Non è che i compagni di università di Napoleone fossero i colleghi del Corso

Nel precedente post parlavo della salute mentale degli adolescenti. In questi giorni invece mi trovavo a riflettere sugli universitari e la loro vita.

Il mio progetto 2aL – seconda laurea, prosegue. La scorsa settimana ho portato a casa un 30 e un 30 e lode, grazie ancora all’utilizzo della modalità a distanza. In virtù di ciò con i miei colleghi di corso non ho avuto molti contatti. Anzi, direi nessuno: li ho visti fisicamente soltanto una volta. Per me in realtà sono solo delle figure bidimensionali che vedo su uno schermo e di cui leggo nelle varie chat dei corsi.

Pur non avendo io una propensione nel far comunità insieme a loro, ho in qualche modo sviluppato qualcosa di affettivo nei loro confronti. La maggior mi sembra molto in gamba, lo vedo dall’interesse che hanno verso la Storia e verso la ricerca storica, dalle considerazioni e gli interventi che fanno alcuni, dalla volontà di far le cose per bene. E tutto ciò mi è di una qualche forma di conforto, di rassicurazione, nonostante le condizioni.

Vale lo stesso discorso che facevo per chi va a scuola: non riuscire a vivere questa esperienza nella modalità consueta da studente dev’essere per loro molto penalizzante e frustrante.


Poi, a dirla tutta, il semestre appena trascorso era in modalità mista: si poteva seguire in presenza, previa prenotazione. Peccato che le aule disponibili non avessero disponibilità di posti congrua rispetto alla richiesta, quindi riuscire a prenotare il posto era sempre una lotteria.


Non va per niente bene.

Per raccontare, la mia piscina ha chiuso da oggi le porte. I costi di gestione sono alti e i frequentanti attualmente pochi a causa di quarantene e paura di. Sperano di riaprire presto. Intanto, lo staff che ci lavora ha appreso della chiusura da un semplice foglio appeso in bacheca.

E io capisco le difficoltà economiche che si trova ad affrontare chi ha un’impresa, un’azienda, una società privata. Ma non posso capire che uno scopra che non lavorerà da un foglietto che legge quando si presenta al lavoro.

Eppure, non lo so. Cosa dire, cosa fare? Le esigenze dei lavoratori, le esigenze e gli obblighi della proprietà, le esigenze degli studenti, le esigenze e gli obblighi dell’università, le esigenze del cittadino, le esigenze e gli obblighi delle istituzioni. Come si gestiscono tutte insieme?

Come si vive tutti insieme e non si sopravvive?

Non è che il sovrano temuto dagli studenti sia il Re gistro

Ogni esponente di una generazione pensa che quelli della successiva vivano in condizioni migliori. Certo, se come i nonni si è vissuti la guerra, hai una carta bella pesante da giocarti. “Eh, la guerra” e tutti zitti.

Certo, viviamo nel più lungo periodo di pace che la storia ricordi. Certo, oggi non moriamo di tisi e non ci curiamo con i salassi e le sanguisughe. Certo, oggi posso aprire Youtube e guardare un tizio che spiega come diventare miliardario.


Così generoso da condividerlo con noi. Io invece mi ritirerei a vita privata lontano da tutto, forse è per questo che non sono miliardario: non me lo merito.


Il problema è che tutte queste cose sono esterne all’individuo. Di interiorità e salute mentale di una generazione non se ne parla quasi mai.

Io, ad esempio, non so se vorrei avere 20 anni di meno ed essere un adolescente di oggi. Due anni tra DAD, non DAD e Sugar DAD credo avrebbero compromesso il mio equilibrio mentale. E credo stiano mettendo a dura prova quello dei ragazzi di oggi.

Anche senza pandemia non credo che le cose sarebbero migliori. Chat di genitori e registro elettronico sono due cose che sono contento di non aver mai vissuto. In particolar modo il registro elettronico è ai miei occhi uno strumento del male. È assolutamente giusto che si possa essere informati e ci sia un controllo e sulle attività svolte e sul rendimento, eliminando (credo) assenze ingiustificate e cattivo studio, ma a mio avviso toglie anche responsabilità e senso dell’organizzazione allo studente. Ne ho presi di 4 a scuola e a casa non lo dicevo mai: non è un vanto, però mi adoperavo per recuperare (e lo facevo), in autonomia e senza pressione, riorganizzando il mio lavoro di studio.

Mi immagino invece nel mondo di oggi: in tempo reale il mio 4 che viene notificato tramite app a mia madre, che mi aspetta a casa per rimproverarmi, per poi riferire il tutto a mio padre quando ritorna a casa, che mi rimprovererà ed entrambi mi metteranno sotto sorveglianza affinché io studi per recuperare, dandomi loro una scadenza entro la quale farmi interrogare, trasformando lo studio in un momento performativo e nient’altro, con conseguenti aumenti di stress.

Qualcuno troverà che sia giusto così, non discuto. Credo che però controllo e sorveglianza costanti non preparino alla vita ma semplicemente a essere entità robotiche.