qualche posto…
– Come?
– Se si ferma in un qualche posto…un deposito…cioè un posto…
– Al capolinea?
– Sì! Al capolinea.
– Certo, arriva sino a xyz.
– Ok, grazie.
– Però non è un deposito di autobus, cioè è uno spiazzale e basta, eh.
– Sì sì, sta comunque fermo 2-3 minuti e poi riparte, vero?
– Sì, certo.
– Grazie.

Giuro sulle mie 7 vite che è tutto vero. E per questo vi prego.
Vi scongiuro.
Spiegatemi il significato di questa conversazione.

Forse ho incontrato davvero l’Enigmista?
Un Enigmista dall’accento barese, tra l’altro.


Poi dopo mi ha detto altre cose, che cerca casa a Roma ma è difficile. Cerca lavoro a Roma, ma è difficile. Io mi son limitato a commentare “Sì, è difficile”.


 

Non è che l’età avanza e tu puoi conservarla in frigo

Ci riflettevo questa sera dopo l’allenamento. Al corso ci sono dei ragazzi del ’96. 1996, non so se ci si rende conto della cosa. Da quand’è che sono maggiorenni quelli del 1996? Quando io facevo l’esame di maturità, presentandomi alla commissione con dei pantaloni hip hop enormi, un bracciale borchiato al polso e una catena al collo, costoro erano alle scuole elementari. Me li immagino, col grembiule, tutti un po’ impacciati coi loro zainetti colorati seduti in banchi minuscoli.

E ora pensare che in teoria io con una del 1996 potrei legalmente uscirci a cena.

Sì ma poi di cosa parleremmo? Degli 11 anni che si è persa perché non c’era? Io i primi miei 5 anni di vita non li ricordo mica bene.

Ricordo i festeggiamenti per il secondo scudetto del Napoli, che tra l’altro neanche avevo capito cosa fossero, pensavo si trattasse di una festa popolare o una sagra paesana o una festa paesana o una sagra popolare, insomma c’era questo sventolio di bandiere, fuochi d’artificio e gente per strada e tutto ciò che mi chiedevo era se si svolgesse ogni anno questa celebrazione perché le bandiere e i fuochi mi piacevano. Alla mia domanda Madre rispose “Se il Napoli vince pure l’anno prossimo, sì” e io tacqui ma non avevo mica capito bene cosa c’entrasse il Napoli con una festa di paese.

Ricordo il Muro di Berlino. Anche qui manco avevo compreso gli eventi e credevo che invece di buttarlo giù lo stessero costruendo.

Ricordo il mio primo giorno di scuola, in cui entrai in classe accompagnato da Madre che mi aveva istruito sull’importante prova cui ero chiamato: all’ingresso mi avrebbero detto “Come ti chiami?” e io avrei dovuto rispondere fornendo il mio nome e cognome. Insomma, come un gioco di spie, con frasi segrete e parole d’ordine. Ricordo mi si avvicinò questa signora occhialuta che mi ricordava un po’ Nonna Papera che si chinò e pronunciò la formula di rito, alla quale risposi evidentemente in modo corretto perché poi fece un segno su un foglio di carta. Pensai fosse una pensionata che faceva volontariato nella scuola svolgendo questi compiti di accoglienza – già da bimbetto avevo sviluppato il caustico cinismo che mi contraddistingue – ma poi scoprii che era la maestra di matematica ed era la più importante della triade di maestre che ci educava.

La maestra mi chiamava “chiapparié”: non ha nulla a che fare con le chiappe, tranquillizzatevi. I chiapparielli non sono altro che i capperi. Non so che cappero c’entrassi con i capperi io, forse sarà stato perché ero piccolino e scuro (poi con l’età mi son sbiancato, un po’ come Michael Jackson).

Dalla maestra ho ricevuto anche qualche scappellotto. Meritato, a dire il vero. Roba che oggi farebbe accorrere le telecamere del Tg5 nella “scuola degli orrori”, causerebbe il licenziamento della maestra e porterebbe le mamme a organizzare un flash mob al grido di “Nessuno tocchi il bambino”.

Dovrei raccontare questo a quelli del 1996? Manco sapevo della loro esistenza, pensavo ci fosse stato un blocco delle nascite negli anni ’90; dicono tutti che la popolazione invecchia ma io mica me ne sono reso conto di essere invecchiato.

Ho deciso, dall’anno prossimo cambio rotta, cambio stile, scopro l’anno bisestile.

E voi cosa raccontereste a quelli più giovani che si sono persi gli anni in cui non c’erano? O cosa vi fareste raccontare? O cosa mi raccontereste?

Non è che se dichiari guerra al trasporto pubblico puoi gridare “All’Atac!”

(si intravede dietro delle alte mura una grossa cupola) Ehi, dove siamo qui?
– Questa è S. Pietro, oh.
– Dai dai scendiamo qui, su (scrollandolo per le spalle).
– Oh? (infastidito)
– Sì dai – schioccando la lingua* – qui ci sono i marocchini e io devo contrattare per una borsa.


Perché mai nei libri, quando qualcuno parla, deve sempre schioccare la lingua? Voi schioccate la lingua spesso mentre parlate? A me non succede, sono forse anormale?
La ragazza comunque non ha schioccato la lingua, l’ho scritto per capire che effetto e che tono desse al discorso ma il risultato non è stato come speravo.


Quelle riportate sono le uniche parole che sono riuscito a comprendere. Il resto del tempo loro e altri due ragazzi hanno parlato esprimendosi in pugliese stretto. È una dialetto che economizza sulle vocali: in pratica è come recitare un codice fiscale.


DIDASCALIA LINGUISTICA
Credo sia inesatto da parte mia parlare di un dialetto pugliese, viste le varianti esistenti dal Gargano al Salento: credo che quello che parlavano i 4 fosse foggiano.


Non avevo mai considerato S. Pietro come meta di pellegrinaggio del falso. Si apprendono sempre cose nuove nei momenti inaspettati, come accadutomi alle 14 di un attivo lunedì pomeriggio.

I mezzi dell’Atac non sono stati, a dire il vero, molto attivi. La metro A era interrotta mentre gli autobus procedevano come una canzone di Tullio de Piscopo: ad andamento lento. Persone che inveivano, individui rassegnati, turisti smarriti che pretendono di fare il biglietto a bordo come se stessero a casa loro. Qualcuno mi pesta il piede e mi chiede scusa, io con un cenno della mano e un sorriso do la mia assoluzione: le mie dita sono diventate come le antenne delle lumache, appena percepiscono il pericolo si rattrappiscono all’interno della scarpa piegandosi su sé stesse ed evitando il pestaggio.

L’aumento della densità interna dei mezzi quest’oggi ha portato a un incremento di personaggi interessanti come i foggiani che ho citato sopra.

Una signora cinese si reggeva in piedi aggrappandosi con una mano alla maniglia e con l’altra al pantalone del marito, ad altezza del pene o quantomeno dove avrebbe potuto trovarsi se l’uomo avesse l’abitudine di sistemarlo da quel lato. Al che mi sono chiesto: la signora cercava il pene del marito? Sapeva oppure che quella zona fosse libera e riteneva lecito aggrapparvisi? In ogni caso il signore e i suoi pantaloni non facevano una piega, io intanto ho distolto lo sguardo attirato da un folle che, sceso dal mezzo, ha tirato un calcio contro una paratia non so per quale motivo.

Sull’autobus delle 20 un anziano signore ha cominciato a parlarmi dopo che gli ho ceduto il posto. Ha esordito spiegandomi dei problemi intestinali e circolatori che lo portano a dover camminare molto durante il giorno, per poi raccontarmi – dopo che avevo dato delle indicazioni a due turiste straniere – dell’importanza di conoscere le lingue. Ha concluso infine raccomandandomi di fare attenzione a ciò che scrivono sui libri perché non sempre dicono la verità: lui tutto ciò che sa l’ha invece appreso dalla gente e dalla strada, perché a scuola c’è stato poco. Mi ha spiegato che mentre era in terza elementare il suo istituto fu bombardato durante la guerra e non ci tornò più.

Tra i due autobus ho incrociato una ragazza inglese che su un polpaccio aveva il tatuaggio del Tardis del dr Who.


Se non sapete di cosa sto parlando, correte a farvi una cultura. Meglio Tardis che mai.


Infine, su un altro autobus ancora, il primo della giornata, tra la folla in attesa sulla banchina ho inquadrato una ragazza che ho ipotizzato potesse essere napoletana. Quando l’ho sentita parlare, ho avuto conferma: era napoletana.

Ciò mi porta a stendere (con un gancio destro) un’altra teoria estetica dopo quella delle nanerottole svampite: noi napoletani siamo un gruppo etnico a sé stante e siamo riconoscibili ovunque. Mi è successo in molti luoghi, a Roma, a Bologna, a Milano, a Parigi, a Londra e anche a Nikko (Giappone): quando inquadravo qualcuno ponendo una scommessa con me stesso sul fatto che fosse napoletano, indovinavo sempre.


È una delle poche scommesse che vinco con me stesso, perché per il resto ho accumulato pesanti debiti di gioco e non so come ripagarmi.


Mi chiedo se sono riconoscibile anche io. Ricordo a proposito della riconoscibilità la maestra alle scuole elementari mi diceva “ti fai sempre riconoscere” e io non capivo cosa volesse dire perché mi conoscevano già quindi per cosa avrebbero dovuto riconoscermi? Ma questa è una storia che non riguarda l’Atac quindi non la riconosco.

Sono bello, sono sano, devo fare il vigile urbano. Ma il tempo si ambigua

Il mio curriculum si arricchisce. Dopo gli attestati di stima, ricevo certificati di sanità.

Tu sei una persona sana, uno dei pochi, mi dicono. Sano non inteso nel senso medico del termine, per quello ci vuole un certificato vero.

Credo l’ultima volta che ne ho ricevuto uno di quest’ultimo tipo, sarà stato 17 anni fa. Andai a richiederlo per poter partecipare a delle gare sportive interscolastiche, qualcosa come dei Giochi della Gioventù. A proposito: esistono ancora i Giochi della Gioventù?

L’atletica non va presa alla leggera
Mi iscrissi per l’atletica leggera. Competizioni che non partirono mai per mancanza di fondi. La mia vita scolastica è stata contrassegnata da perenni mancanze di fondi. Mancavano i fondi alle scuole elementari per avere una palestra attrezzata, mancavano i fondi alle scuole medie per le gare e per una sala computer, mancavano i fondi al liceo per una sede nuova (ironia della sorte, dopo aver fatto scioperi e manifestazioni, quando mi diplomai due anni dopo aprirono la nuova sede).

Un medico che da bambino non voleva guarire i ciliegi ma il proprio portafogli
Forse non partecipare fu meglio così. Il mio medico di famiglia mi firmò il certificato senza neanche visitarmi. Sì, ok, mi conosceva, ma non mi sembra un comportamento tanto coscienzioso. Ma il mio medico è più un salumiere: vai lì e ti spaccia un po’ di compresse dopo averti guardato le tonsille. Anche se ti fa male un ginocchio, lui prende la pila e ti guarda la gola. E poi ti rifila antibiotici.

La battuta tipica tra i suoi amici è ricordare un episodio di quando giocavano a calcetto insieme: infortunio di un elemento della squadra, accorre il nostro eroe e qualcuno grida “Chiamate un medico vero!”.

Per lui di certo fatico a dare un attestato di stima.

Io, invece, mi sono un po’ rotto di riceverli. In certi casi è anche controproducente.

Per esempio ho capito che al lavoro bisogna lavorare il giusto. Se mostri di lavorare molto, ti inquadreranno come uomo di fatica e rimarrai rinchiuso in quel recinto di considerazione.

Le situazioni di Lui&Lei
Credo sia questa la fine che ho fatto nei confronti di Giovane Responsabile dal Ciuffo e le Camicie a Quadri (infilate nei pantaloni, vergogna!). Questi nomi diventano sempre più difficili da affibbiare: volendo, dovrei aggiungere Che si fa le Sopracciglia e si Spruzza Liquido Abbronzante. Per carità, nulla contro gli uomini che si curano in modo maniacale, mi chiedo solo come poi funzionino le piccole cose del quotidiano rapportandosi con una donna. Nel bagno ci saranno due armadietti dei cosmetici, Lui&Lei? Serve un bagno spazioso, quindi. Oppure lui usa la roba di lei? Mi immagino poi le scene:
– Caraaaa, e che palle, ti ho detto che quando finisce la crema depilatoria devi comprarla!
– Carooo, alza quel culo liscio e vattela a comprare tu!
– E posso mai uscire per strada con una chiappa depilata e l’altra no?!
– Tanto non ti vede nessuno…a parte me, purtroppo!
– E se succede un incidente e mi devono portare all’ospedale…che diranno?! Metti che mi investano e gli infermieri debbano togliermi i pantaloni!
– Magari qualcuno ti butti sotto, prego succeda ogni giorno che esci di casa. Almeno la smetteresti di consumare le mie cose, anche quelle che non dovresti usare…
– Se ti riferisci a quella volta, ti ho già detto che mi ero tagliato col rasoio e stava uscendo un sacco di sangue e i tuoi assorbenti andavano benissimo per tamponare!
– …

Sì sì, più o meno è così che accade, lo vedo. Mi spiace per te, Giovane Responsabile eccetera. Stavolta sono stato io a inquadrare te.

In un recinto chiuso non ci sto (né con la destra ma nemmeno col PD)
Comunque è un po’ seccante riempire il cv di certificati e attestati.
La prossima persona che mi si avvicina per darmi una metaforica pacca sulla spalla, risponderò con un vecchio classico di Marco Masini.

Ma no, cos’avete capito? Stavate pensando tutti a Vaffanculo, scommetto. No no, io mi riferisco alla sua grandiosa cover di Nothing Else Matters.

E il tempo si ambiguaaaaa

E che dire de l’iguana dei passi tuoi? Picchi di scrittura ineguagliabili.

Masini poi dichiarò che “Ai Metallica piacque”. Credo il testo non l’abbiano letto affatto e non gliel’abbiano spiegato, anche perché è inspiegabile. E considerando che sono più di 20 anni che non fanno un disco che si avvicini alla decenza, i Metallica odierni non sono né autorevoli né affidabili.