Non è che ti serva una Reflex per avere una fotografia della situazione

Una delle cose più divertenti – lo dico con sarcasmo – del mio lavoro è dover, con una certa periodicità, aggiornare diversi file Excel condivisi per tener allineati i dati che sono inseriti su altri gestionali, in modo da poter permettere a chi fa un’estrazione periodica di quei dati di poter poi realizzare una fotografia reale dei carichi di lavoro degli uffici.

Questa fotografia fornisce sempre dei risultati che sono interpretabili in un unica maniera: siamo oberati di lavoro, stiamo lavorando più di quel che dovremmo/potremmo e le cose non sono destinate a migliorare.

Nel momento in cui abbiamo: a) fotografia, b) interpretazione della suddetta e c) proiezione pessimistica, cosa succede?

Il lavoro viene diminuito?
Vengono assunte più persone?
Verremo pagati di più?

La risposta è no, in tutti i casi.

Quindi perché passare il tempo a compilare file? Questa è una buona domanda. È semplicemente una cosa per la quale, con la quale e senza la quale tutto resta tale e quale.

Diciamo che credo sia diventato come una sorta di rituale pseudo-religioso. Non ha senso porsi la domanda se abbia un qualche ritorno concreto effettivo quell’azione: la si svolge perché va fatta, perché è diventata tradizione, perché poi magari se non la fai chissà cosa di brutto pensi ti possa accadere.

Ho cominciato quindi a pensare di regolarmi di conseguenza rispetto a quest’ottica per evitare una noia mortale che sottrae anche tempo a cose realmente urgenti. Essere esonerato dalla compilazione facendo un voto o un’offerta, per dire, fino ad arrivare a pensare di comprare un’indulgenza. Oppure diventare scismatico e portare avanti un mio concetto di credo lavorativo non basato sui rituali compilativi. Fingermi un praticante occasionale che compila i file soltanto a Natale e a Pasqua.

Le opzioni ci sarebbero, diciamo. Avevo anche pensato all’idea di diventare la massima autorità che sovrintende tali rituali, ma, ahimè, ci sono alcuni ostacoli: la prima è che chissà quanto tempo ci vorrebbe per scalare il potere. La seconda è che l’attuale eminenza in carica – in qualche post precedente credo di averla soprannominata, per comodità narrativa, Apprensina – ci tiene a dare il buon esempio e sgobba più degli altri. Allora, mi chiedo, a che pro essere a capo dei rituali se poi devi eseguirli anche tu?!

Non è che ti serva un pastore per l’immunità di gregge

La situazione di vivere in un’unica, grande, bolla comune ha creato una narrazione condivisa e, mi sia consentito finché è consentito, appiattita.

Mi chiedo se tutto ciò ci stia facendo assomigliare a uno sciame d’api: una intelligenza collettiva, dove l’emergere della condotta di azione e/o della linea di pensiero è frutto del collettivo e non si può riferire al singolo componente.

In parole povere: il mio pensiero in questi giorni è ancora mio o è frutto dell’intelligenza – o della deficienza in certi casi – collettiva?

Pipponi esistenziali a parte, è diventato difficile trovare altri argomenti di conversazione. Scruto i giornali speranzoso alla ricerca di qualche maxi retata per corruzione e peculato, mi accontenterei pure di perculato, un bel – si fa per dire – regolamento di conti mafioso, un funambolico furto di opere d’arte e gioielli, qualcosa del genere. Il campionato non c’è più e non si esce di casa, quindi anche i rozzi e banali e sempreverdi calcio&pheega non hanno più motivo di esistere.

Mi sono reso conto che per una settimana ho raccontato agli amici sempre lo stesso aneddoto, cioè di me che mi sono auto-isolato nell’isolamento (isolamento^2) per un possibile contatto a rischio avuto.

E ho realizzato di star diventando come quelli che durante un attentato o una catastrofe vanno in giro a raccontare che 2 anni prima erano passati proprio lì, in quel punto. Anche questa è una forma di deficienza collettiva.

Poi mi è venuta l’ispirazione per uscire dalla bolla narrativa: gli alieni.

Ho iniziato a guardare le 9 stagioni storiche di X-Files, che all’epoca di quando lo trasmettevano non avevo seguito dall’inizio, a parte qualche puntata sparsa o venendo poi a conoscenza della storia per altre vie.

Negli anni ’90, forse sulla scia della iperproduzione di fantascienza del decennio precedente, c’era stato un nuovo boom del tema degli extraterrestri, al cinema sbancavano Independence Day e Man in Black, venivano pubblicati (o ripubblicati) libri sull’argomento e diversi siti di c.d. controinformazione trattavano dell’argomento. Oggi se chiedo a uno nato del 2000 del Triangolo delle Bermuda penserà magari a una acconciatura pubica e se parli di complotti ti nominano al massimo Soros e i laboratori cinesi.

Secondo me sarebbe ora di riportare in auge il tema degli alieni.

Perché sappiate che la verità è la fuori.

E circola senza autorizzazione scritta.

Non è che ti serva un sarto per metterti alla prova in altre vesti

Quando bisogna nuotare a delfino, l’istruttore, con sarcasmo e umorismo del tutto personali, ripete sempre che la cosa importante di questo stile è il movimento di bacino. Lo dice mentre mima delle spinte pelviche, alludendo che noi allievi siamo poco allenati in questo tipo di movimento.

Non ha mai fatto ridere. Spero sempre che dopo un tot di volte ci strappi un sorriso per dargli una soddisfazione. Forse è per questo che lo dice sempre.

Si è imprigionato in un ruolo, quello del simpatico, che egli stesso si è creato. Non è più lui a produrre la battuta, è la battuta che produce lui.

Il fenomeno della spersonalizzazione del parlante lo noto soprattutto nei romanzi. Ci sono libri, anche scritti molto bene, in cui i personaggi conversano in un modo del tutto irreale, che non attribuiresti a persone con quelle caratteristiche, in quel contesto, con quei tratti culturali. Ti rendi conto allora di non ascoltare più la voce del personaggio che sta parlando, ma una voce astratta che diventa uguale per tutti.

Ad esempio, immaginiamo due trentenni che convivono. Lui rientra a casa con le buste della spesa:

– Ti sei ricordato di prendere l’Anitra WC?
– Lo sapevo…me ne sono dimenticato…la mia solita memoria!
– La dimenticanza è sempre un brutto demone. Spesso fingiamo di non ricordare quel che ci arreca dolore, lo seppelliamo nella soffitta della mente e non ci pensiamo più. Ci abituiamo allora a dimenticare. Solo che quando qualcuno arriva a rovistare nelle nostre vite temiamo che ci metta a soqquadro e tiri fuori quel che abbiamo nascosto. Questa è la condanna delle relazioni tra esseri umani.

Il nonsense qui sopra potrebbe benissimo comparire in un qualsiasi romanzo che soffre dell’artificiosità dei discorsi  (il “romanzese”, di cui parlavo anche in un altro post) cui accennavo sopra. Quando mi imbatto in una cosa del genere non riesco più a visualizzare i protagonisti del libro. Vedo solo delle figure, dei manichini, che portano in giro sofismi che non gli appartengono ma che gli ha messo in bocca l’autore.

Anche nella realtà vedo spesso persone che sembrano cucite dentro una veste che li porta in giro. Non fanno sofismi (purtroppo o per fortuna) ma più che altro sembrano degli Edgar-abiti (cit.) ambulanti.

Io che abito ho non l’ho capito molto bene. Preferisco non pormi la questione dei vestiti che indosso.

Letteralmente.

L’altro giorno, tornato a casa, mentre toglievo le scarpe mi sono reso conto che sono uscito con indosso un calzino che sul tallone aveva ceduto. Un tempo mi sarei vergognato di ciò, per il pensiero che se mi fosse successo qualcosa e in ospedale mi avessero tolto le scarpe avrebbero visto che giro col calzino bucato. Un’atavica, vecchia, paura materna: più dell’incidente poté il disonore.

Madre ricordo quando mi invitava a sistemarmi prima di uscire diceva «Sennò la gente dice questo la madre come lo fa uscir di casa?». L’onta del giudizio altrui che ricade sulla famiglia intera, da evitare in modo assoluto!

Questi sono i discorsi reali!

Non è che tu ti vesta in modo scontato perché anche l’ovvio vuole la sua parte

L’anno scorso, durante le pulizie decennali, misi in vendita alcuni manga. Un tizio che prese contatto con me, dopo aver concordato la transazione, mi scrisse poi

– Spero che tu non sia un truffatore :/

Faccia triste compresa. Al che ero molto tentato di rispondergli

– Oh no! Pensavo di essere riuscito a gabbarti, invece sei troppo furbo per me!.

Mi ricorda quelle signore che dal salumiere o dal macellaio dicono

– Mi dia un etto di…Ma è buono?

E io vorrei che un commerciante, in nome di tutti gli operatori alimentari che se lo sentono chiedere, rispondesse, per una volta:

– Guardi signora, è proprio una merda, speravo di sbolognarglielo.

Ho un rapporto ostile con le ovvietà, le domande retoriche e/o banali. Il sarcasmo becero è la prima reazione istintiva che provo.

Mi ricordo poi quando mi avviavo verso la porta di casa, abbigliato non certo in modo casalingo, e Madre chiedeva

– Esci?
– No, Madre, questa è la mia tenuta da giardinaggio. Dicono che alle piante bisogna parlare, ma credo sia necessario anche un abbigliamento adeguato, non trovi?

Che dire di quelli che, quando su un treno a lunga percorrenza in prossimità della tua fermata tu ti alzi e ti avvicini alla porta, ti arrivano da dietro chiedendo

– Scende?
– No, guardi, mi piace contemplare la porta che si apre e si chiude. Mi ricorda la caducità dell’esistenza.

Ma l’esperienza in realtà insegna che non bisogna mai, mai porre limiti con le persone.

L’esempio che porterò sempre con me è quello fornito da un aneddoto che, a distanza di anni, ancora raccontano i miei e i loro amici, riguardante un loro amico noto per esser astuto come un cervo.

Una sera, incontrandosi in piazza come sempre, costui chiese ai miei:

– E il piccolo Gintoki (allora avevo 3 anni) dove lo avete lasciato?

Padre, per far lo spiritoso, disse

– L’abbiamo mandato al cinema
– Ah, c’era qualche film della Disney?

E allora mi ricorderò sempre di non dar mai per scontato fin dove possano spingersi le domande altrui.