Non è che il pornoattore venga bocciato all’orale

Il tipo di fronte a me ha una maglietta con Paperon de’ Paperoni che si tuffa in un mucchio di rotoli di carta igienica. Il tipo di fianco a me gliene chiede il significato.

«È quando all’inizio della pandemia in alcuni Paesi la carta igienica sparì e diventò preziosissima. Tra un po’ non potrò metterla più che non si capirà più il significato perché nessuno se lo ricorderà».

«Potresti continuare a metterla per spiegarne il motivo»

«Secondo me sarà sempre un aneddoto interessante da raccontare pure quando lo si sarà dimenticato», intervengo io.

Gli aneddoti.

Delle volte propendo per dare una supremazia alla narrazione orale rispetto a quella scritta. Perché lo scritto, se lo rileggi 100 volte, resterà sempre uguale a sé stesso. Certo, la seconda, magari anche la terza, potrai ritrovarvi più cose, comprenderne appieno altre sfumature, ma resterà comunque immutato.

L’oralità invece è come se ricreasse il racconto di volta in volta. Sarà per questo che è sempre divertente ascoltare certe storie. Delle volte magari personaggi e situazioni cambiano un po’, un cane feroce diventa un branco, un controllo documenti diventa un posto di blocco dell’esercito, e così via. Alla fine il confine tra realtà e invenzione diventa così impalpabile che chi se ne frega. È il racconto per il racconto.


Da non confondere col racconto dei racconti che è un’altra cosa.

 


Mi piace immaginare che chi racconta si faccia interprete di una tradizione millenaria, vestendo i panni di un aedo, narrando, intrattenendo, lavorando di immaginazione sui pezzi più vaghi, perpetuando l’esistenza di una storia che continua a vivere.

Certo, poi se la storia è sempre la stessa raccontata da quel parente o da quell’amico che narra per la centesima volta delle due gemelle tedesche rimorchiate in spiaggia, diciamo sarebbe meglio se il racconto fosse semplicemente scritto, almeno per poterlo seppellire da qualche parte e dimenticarlo, mentre l’amico/parente, purtroppo, non lo si può seppellire vivo che dicono fa brutto.

Non è che se entri in un Caffè ti lamenti di quanto scotti

Sono andato ad ascoltare dei racconti in spagnolo in un caffè letterario.

Racconti in spagnolo a Budapest in un Caffè gestito da un italiano.
Mi rendo conto che invece di impegnarmi nel cercare di integrarmi con la società autoctona io vada in senso contrario.

D’altra parte vivo la mia permanenza qui come una situazione di passaggio.
Avevo portato tre libri con me a settembre. Quando sono rientrato in Italia due settimane fa li ho portati con me per posarli e sono rientrato con altri tre nuovi libri.
Faccio inconsciamente in modo di non mettere radici e non accumulare cose.

A proposito di radici, le due piantine che ho in casa e che rappresentano quanto più vicino ci sia al concetto di stanzialità, stanno bene. Ma inconsciamente spero che non siano longeve, forse.

Il contastorie che ha allietato la serata nel Caffè è un messicano che lavora qui a Budapest in un centro oncologico. Poi insegna spagnolo. Poi la sera conta storie.

E dire che io invece a stento trovo il tempo di stirarmi i boxer.


Sì, io stiro pure i boxer perché mi piacciono così.
In questo modo le mie avventure sessuali non hanno mai una brutta piega.


Figuriamoci trovare il tempo per lavorare fuori dall’orario di lavoro.

Invece in società secondo loro dovremmo lavorare anche da casa. Senza straordinario.
Produrre di più.

Io quando ho sentito ciò, sono quindi tornato a casa e ho prodotto molto.
Seduto sulla tazza.

The Gintoki Show: un’intervista da dio

gintoki show_zeus

Il fulmine di Zeus nella sigla è interpretato da uno stuntman professionista, quindi don’t try this at home

Siamo giunti alla terza puntata – ebbene sì, qualcuno ha pagato per far proseguire questo show – del Gintoki Show. Potete rivedere le puntate precedenti qui e qui, ma guardatele dopo aver visto questa, perché sennò se andate subito poi rischiate di perdervi questa qui e non trovarla più.

Questa sera, dopo aver ospitato in precedenza un venerabile Faraone e una Venere del calcio, come potevamo far di meglio? Ma ospitando direttamente il Re degli Dei, è ovvio! Gente, ecco Zeus!

G: Per rompere il ghiaccio comincio così: innanzitutto ti ringrazio per aver concesso questa intervista. Immagino che essendo divinità tu sia molto oberato di impegni. Come riesci a conciliare con l’attività sul blog?
Z: Ti ringrazio a te per l’ospitalità e, vista la cortesia, uso un po’ del ghiaccio rotto per l’ambrosia. Hai ambrosia? Se no va bene anche una birra calda.
Per tornare alla tua domanda: ho la fortuna di essere un manager oculato. Truccando le pagliuzze ho sbolognato le rotture più grandi, acqua e inferi, a Poseidone e Ade. A me rimane solo il cielo e il tuono, non proprio un lavoro a tempo pieno.
Rendo breve ciò che è lungo: scrivo sul blog per noia.

G: Ho una Tuborg lasciata al sole, anche se credo tu non intenda ciò per birra calda…
Sono curioso: la noia incrementa la produttività scrittoria, quindi mi dici?…È molto leopardiano. E so quel che dico: di felini me ne intendo!
Z: Io intendevo una Ceres… ah ah ah *matte risate*. Questa mette KO tutto l’Olimpo ogni volta che la dico. Ridono se no li fulmino, ma tant’è.
La noia è uno stimolo potente, anche se non sembra. L’ispirazione è passeggera: che scrive vive del lampo di genio, sfruttando il momento buono fino allo stremo. E si finisce senza parole o idee.
Io no. Scrivo per noia e perciò con la costanza tipica dei Testimoni di Kingu, quelli che bussano al tempio alle 7 di mattina.

G: Questi Testimoni di Kingu mi ricordano qualcuno con la stessa abitudine.
Restando sulla scrittura (un gentile dono agli umani da parte di Prometeo, a proposito, l’hai perdonato per quella storia di averti fregato l’accendino?), ti sei concentrato spesso proprio sull’analisi del modo con cui il blogger vi si approccia. Sono spunti per una semplici riflessione o vogliono anche essere dei semi lanciati affinché germoglino in un qualche cambiamento in ciò che leggi?
Z: Guarda, so con certezza che,a Prometeo, il rimorso sta rodendo il fegato. Spero stia bene, veramente, certe situazioni ti mangiano vivo.
Sì, quando non sparo minchiate o anestetizzo il mondo con la mia musica, cerco di guardare il comportamento dei blogger. Sono una razza strana, interessante. Nuova, se vogliamo. Diversi dal popolo di facebook e, proprio grazie ad internet, possono ambire a più notorietà e influenza… che ne carbura l’ego.
Ecco il perché delle mie sono riflessioni, spesso scoordinate: vorrei è un cambiamento di rotta, un po’ di qualità&contenuti, e anche un pizzico di autoironia, in più.

G: Eppure, nonostante la diversità dal popolo di facebook, come hai fatto notare anche tu in un tuo post, sembra che il blogging a volte assuma connotati molto da social network. La stessa nuova impostazione grafica di WP sembra ricalcare tale dimensione 3.0. Per carità, io poi non me ne intendo, non sono un grafico (infatti in spiaggia non mi capita mai che una ragazza mi veda e si giri esclamando “Però, che grafico quello lì”). Mi piace però lo spirito che hai: sii il cambiamento che vuoi vedere nel blogging.
Z: Sto cercando di portare, nel mio piccolo, un cambiamento… e non vorrei essere scambiato per arrogante per il mio essere il Capo degli Dei. Sono ancora l’umile dio che ha sconfitto i Titani.
Le collaborazioni con il Faraone nei Grandi Antichi e con Cineclan sono la mia idea di nuovo blog/blogger: personale E comunitario. Le idee fluiscono.

G: Le iniziative “open source” sono molto interessanti: oltre a quella col faraone (qua il progetto Grandi Antichi) e quella con cineclan (qui l’inizio della serie), ne hai qualche altra in cantiere o che vorresti realizzare? Mi compiaccio comunque che la battaglia coi Titani non ti abbia dato alla testa. Ma c’è stata invece un’occasione in cui qualcosa invece ti ha dato alla testa (non vale l’alcool)? Quella volta magari che hai saputo che i Tool suonavano vicino e non ci hai capito più nulla dall’esaltazione, per dire?
Z: Al momento, oltre a questi progetti, sto portando avanti alcune iniziative personali (di cui mantengo il riserbo). Altre iniziative da realizzare? Ho già accennato una mia idea a qualcuno (no spoiler adesso), ma per il resto: chi ha idee è libero di contattarmi. Senza andare indietro fino a Ercole (il Chuck Norris dell’epoca), direi che il traguardo è il 13 giugno 2016 all’Arena di Verona: tour di addio dei Black Sabbath. Una cosa da far tremare le vene dei polsi.

G: Parlando di musica e concerti, il più bello cui hai assistito o quello che è stato proprio come un’esperienza mistica (anche se per la presenza di una divinità come te sono tutti mistici! )?
Z: Mi stai chiedendo di scegliere fra i miei figli con i concerti eheh. I concerti di Heaven & Hell e Ozzy Osbourne (o i Rotting Christ) sono stati grandiosi, intensi, li attendevo da anni.
Fra tutti i concerti dei Down che ho visto sceglierei quello del 2008: è stato liberatorio. Mi hanno stupito gli Anaal Nathrakh, un concerto così brutale e così cattivo da essere un calcio nei denti. Incredibile. Un grandissimo concerto, non metal, è stato quello di Bruce Springsteen: 3 ore di esaltazione e rock.

G: Mi rendo conto fosse una scelta molto difficile, ma ne sei uscito alla grande. A proposito proprio invece di calci nei denti e di Chuck Norris, visto che hai trattato a volte l’argomento, se dovessi fare una classifica di film “muscoli e sangue” (categoria che mi sono inventato ora), quale sarebbe la tua lista di preferenza?
Z: Diciamo che sull’Olimpo sono rinomato per dare un colpo alla botte ed uno alla ninfa ahaha. ‘Ste battute fanno tremare quei bifolchi perdenti dei Troiani.
“Lacrime e sangue”? Sarò scontato, ma un Terminator (il primo) mi da sempre gioia, come anche un film di guerra. Se voglio la poesia assoluta dell’ignoranza (detto con rispetto assoluto) i vecchi film anni ’80 di Bruce Willis o Kurt Russell o L’Armata delle Tenebre… o Machete… Troppi da elencare tutti.

G: Sapevo non mi avresti deluso, infatti mi hai piazzato lì un John McClane (il personaggio di Willis) taaac! Beninteso, dimenticherei l’ultimo Die Hard, se sei d’accordo.  A parte Machete, comunque, noto che non sono film recenti. Colgo l’occasione per farti allora questa domanda: ritieni che un certo tipo di cinema, così come anche per un certo tipo di musica, abbia perso qualcosa rispetto al passato? E, connessa a questa domanda butto lì quest’altra: sei  un rocker nostalgico, della serie “Era meglio un tempo” oppure rispetto al nuovo ti poni con interesse e curiosità?
Z: La delusione è un fattore fondamentale sul mio blog (Ysingrinus docet). L’ultimo Die Hard è scarso, perde il confronto con la poesia bolsa e dopata di Voltaren di The Expendables.
Il cinema sta producendo cose buone anche adesso (è innegabile), ma quell’ignoranza degli eighties (con le buone storie connesse) non è replicabile. Il troppo politically-correct sta distruggendo il cinema bruto e d’azione. Adesso, in un film, sentire “vaffanculo John” (detto al capo di Polizia) o altre volgarità assortite è impensabile in un film che non sia comico/demenziale di seconda fascia. Stessa cosa per la musica. Si è persa l’innocenza già negli anni 60/70… ma almeno negli anni passati c’era tanta qualità quanta merdazza fetida. Il rapporto, adesso, pende più per la seconda.
Sono sempre curioso delle nuove uscite, ma se voglio “andare sul sicuro” o l’album “vincente”, prendo un disco del passato.

G: E se dovessi mettere su una super band, chi sceglieresti come componenti tra i musicisti che stimi?…Altra domanda “scomoda”, qualche figlio subirà un torto!
Z: Mi stai chiedendo l’impossibile… fortunatamente sono un Dio.
Provo a fare una formazione standard:
– BATTERIA: Carter Beauford (Dave Matthews Band) / backup: Richard Christy (Death)
– BASSO: Geezer Butler (Black Sabbath) / backup: Steve DiGiorgio (Death To All / Testament / Sadus)
– CHITARRA: Tony Iommi (Black Sabbath) & Dimebag Darrell (ex-Pantera) / Ritchie Blackmore
– VOCE: Phil Anselmo (Down / ex-Pantera)

G: Mondogatta! Che supergruppo. Ancora una volta, impossible is nothing per te.
Ne verrebbe fuori un concerto da sogno…o da incubo per chi non apprezza il genere (blasfemi!) ehehe.
Com’è il tuo rapporto con gli incubi? Ricordo ne hai anche raccontato sul tuo blog…
Z: A parte il defunto Dimebag, sarebbe una lineup atomica. Secondo me molto più da incubo (blasfemissimi). Ma, a noi, l’incubo piace.
Non so se definire i miei sogni sei veri incubi o solo dei sogni inquietanti. C’è un particolare però: me li ricordo spesso e le trame, oh le trame!, sono incredibili. Devo ancora capire come ho fatto a sognare un gerarca nazista morto che veniva giù da una collina su una sedia a rotelle.
In ogni caso, gli incubi che do agli umani sono ben peggio! *ahahaha*

G: Sì ma gli umani in fondo se li meritano. Cioè prendi Poseidone, fu provocato da Ulisse e il minimo che potesse fare è farlo poi vagare 20 anni (che secondo il codice olimpico è la pena minima mi risulta) nel Mediterraneo.
Nei tuoi racconti trasferisci un po’ il contenuto di queste sequenze oniriche notturne? Oppure, quanto ci metti di “vissuto” nella tua fase creativa?
Z: Io avrei fatto venire gli incubi ad Enea… quel codardo è scappato facendo finire presto il mio epic-movie preferito. Speravo in più battaglie ma niente. E, comunque, Poseidone ha il senso dell’umorismo un po’ annacquato.
Nei racconti lunghi non ci metto molto dei sogni/incubi: il masterpiece Capra Diddio è al 90% opera creativa di Lord Baffon II… io mi limito ad aggiungere il 10% e lo scritto, mentre nei Grandi Antichi l’opera è un delirio condiviso fra il sottoscritto e Ysingrinus.
Dove metto qualcosa di “vissuto” – anche se talmente mascherato e distorto da non capirsi – è nei racconti brevi.

G: Enea era proprio un figlio della sua città!
E con questa direi proprio che siamo alle battute finali.
Comunque, vorrei che oltre a quanto già detto in questa intervista ci raccontassi chi è Zeus per chiudere il cerchio (o il quadrato, fai tu). E, visto che l’hanno affrontato anche i tuoi predecessori, tocca anche a te il giochino che vanta il peggior numero di imitazioni. Descriviti inserendo nel testo questi tre elementi: brodo di pollo, Babbo Natale, puritanesimo. Ci sarebbe anche un’altra cosa: ci vorrebbe un bel consiglio musicale non richiesto per i lettori, come la tua famosa rubrica. Il problema è che questa sarebbe una richiesta, quindi ne invaliderebbe il senso! Quindi facciamo che io te lo chiedo, poi dalla regia questa la tagliamo e tu allora dai il consiglio e io dico ma che bella idea!

Z: Enea era proprio un figlio della sua città. Anche se non riconosciuto, vista la tendenza della città ad aprire le porte ad un mirmidone qualunque.
Chi è Zeus? Zeus è IL dio dell’Olimpo, colui che regna e che, al contrario di Babbo Natale, non vi porterà doni o simpatia. Zeus guarda, ghigna (ma non ride) e si incattivisce di fronte alle cose più inutili. Quali? Rinunciare a grigliare il pollo e farne una gustosa mangiata per creare un brodo di pollo sciapo e inconsistente. La peggior bestemmia che si potrebbe immaginare in queste lande antiche; anche se, a dirla tutta, gli antichi greci non erano sostenitori del puritanesimo del New England, quindi la bestemmia non può essere annoverata come tale.
Visto che siamo alle battute finali, mi permetto di far scendere il già magro share che ho in questa intervista e, inoltre, di farti perdere adoranti lettori e seriosi follower: ecco perché un consiglio musicale ci sta sempre bene. Soprattutto se viene ascoltato da cima a fondo.
Voglio andare sul classico e non cercare qualcosa di estemporaneo, perciò ecco a voi… i ROTTING CHRIST – ZE NIGMAR (a quanto si dice è una parola aramaica e potrebbe significare “è finita”. La canzone fa riferimento ad una delle ultime parole di Cristo in croce).

Ma che bella idea…Ach! Mi ero scordato che eravamo in diretta! Ehm, grazie comunque! Signore e Signori, il grande Zeus!

Non è che i complimenti costino molto perché sono degli “apprezzamenti”

La mia CR, oltre che fonte di racconti sulla sua vita privata (ovviamente in questi giorni ci sono stati aggiornamenti), ispira anche delle riflessioni.

Oggi si parlava di complimenti.
Ho confessato di non essere molto avvezzo a elargirli e lei, scherzando, mi ha detto “Ah, sei un po’ orso eh”.

Il che è vero, anche se non capisco perché si debba usare un orso come metafora. Insomma, anche una scolopendra non credo sia tanto affabile eppure nessuno dice “Sei proprio una scolopendra!”.

La mia scarsa abitudine agli elogi divenne proverbiale al liceo.
Ricordo che, una volta, espressi un commento positivo sulla nuova tinta di capelli di una compagna di classe e lei a quel punto esclamò “Ooh! Fermi tutti! Gintoki ha fatto un complimento!”.

Va bene il mio essere una scolopendra, ma mi parve eccessiva la reazione. Oltretutto, non era neanche una gran tinta: sembrava che si fosse lavata nel concentrato di pomodoro.
O forse sto solo denigrando reagendo a posteriori al suo scherno (tra l’altro doveva essere uno scherno LCD, perché lo trovai alquanto piatto e freddo).

Il mio problema con i complimenti è che sembra che realmente mi costino molto perché non so come formularli. Quando mi cimento in un apprezzamento sono sempre sconnesso, impacciato e alla fine contorto, col risultato che ciò che doveva essere un complimento lascia interdetto il destinatario.

Il fatto è che odio le frasi banali, che sanno di retorico o di tantoper.

Mi chiedo sempre, inoltre, con riferimento alle donne, la credibilità che possa assumere un commento nei loro confronti, disinteressato, su materie su cui sono del tutto ignorante.

Il vestiario, ad esempio. Per me un jeans è bello o brutto e basta. E spesso confondo i due aggettivi perché non me ne intendo di abbigliamento. Indosso camicie a quadri, quindi di cosa stiamo parlando?

Insomma, va come va per i colori: laddove per un uomo esiste il rosso, il blu e il giallo, per una donna dall’occhio esperto esisterà il rosso cremisi, il rosso carminio, il rosso pompeiano e via dicendo.


DIDASCALIA STORICO-CROMATICA
Tra parentesi, il rosso pompeiano nemmeno esiste. È stato il Vesuvio a creare una simile variante cromatica.


DIDASCALIA FELINO-CROMATICA
È come la storia della pantera nera: non esiste e basta.
Chiariamo: Pantera è il sostantivo che identifica tutto il genere di grandi felini. La specie è quella che poi varia: Pantera Leo (leone), Pantera tigris (tigre), Pantera Pardus (leopardo) e così via. Non esiste la singola specie “Pantera Nera”: è soltanto un leopardo o un giaguaro nato nero. È come la tigre bianca: nessuno dirà “Pantera bianca”, è una tigre e basta con una variante cromatica. Quindi la definizione più corretta sarebbe quella di “Leopardo/Giaguaro melanico”.

Ecco, con i complimenti sull’abbigliamento funziona allo stesso modo: sono uno che dice “Che bella pantera nera”, confondendo quindi stili, tagli e dress codes.


Per la cronaca, io sono invece di genere Felis. Sono cugino dei Panteri, veniamo dalla stessa famiglia, ma non parlo molto coi parenti e quindi a Natale sto per i gatti miei.


Delle volte ho timore che il complimento sia fraintendibile.

Ad esempio “Mi piaci con questi jeans” potrebbe essere inteso come “Toglitelo un attimo che vorrei guardarlo da vicino…sì ecco proprio così, uh interessante la tua biancheria, fammi vedere da vicino pure quella…sì ecco scusa stenditi un attimo che vorrei parlarti…no no tranquilla i tuoi vestiti stanno lì da parte, non vorrei che capi così belli si sporcassero, anzi facciamo così, ci metto pure i miei così i tuoi non si sentono soli, che ne dici?…Uh che freddo all’improvviso, fammi stendere un po’ di fianco a te…No forse sopra si sta più caldi, che dici?


In certi casi in realtà avviene così.


Che il pensiero sia quello, intendo. Che poi ci si tolga i jeans è un altro discorso.


Che poi nel momento in cui si tolgono ci si rende conto che alla fine non era quindi vero che “Mi piaci con questi jeans”, perché sennò glieli avresti fatti tenere. Ma a quel punto saresti giusto un attimo feticista. Quindi se ti piace di più senza, sei stato invece uno sporco bugiardo con quel complimento. E torniamo al punto di partenza.


In realtà il modo migliore di fare un complimento è essere spontanei: nel momento in cui ci si riflette su è come se l’apprezzamento perdesse fragranza. Come dei biscotti la cui scatola non è stata richiusa bene.

Se invece è immediato, anche un semplice “mi piace” non è banale.
Con o senza jeans.

Non è che Santa Claus sia fesso solo perché è un babbo


Non so se al di là della Linea Gotica “babbo” sia usato come sinonimo di “scemo”: considerando che in Toscana vuol dire “padre”, ne dubito. In realtà credo sia molto molto meridionale, forse l’origine è siciliana ma non ne son certo.


Penso sia giunto il momento di cominciare a condividere alcune osservazioni sugli autoctoni magiari.

Innanzitutto, credo che qui sia florida e ancora in vigore una rigida educazione di stampo est-europeo.

Scena: bimbetto che saltella sul marciapiede, forse per testare le proprie scarpe con la suola che si illumina. Si divertiva a guardarsi i piedi luccicare a ogni salto. Una cosa che non vedevo più dagli inizi degli anni ’90. Non ricordo più all’epoca di che marca fossero le scarpe luminose, forse erano le Bull-Boys, scarpe di qualità invereconda ma che a volte regalavano un videogioco tascabile, altre volte un pallone, altre volte ancora erano dotate di qualche altra minchiata per fare fessi i ragazzini.


È inutile dire che io sono uno di quelli che si faceva far fesso. “Con le scarpe di Bull-Boys, hai in regalo il videogame, corri presto corri dai che puoi scegliere tra seiiii”, recitava il jingle. Vorrei conoscere il geniale paroliere che l’ha scritto: le scarpe DI Bull-Boys? Perché voi acquistate le scarpe DI Nike, DI Lumberjack, immagino. Ma poi che finale è: “che puoi scegliere tra sei”? È una rima orribile.


Tornando al bimbetto salterino, a un certo punto inciampa e finisce steso faccia a terra al suolo. La madre, lì accanto, intenta a sistemare la sciarpa al fratellino, non si lancia a rialzarlo: lo guarda di sbieco e gli dice qualcosa con un tono sordo e gutturale che sembrava vagamente sprezzante.
Nella mia testa lo avrà umiliato verbalmente con una frase tipo: “Alla tua età tuo nonno combatteva i russi a Stalingrado, tu invece non sei neanche capace di stare in piedi!”.
Com’è come non è, il bimbetto si rialza subito senza un lamento.

La seconda considerazione di questa serata, riguarda l’argomento che tutti hanno in testa quando si parla di Ungheria: le donne.

Per introdurlo, racconto un episodio narratomi da collega-responsabile (d’ora in avanti CR), che ho già eletto a mia fonte privilegiata di amenità.

Sabato sera: compleanno (40 anni) di un’amica di CR. Per l’occasione, l’amica sceglie di puntare sulla massima sobrietà: noleggio di una limousine che porta le ragazze (dai 20 ai 45 anni) direttamente in discoteca. Un gruppo di queste ragazze, sempre per l’occasione, sempre all’insegna della sobrietà, si veste da Babbe Natale.

Babbe Natale Porno (d’ora in avanti BNP, come la banca. Infatti credo che a fine serata abbiano accettato molte…donazioni): top in microfiga, minigonna, autoreggenti e tacchi a squillo. Tutto rigorosamente rosso e bianco, con abbinato il tradizionale berretto del buon vecchio Santa Claus made in Coca-Cola.

Com’è come non è, la mia CR (vestita in modo normale) a un certo punto mentre si trovava all’interno della limousine con le BNP sente accarezzarsi una gamba. Una delle ragazze voleva evidentemente esplorare il territorio.

A questo punto, io che ascoltavo, speravo in un epilogo con i fuochi d’artificio. Ma CR ha tenuto a precisare che ha fatto capire che quel territorio non era sondabile, eccetto che dal proprio fidanzato.
In discoteca poi vi è rimasta poco: un po’ stanca, un po’ perché le altre dopo mezz’ora erano già pregne di alcool come botti di rovere, alle 23:30 ha chiamato un taxi e se ne è tornata a casa.

Deluso dall’avere una CR così pusillanime, confido però in ulteriori racconti da parte sua. Magari da vivere anche in prima persona, ho già chiesto infatti se magari lei possa introdurmi in questo ambiente di conoscenze. Per raccogliere materiale sui miei studi culturali su usi e costumi (discinti) dei popoli, ovviamente.

Non è che ti basta ago e filo per attaccare bottone con una donna

Sottotitolo: I dolori del giovane W..

Mi capita spesso di intrattenermi a parlare col giovane W..
O meglio, non è che con W. ci si fermi: è lui che comincia a parlare appena entri nel suo raggio d’azione.

I suoi racconti partono spesso con “I met a girl”* e fin qui potrebbe sembrare normale.


* Pur parlando bene italiano preferisce chiacchierare in inglese che parla molto meglio, col suo accento di Brooklyn – pur essendo palestinese e non avendo mai visto l’America – e la gestualità tipica dei Soprano.


Tuttavia, dato che è molto religioso e considerato che l’Islam vieta qualsiasi tipo di contatto sessuale fuori dal matrimonio, le sue storie finiscono sempre in malo modo: le donne a un certo punto si stancano delle fase ‘bacini-bacetti’ e quando lui dice di non andare oltre è costretto a rompere la relazione.


A questo punto della storia alla maggioranza dei maschi che ascolta in genere partono improperi e bestemmie varie.


La domanda a questo punto sorge spontanea: se è ferrea la convinzione di seguire una via ascetica, perché continuare a fare conoscenze, scambiare messaggi, uscire con le donne?

La sua risposta è che avverte il bisogno del contatto (non sessuale) con una ragazza: parlare, abbracciarsi eccetera.


A questo punto della storia invece la maggioranza delle donne che la ascolta in genere esclama “Ooh che tenero”.


Una volta mi ha raccontato che una sera è andato in un disco-bar per trovare qualcuna con cui chiacchierare.

Non mi sembra proprio il luogo ideale, tant’è che aveva fermato una tizia che poi a un certo punto gli si è buttata addosso.

Ieri sera ho visto, passandoci davanti, il suddetto disco-bar: è praticamente un ritrovo di giovani turiste americane o inglesi e mi ha dato l’idea che in effetti il rimorchio lì sia molto facile e che uno sguardo non sia ricambiato con l’occhiata infastidita “Cazo guardi?” (Ibrahimovic dixit).


Mi capita spesso di ricevere un’occhiata simile, e nella maggior parte dei casi non per uno sguardo interessato: il fatto è che io mi incanto a guardare la gente. Osservo come si muovono, come parlano, cerco di capire cosa facciano nella vita e che persone siano. È uno dei modi per passare il tempo nelle sale d’attesa o sui mezzi pubblici.


Anche se i tacchi a squillo ingannano, l’età delle frequentatrici del posto credo possa renderle eleggibili come nipoti di Mubarak (ammesso che Mubarak abbia nipoti bionde e con la mascella ipertrofica).

W. comunque è un ragazzo sveglio e intelligente e, oggettivamente, anche ben piazzato fisicamente: 1.85, spalle ampie, tipico torso a triangolo rovesciato.


Anche io volevo essere un triangolo: purtroppo son venuto fuori scaleno e a volte un po’ ottuso.


Ma sono convinto che la facilità di approccio di W. sia connessa anche alla sua non-pericolosità. Come cantava il pittore Cimabue, Le donne lo sanno: percepiscono le intenzioni di qualcuno e il fatto che lui si avvicini con l’interesse soltanto di parlare ispira più fiducia e induce all’apertura.

La seconda domanda che sorge spontanea a questo punto è: possibile che non abbia mai vacillato? A tal proposito mi disse che una volta gli venne la tentazione, ma in quel momento qualcosa non ha funzionato. Lui l’ha interpretato come un segno che stesse facendo qualcosa di sbagliato.


C’è chi lo chiama Dio, chi lo chiama peperonata sullo stomaco, io la chiamo ansia da prestazione; insomma alla fine la natura è bastarda come ben sapeva Giacomo Leopardi.


Stavo comunque pensando che nella zona dove abito a Roma è pieno di suore, anche giovani: un giorno di questi lo porterò con me così potrà farsi tutte le chiacchierate femminili che vuole senza timore di dover cadere in tentazione.
Si spera.

Non è che se hai tanti complessi allora puoi metter su un festival musicale

Sabato pomeriggio avevo voglia di fuggire da me stesso. Impresa ardua perché alla fine mi raggiungo sempre. Sono salito in auto deciso nel viaggiare senza meta, fin dove mi avrebbe portato il cuore un 10 euro scarso di benzina.

Mi piacerebbe iniziare ora uno di quei racconti dove chi scrive si dà un tono narrando di statali perse nel nulla percorse con i CCR/Tom Waits/I Cugini di Campagna/Cristina d’Avena a palla, con una sigaretta in bocca e un paio di occhiali da sole inforcati che riflettono nelle lenti quel raggio di sole quando volge al desìo nell’angoscia della notte et cetera et cetera.

Purtroppo non ho l’autoradio; appeso al bocchettone dell’aria c’è solo uno smartphone che dimentico sempre di caricare di file, un po’ per pigrizia, un po’ perché l’altoparlante svilisce la qualità già svilita di suo di un mp3 e io non amo svilire la buona musica.

Non fumo sigarette e anche se le fumassi non impuzzolentirei mai l’auto: voglio che continui a puzzare di tappetini di gomma e moquette e deodorante chimico come se fosse uno di quei negozi che vendono accessori e chincaglierie per la casa, dove a poco prezzo puoi portare a casa un Buddha in plastica finto pietra o una candela profumata che t’illudi possa servire per una serata romantica ma in realtà la tirerai fuori soltanto quando andrà via la corrente perché ti sei dimenticato ancora una volta che la batteria delle lampade di emergenza si scarica se non caricata regolarmente.

I miei occhiali da sole hanno una vite che si sgancia sempre che mi costringe a pit stop forzati da ogni ottico che incontro per strada. Ormai mi conoscono ovunque. Cerco sempre di cambiare negozio perché ogni ottico poi mi fa un commento del tipo “Io l’ho sistemato ma di più non si può fare” – tradotto: non torneranno mai a posto. Mi han sempre detto tutti così tranne un ottico di via del Corso a Roma che, osservando la vite nella stanghetta, disse: “Ma chi t’aaaaa messa questa?”*: gonfio di audace sicumera, convinto di poter far meglio del suo predecessore, aggiunse “mò t’aaaaa sistemo”. Purtroppo anche il suo intervento ebbe una longevità breve. Lancio quindi questa tenzone tra ottici: ricchi premi e cotillons per chi riuscirà a sistemare definitivamente i miei occhiali.


* Non ho esagerato, credo di aver contato quattro “a” nella sua inflessione.


Infine, è difficile trovare strade perse nel nulla. Posso scegliere di perdermi nella diossina, costeggiare un inceneritore, fare slalom tra rifiuti ai lati della strada e cartelli bucati dai proiettili. Oppure posso andare in direzione opposta e seguire strade lungo una fila ininterrotta di Comuni: da queste parti siamo un unico agglomerato urbano, non c’è alcuna interruzione tra un’amministrazione e un’altra. È difficile essere tipi fuori dal Comune, da queste parti: qui tutto è Comune, cemento e muratura ed esseri dis-umani.

Esseri come quelli che si affollano ad osservare la scena di un crimine, dove un uomo è morto nel tentativo di sventare una rapina e aiutare una cassiera. Tra i commenti spicca quello di un anziano signore, che, analizzando il fatto inforcando gli occhiali da sole come Horatio Caine in CSI, ha sentenziato: Meglij accussì, a prossima vot s’ facev e’ cazz suoj.


Chi vi scrive ha ritenuto di riportare fedelmente la frase senza tradurla dal dialetto perché trova riesca a conferirle una sfumatura icastica che si perderebbe nel suo corrispettivo italiano.


Uniche alternative di fuga sono costituite da qualche concerto ogni tanto, organizzato da qualche associazione culturale polivalente che non capisco mai come cavolo faccia a campare ma poi me ne rendo conto guardando i prezzi dei beveraggi. Per me vince quella che ha organizzato un evento a luglio, portando i Blonde Redhead a Napoli: una Tennent’s (33cl) 5 euro, sorvoliamo sul mangime. Ma la cosa più divertente era che a fine concerto era precisato sul tariffario che i prezzi sarebbero aumentati.

Ieri sera invece i prezzi erano tutto sommato onesti e ho potuto dissetarmi prima di assistere al concerto dei Jon Spencer Blues Explosion. Un paio di pogate mi han fatto dimenticare i pensieri. Oppure era il sudore lisergico di un tizio completamente sballato a torso nudo che mi è finito addosso ad avermi offuscato la mente.

Una cosa curiosa è che mi sono ritrovato davanti lo stesso tizio pelato con un ridicolo zainetto a sacchetto sulle spalle che avevo davanti qualche mese addietro al concerto invece dei Bud Spencer Blues Explosion. L’ho riconosciuto dal suo modo di ballare: è basculante, come un picchio perpetuo rappresentato nell’immagine qui sotto

Coincidenza? Non credo proprio.

Ho provato a farlo spostare adottando la tecnica che di solito uso in questi casi: do un paio di lievi calcetti dietro le scarpe che inducono la persona che sta davanti a spostarsi. Con lui non ha funzionato né all’epoca né ieri sera. Così ho ceduto e mi son spostato io.

Tornando a casa ho trovato gli occhiali da sole che mi aspettavano sulla scrivania, a ricordarmi che non mi è ancora chiaro il senso della vite.

Suburbano – Un serio professionista

 
L’estate stava ripiegando su se stessa come una foglia caduta che cede controvoglia vitalità, accartocciandosi come in preda alla vergogna. I tramonti si avvicinavano sempre di più, rendendo brevi le giornate di alcuni, lunghe le nottate di altri. Io ero uno di quelli che usciva per andare incontro alla sera, salutando amichevolmente il crepuscolo che alzava finalmente la serranda per accogliere noi sbandati.
Era uno di quei giorni, quando camminavo a capo chino per le vie del centro, contando i cubetti di porfido sotto le scarpe; per strada tante facce di persone che raccontavano il nulla, il vuoto nei loro sguardi che descrive la pochezza di una società che ci riduce a manichini ambulanti, su e giù per inseguire sempre gli stessi pensieri: la casa, il lavoro, il lavoro per pagare la casa, il marito, la moglie, il lavoro per pagare gli alimenti alla moglie, il marito che tradisce la moglie al lavoro, il cane, il piscio del cane, il vicino che si lamenta del piscio del cane, i figli, i figli che si picchiano a scuola, la scuola che…no, basta. Quando sono in mezzo a questi gusci vuoti sto male. Eppure senza di essi non potrei descrivere me stesso, per assurdo sono loro a tenermi in piedi per quel che sono. La libertà dalla grigia normalità ha un prezzo, e questo prezzo è proprio l’invidia per la rassicurante grigia normalità.
 
Avevo oltrepassato il tabaccaio da un pò, distratto da queste ed altre considerazioni: faccio per girarmi per tornare indietro, e la mia faccia s’incontra – o meglio, si scontra – con quella che ad occhio pareva una terza coppa C.
 
«Ma che diavolo! Ma perché non guarda dove va? É modo di muoversi per strada?»
Senza badarci molto tiro dritto, biasciando un «…mi scusi…» stirato. In altri tempi avrei approfittato dell’incidente per cercare di intavolare una conversazione che potesse concludersi in posizione orizzontale, ma ero troppo stanco e svogliato.
Mi sento tirare per il braccio.
 
«Ma…É lei?…Si, é proprio lei!»
«No signora, guardi, non credo…» e non mi fa terminare la frase.
«Si si, é proprio lei!»
«No, forse lei si confonde…» e non riesco a terminare la frase neanche stavolta.
«Aaah, si figuri, capisco che un serio professionista come lei preferisca l’anonimato, ma qui per strada solo io e lei sappiamo come stanno le cose! Venga, andiamo in posto più tranquillo! »
 
Perfetto, mi mancava da un pò incontrare una matta. Chissà per chi mi avrà preso, un divo della televisione, forse. No, impossibile, ha detto che sono un serio professionista. Mah, può scapparci qualcosa di interessante. Al limite scroccherò un bicchiere.
 
Mi introduce in uno pseudo fast food; una nuvola d’aria satura di olio fritto, grassi e colesterolo mi accoglie appena apro la porta. Un ragazzo con un cappellino rosso con su il logo del locale riordina i portatovaglioli sui tavolini lungo il lato sinistro del locale. Sul lato opposto tre ragazzini seduti su sgabelli metallici mangiano patate fritte e sghignazzano. Uno fa cadere una patatina per terra.
 
Ci sediamo ed io ordino una birra. Per lei niente.
«Mi deve scusare per prima, sa, so che nel vostro mestiere la riservatezza è essenziale…»
Per chi mi avrà scambiato? Un gigolò? La cosa si fa interessante.
«…non sa che piacere mi fa incontrarla, avevo proprio bisogno di uno come lei, della sua mano "artistica"…»
Un imbianchino? Un pittore?
«…sa, è passato tanto tempo dall’ultima volta, non sapevo come trovare un modo per ricontattarla…io ho di nuovo quel problema seccante con un marito…»
Uno spacciatore di viagra?
«…quando mi sono risposata sapevo che sarebbe arrivato questo momento, non volevo ammetterlo, ma era troppo pensare di poter resistere tanto tempo prima di mettere mano ai suoi soldi…»
Un avvocato?…Basta, ci rinuncio.
«Ora che poi ha scoperto le mie piccole scappatelle mi sta facendo minacce di ogni tipo, mi anche bloccato le carte di credito! Meno male che sono una previdente e ho un conto segreto, altrimenti ora sarei in mezzo ad una strada!…E non potrei nemmeno permettermi il suo aiuto…»
 
La conversazione si interrompe all’arrivo del ragazzo con la mia birra. Ringrazio. Per la birra e perchè l’ha fatta tacere.
Mentre sorseggio alzo gli occhi per scrutarla meglio. Rimane in silenzio, un accenno di turbamento sembra incresparle il volto. Pare che l’adrenalina messa in circolo dall’incontro con me, il suo uomo della provvidenza, stia scemando. Gioca con un mazzo di chiavi.
Avrà al massimo 35 anni; abbastanza piacente, labbra sottili ma ben rifinite. Intravedo il tocco di un chirurgo (mi avrà scambiato per il suo chirurgo?…). Il setto nasale sembra che le prema sul viso. Per compensazione, gli zigomi sembrano gonfiarsi in fuori. Ma il tutto senza eccedere, non pare una bambola di plastica.
A parte per le tette.
 
Rimaniamo in silenzio per qualche molto lungo istante, poi prende la borsa, estra il portamonete, e tira fuori una fotografia. La fa scivolare verso di me con due dita.
 
«Ecco, è lui.» afferma indicando con lo sguardo.
Il marito, presumo. Bell’uomo. Sulla cinquantina.
«.Voglio un lavoro ben fatto, come l’ultima volta. Non si deve sospettare nulla, ma d’altronde non ho bisogno di dirle questo. Lei è una persona seria.»
 
La mia fantasia comincia a lavorare a tutto spiano. Credo di intuire quale sia il mio tocco artistico, quello di cui ha bisogna la donna che ho di fronte. Ma mi sembra del tutto assurdo, forse non reggo più la birra, ecco, questo sarebbe ancora più assurdo però.
 
Apre di nuovo la borsa. Prende qualcosa, ma stringe il pugno e non intravedo cosa. L’altra mano corre a tirare la mia, la apre e dopo averci posato la cosa che stringeva nel pugno, me la richiude. sento un fruscìo di carta.
 
«Questi sono gli unici che ho al momento…credo bastino come anticipo.»
 
Sbircio l’interno della mia mano. Vedo carta, molta carta. Numeri sulla carta. É un rotolo di banconote. É pazzesco, ma chi è questa qui? Cosa vuole?
 
Mentre stavo ancora fissando la mia mano lei scrive qualcosa su di un blocco, poi ne strappa un foglio e me lo porge
 
«Qui – mi indica col dito – è dove lavora. Più sotto ci sono i posti che frequenta abitualmente. Agisca come meglio crede, basta che io non c’entri con la sua morte. Ma è inutile, no? Lei…»
«Io sono un serio professionista.» Ora ci sto credendo anche io.
«Si…»
 
La birra è finita. Sarei tentato di chiarire l’equivoco, ma ormai ci sono troppo dentro. Sono stato a parlare con una che assolda un killer per far fuori il marito, non posso uscirmene con la storia dello scambio di persona. E se poi incontrasse il vero killer per far fuori anche il testimone?….Non conosce niente di me, ma adesso che esco potrebbe anche seguirmi.
Potrei andare via con i soldi, ma rimane il problema che potrebbe scoprire che non ero chi pensava che fossi e mettersi in testa di rintracciarmi. Forse qualcuno mi ha visto entrare qui con lei, qualcuno che mi conosce. Non capita di rado che io passi di qui.
 
«Allora, accetta?»
«Si, signora – mentre faccio per alzarmi -, stia tranquilla, mi farò vivo io.»
 
La saluto e me ne vado.
Non so perchè avessi parlato in quel modo, in quel momento mi era sembrata la cosa giusta da dire.
Ed ora eccomi qui, carico di bigliettoni e di guai. Pensare che stavo in giro solo per perdere un pò del mio inutile, stupido tempo. Forse era meglio se avessi fatto la cosa più giusta, cioè approfittare dello scontro fortuito per fare il maniaco come mio solito.
Ecco cosa si guadagna a fare il morigerato.
 
CONTINUA
 
 

Suburbano – “Sidni”

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Torno a casa nel primo pomeriggio stanco e annoiato, con i piedi che gridavano pietà dall’interno delle vecchie scarpe che portavo. Forse era il caso di fare un investimento per delle calzature decenti, prima che le mie estremità scioperassero. 
Era una giornata calda, un sole traditore aveva costretto al pianto molte ascelle altolocate, io non stavo tanto meglio nei miei sgualciti panni invernali.
 
Dovevo assistere ad una noiosissima conferenza stampa di presentazione della tournee di un come cazzo si chiamava nuovo gruppo inglese – due brufolosi ventenni annunciati come la futura rivelazione del rock, non fanno in tempo a pubblicare un disco che subito spuntano altre due, tre, quattro, decine di future rivelazioni e nel frattempo questi si sono già sciolti dopo aver tirato su un pò di grana- e scrivere un pezzo.
Dopo aver aspettato per ore ci hanno bidonato non presentandosi. Bravi così, giovani e impudenti. E niente pezzo, tanto non lavoro neanche a tempo pieno per quella carta igienica chiamata giornale. Quando c’è una rottura di palle in vista e nessuno disponibile chiamano me. E se non sto troppo scazzato accetto anche. Cazzo, son soldi.
Ma questa volta niente pezzo, niente soldi. Peccato. E addio investimento calzature.
 
Sulla strada del ritorno avevo allungato il mio percorso passando per una viuzza laterale brulicante di vite alternative. Passavo di lì per dare un occhio alle puttane che praticano in pieno giorno sotto gli occhi di tutti, tra venditori ambulanti, casalinghe di ritorno dal mercato, bambini vaganti affidati alla strada – come se questa fosse una tata -, barboni ubriachi.
Di puttane ce ne erano sempre tre o quattro, in genere prossime od oltre i quaranta, residui che il mercato delle vie notturne principali rifiutava: passai di fianco a quella che sembrava la più giovane – non meno di trent’anni, comunque -, una biondona prosperosa con un fisico tutto sommato decente, però quasi rido guardandole le gambe fasciate nelle calze a rete che sembravano due insaccati appesi ad essiccare.
Accenno un sorriso e le chiedo come va, lei si volta dall’altra parte ignorandomi. Cristo! Son arrivato a farmi disgustare anche dalle puttane.
 
Quando arrivo in quel buco che definire appartamento era un eufemismo, trovo Molly la padrona di casa come al solito intenta in pulizie inutili (la sporcizia non spariva, mai, anzi sembrava riprodursi. Forse era Molly a spargerla di nascosto in giro per avere qualcosa da fare). Mi vede e senza proferire verbo mi allunga il bloc notes dove annotava le telefonate, dicendomi che avevano lasciato un messaggio per me.
CIAO JO
IO VADO IN AUSTRALIA, A SIDNI (Molly aveva la licenza elementare…) PER UN LAVORO
PARTO STASERA, NON SO QUANTO STARO VIA
CHIAMA SE TI VA
STAMMI BENE
 
Strappo il foglio e lo butto nel cestino, tentando di fare canestro. Fuori. Peccato, era un tiro da tre punti. Molly, sempre senza dir niente, raccoglie la cartaccia da terra e le getta.
 
Così anche Rebecca fuggiva via.
Via da me.
 
Sbottono i pantaloni e mi getto sul divano.
Stavo cominciando ad avvizzire dentro e non me ne accorgevo. Poco mi mancava dal diventare come quei vecchi che entrano in crisi se sposti le loro cose. Rebecca era una mia cosa, e ora si stava spostando e non l’avrei trovata più per chissà quanto tempo.
Rebecca aveva scelto una propria strada.
Nel mondo esistono le persone che scelgono e le persone che si fanno scegliere.
 
Ed io a che categoria appartenevo?
Ostentavo orgogliosamente uno stile di vita pseudo libertino, fingevo un disprezzo delle regole come un bambino che intinge le mani nella marmellata anche se gli è stato detto di non farlo, non mi preoccupavo dei rigidi formalismi e delle convenzioni sociali, perchè avevo rinunciato al normale quieto vivere da società civile, le buone impressioni la macchina pulita non bere di mattina non vomitare in giro non fare colazione con una bistecca non farti vedere dopo aver fumato erba non camminare a piedi nudi per strada non dormire di giorno non stare sveglio di notte paga la bolletta appena arriva sorridi sempre quando ti ferma la polizia lavati sempre le mani non mettere negli articoli parole come cazzo figa uccello passera non guardarle le tette non rubare la biancheria alle ragazze con cui esci.
 
Era questa la vita che avevo scelto? O era solo la vita che più mi faceva comodo, perchè mi stancava troppo cercare una mia strada?
Con le donne forse era così, mi stancavo e trovavo faticoso mettermi in gioco, e allora vivevo in uno stato di perenne preventiva rassegnazione.
Quando Denise ad esempio mi disse di non voler più vivere con me, io senza darle troppo peso come se fossi preparato all’evento già dall’inizio della storia le dissi
<<ok>>
Poi pensai a qualcosa di brillante da dire, e aggiunsi
<<potevi almeno fare la spesa prima di andartene, stasera con cosa ceno?>>
Non mi rispose.
Infine dovetti cedere ad un impeto d’orgoglio, e chiesi se stesse scopando con qualcuno in quel periodo, ma lei negò. Non la guardai in viso mentre lo diceva, quindi non sono sicuro che dicesse la verità. Poco importa, tanto di sicuro attualmente starà scopando con qualcuno. Non la vidi più da quando varcò la soglia di casa mia. Forse è morta e io non ne sono a conoscenza, sarà una di quelle persone che tu tieni lì conservata nell’elenco dei vivi, poi un giorno incontri un tale che ti dice ehi lo sai chi è morto? E tu, no, ma dai, come è successo, mi dispiace (e intanto cerchi di ricordarti chi cazzo fosse la persona che è morta).
 
Con Rebecca però era diverso, io c’avevo provato sul serio a mettermi in gioco. Lei era una fonte di ordine per me. Nelle mie vite passate avevo sempre speso il tempo a cercare di imporre il mio disordine agli altri, finendo per travolgerli e disorientarli, tant’è che o cercavano di ammazzarmi o fuggivano sconvolti.
Rebecca invece no, riusciva a contenermi e allo stesso tempo indirizzare le mie energie al meglio, quello è stato forse il mio periodo maggiormente creativo, la passione finalmente non era diretta semplicemente ad uno stadio di eccitazione corporea.
 
Ora Rebecca con la sua fonte di ordine si trasferiva a "Sidni" – beata ignoranza! Forse è meglio non sapere, a volte. Perchè quando sai e non fai, perchè non puoi o non vuoi, allora qualcosa dentro la tua testa non funziona,  ti sei creato delle stanze in cui vaghi e vaghi e vaghi e non ne esci più.
 
Ero ancora in tempo per scegliere? Scegliere e…amare? Amare, forse, no non saprei, l’amore non l’ho mai definito perchè è un’altra di quelle convenzioni che la gente ama seguire, sono insicuri di loro stessi allora devono fissare un punto fermo: ok ci amiamo, piazziamo l’etichetta e viviamo felici.
No no, io non volevo fissare etichette, volevo scorrere, far fluire le mie passioni…
 
Sgombro la mente.
Getto lo sguardo su un bicchiere appoggiato sul tavolino. Si poteva dedurne l’età come per gli alberi, contando gli anelli di calcare depositativisi all’interno. Era proprio vecchio dentro!
 
Mi alzo di scatto, corro in bagno a guardarmi allo specchio, apro la bocca e puntando alla luce mi guardo la gola. 
Niente anelli di calcare, per fortuna. Almeno questo.
 
 
 

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Suburbano – Diario del bruco

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Quella mattina mi alzai con un tremendo dolore al collo, come se una enorme mano ungulata mi stringesse ai lati della nuca e non mollasse la presa. Detesto quando il sonno non è fonte di sano riposo; il sonno è un sostegno del quale non si può fare a meno, noi ci immergiamo nei nostri letti come bruchi dentro ad un bozzolo in cerca del conforto e dell’intimità che abbiamo perso da quando un utero ha deciso di non ospitarci più, e pretendiamo che per quelle 6-7-8 eccetera ore possiamo stare in pace lontano dall’aggressivo mondo esterno. 
 
La mattina poi l’illusione svanisce e torniamo a strisciare lungo i sentieri delle nostre vite.
Qualcuno strisciando lascia su quei sentieri anche rivoli di bava. Anche a me capita di trasudar bava, ma solo quando vedo un bel culo femminile. Una volta vidi passare così tante fighe (forse per coincidenza, forse si era ribaltato lì vicino un camion che le trasportava) che dopo un pò mi accorsi di avere i piedi immersi in una pozzanghera che avevo formato io stesso. Tornato a casa la padrona mi vide inzaccherato e domandò <<Ma fuori ha piovuto? Non me ne sono accorta>>
 
Ci sono poi alcune persone che non riescono a resistere al gelido mondo esterno e finiscono per imbozzolarsi dentro loro stessi, diventando crisalidi ambulanti che non si romperanno mai per far uscire una vanessa o anche una volgare cavolaia. Non hanno altra dimensione che le pareti del loro guscio, le loro stupide grida rimbalzano tra se e sé, e quelle degli altri non li raggiungono perchè restano chiuse fuori. E le distanze tra gli esseri umani aumentano.
Fu quel giorno che presi coscienza delle reale portata di quelle distanze, anche se proseguii per giorni ad ignorarle.  
 
Arrivai trafelato alla biglietteria della stazione, ma appena mi avvicinai per chiedere due biglietti un omino indaffarato nel cercare di capire come si accende un computer (o un computer indaffarato nel capire perchè uno strano essere non si sa se appartenente al regno animale, vegetale o minerale gli sta mettendo le mani addosso) mi invita ad andare all’edicola. Corro in edicola, e chiedo alla vecchia vedova tumulata lì dentro – un ritratto vivente della rassegnazione che sembra chiedere la morte, ma essendo cattolica fino al cerume invece di farla finita aspetta ipocritamente o la fine della sua vita per consunzione naturale o una rapina mano armata – due biglietti.
 
<<Toh>> E me li getta davanti.
Poi aggiunge << Non ce la fai >>.
Io abbozzo un ghigno, e le rispondo << Prenderò quello dopo>>.
 
La vecchia bastarda si sbagliava, perchè feci in tempo. Anche se mentre salivo le scale respirando affannosamente sentivo i gradini urlarmi <<smetti di fumare, coglione!>>
 
Appena arrivato e sceso da quel barattolo di latta su rotaie, m accorsi di sentire un odore strano nell’aria. In genere la Città del Caos puzza di gas di scarico, vomito, piscio, merda, plastica bruciata, caffè corretto con assorbenti usati – non chiedetemi come mi viene questa sensazione – ma quel giorno c’era qualcosa in più. Si sentiva profumo di estate, anche se formalmente si era ancora in primavera. Il sole cuoceva così tanto che tornato a casa e tolta la maglietta potevo notare allo specchio come la base della mia nuca fosse diventata color cuoio.  La cosa più ridicola era poi il contrasto col bianchiccio pallido del resto della schiena.
 
Avrei preferito vedermi con Jason, anche perchè doveva ancora riportarmi un accordatore che gli avevo prestato per la chitarra – a quei tempi quell’individuo lisergico era ancora sopportabile –  ma dovevo ottemperare quella che era diventata una formalità e non più un rapporto tra due persone. Ma del resto l’intera sovrastruttura che domina i rapporti sociali è fatta di formalismi, si vive di etichette e manuali d’istruzione. Solo che l’umanità non è pronta per accettare tale realtà. Oppure tiene nascosta la verità perchè fa tutto parte di una grande cospirazione. Questo almeno mi era confusamente rimasto da un paio di raduni pseudo hippy a cui avevo partecipato per scriverci degli articoli sopra, non mi era rimasto molto altro in testa perchè la mia soglia di attenzione cala vistosamente dopo dieci minuti che ascolto un discorso. Cinque minuti se sono seghe mentali. Un minuto se di fianco c’è una scollatura con la quale far due chiacchiere. 
 
E alla fine comunque lo strano ero io.
 
Forse la mattina in realtà la mano invisibile dietro il collo cercava solo di trattenermi e invitarmi a restare a casa, in attesa di giorni migliori per trovare un bozzolo femmina in cui infilarmi.
 
 

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Conversazioni del passato futuro – Stralci di futuro bionico

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I seguenti frammenti acquisteranno senso nel probabile passato futuro
 
 
REGISTRAZIONE DL-9/b
 
 
<sconosciuto> : Così è giunta l’ora?
<prigioniero> : …Chi…chi sei?
<sconosciuto> : Sono venuto ad aiutarti
<prigioniero> : …Aiutarmi?
<sconosciuto> : Ho saputo dell’esperimento fallito, non siete riusciti a devitalizzare il Soggetto C. La rescissione ha iniziato ad interessare i quadranti 3 6 ed 8, presto riuscirà a staccare i residui contatti e l’avrete perso, come il precedente esperimento.
<prigioniero> :…E’…E’ stato un errore…credevamo di controllare
<sconosciuto> : Controllare? CONTROLLARE? Non potete controllare quello che non conoscete e con cui non siete mai venuti a contatto. Non conoscete le loro reazioni, non potete prevederle. Credete di analizzare loro e invece loro stanno analizzando voi, state scoprendo il fianco ad una forma nuova di evoluzione ma non siete in grado di resistere alla progressione.
<prigioniero> …Noi…Credevamo…Credevamo sarebbe stato diverso…
<sconosciuto> : E’ questo il problema di voi homo sapiens: cedete il passo elle emozioni e deambulate nel giardino delle illusioni perdendo di vista la realtà solida. Credete, credete, i vostri "credo" sono stati la vostra rovina. Dovreste essere declassati dal novero delle razze raziocinanti.
<prigioniero> …
<sconosciuto> : Sai è piacevole starvi a guardare mentre centimetro dopo centimetro avanzate verso l’autodistruzione. Non vi accorgete che più venite a contatto con Loro più arrecate danno alle vostre menti. Ma non potete farne a meno, non è così? Se non sbaglio lo definite "masochismo".
<prigioniero> Noi…non siamo…Non siamo come ci vedete…
<sconosciuto> : E’ questo il problema.
 
 
FINE DELLA REGISTRAZIONE
 

Suburbano – Scioccanti note blues

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Negli ultimi anni avevo iniziato a pensare a quelli che tra le mie conoscenze avrebbero potuto tirare le cuoia per primi, tenevo le quotazioni e le aggiornavo di tanto in tanto a seconda della vita che stava facendo il soggetto in questione. Se era una vita che prometteva pericoli allora una eventuale puntata sul "cavallo" sarebbe stata pagata molto meno visto l’aumentare delle probabilità di dipartita.
Ad esempio da quando Nancy aveva iniziato a svendere i suoi fianchi e la sua bocca decisi che l’avrei pagata molto meno una scommessa su di lei, perchè tanto prima o poi qualche fottuto figlio di papà col naso infarinato e l’uccello in tiro, a cui lei scuciva soldi, l’avrebbe cacciata in guai molto seri.
 
Jason invece era proprio un cavallo da evitare, troppo alte le probabilità che fosse lui a lasciarci per primi, sarebbe stato un ben misero guadagno quello ricavato da una puntata su di lui.
 
Ovviamente le mie erano scommesse virtuali e non andavo realmente in giro a raccoglierle, non credo che a questo mondo ci sia molta gente dotata di ironia ed in grado di accettare simili innocenti passatempi.
E’ triste scommettere su quelli che crepano, ma un uomo deve pur inventarsi qualcosa per tenere impegnato il cervello e non imboccare definitivamente la strada della pazzia.
 
Fu così che la telefonata di Daniel dall’ospedale non mi colpì più di tanto, anzi ero quasi alterato perchè aveva appena interrotto una interessantissima fase REM in cui mi ero addentrato, speravo che quando sarei potuto ritornare a letto avrei ripreso il sogno nel punto in cui era stato interrotto.
 
<<…Devi venire subito in ospedale….Jason sta conciato male…beh meglio che vieni >>
 
Continuavo a ripensare alle parole di Daniel mentre guidavo e intanto immaginavo quale metodo avesse scelto Jason per dire addio a questo mondo: davo per scontato infatti che si trovasse in ospedale per un tentativo di suicidio perchè era diventata così monotona e deprimente la sua vita (e così monotono e deprimente lui stesso) che non vedevo altra prospettiva per lui. A meno che non fosse stato investito per strada mentre passeggiava, oppure non gli fosse caduta una tegola in testa – non si può mai sapere – ma in quel momento la mia idea era fissa sull’ipotesi suicidio.
 
Il suicidio.
L’opinione comune è che si tratti di un atto di egoismo (una delle tre categorie Durkheimiane), io invece ho sempre pensato che il più grande atto di egoismo sia decidere di rimanere vivo e rifiutarsi di morire – non vedo perchè mai debba essere io a togliermi di mezzo, che lo facciano gli altri, io voglio continuare a mangiare, bere, dormire, fumare e scopare, nonostante questo mi obblighi a sopportare una certa quantità di disagi come il dover fare un lavoro che non mi piace giusto per pagare le cose che ho elencato sopra – e che quindi il suicida è un inconsapevole altruista.
 
Questi pensieri deliranti – probabilmente non ero del tutto sveglio ma vagavo ancora tra residui della precedente fase REM, se mi beccassero gli sbirri in questo momento mi pesterebbero per bene pensando che io sia fatto – ondeggiavano nella testa, si accavallavano, facevano a pugni, mentre scioccanti note blues entravano nella mia vettura facendo vibrare le molecole di ossigeno e anidride carbonica presenti, portandomi alle orecchie un ritornello familiare
  
I’m walking on sunset , and I’ll never reach the end
I’m walking on sunset, everything is like a friend…

 
Semaforo rosso.
Il bar all’angolo cerca di attirarmi e distogliermi dalla mia missione (?) con le sue note tinte di blues che fuoriescono dal locale di proposito per adescare perdigiorno come me.
 
Un cane si svuota sul lampione di fronte, sul marciapiede a lato un omino stempiato con le mani nelle tasche della giacca sdrucita si avvicina ad un transessuale dai tratti asiatici. Questa sera qualcuno si divertirà.
 
Il cane ha finito la riserva e ora prosegue per la sua strada annusando l’asfalto.
 
 
Semaforo verde.
 
Esito, poi accosto e decido di riempire la mia di riserva con una birra nel bar.
 
 
 
CONTINUA
 
 

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