Non è che l’endocrinologo di Gaudí studiasse le ghiandole surreali

Mi mancavano un po’ di esperienze surreali – era almeno una settimana che non capitavano – e per fortuna me ne è arrivata una.

Ho sostenuto un colloquio su Zoom, questo software di videoconferenze che il mondo del lavoro ha scoperto durante la quarantena e che invece in realtà pare serva pe’ scopa’ (virtualmente):

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Le grandi inchieste del nuovo corso di Repubblica che ora sembra Vice News. Prossimamente: “Intervista a quello che ha inventato il birra pong, che vi spiega come funziona”

Quindi raccomando a chi volesse fruire del sesso in multiconferenza di essere informato (su cosa?) e fluido.


Io ho un problemino alla spalla che invece mi rende un po’ rigido, sarà per quello che non frequento questi ambiti, non ho la necessaria fluidità.


Amenità a parte, mi sono collegato all’orario concordato per il colloquio cui avrebbe partecipato Tizia (che si occupava della selezione) e Tizio, il Presidente. Sottolineo, il capo.

All’inizio c’era connessa solo Tizia, che mi ha fatto un paio di domande di rito.

Poi ha fatto irruzione Tizio nella videochiamata. Uno che pareva il sosia di Vinicio Capossela – con tanto di coppola in testa pur trovandosi dentro casa – appena svegliatosi (e magari era così. Alle 6 del pomeriggio). Ha salutato, poi ha poggiato il telefono per terra (tutti noi il telefono lo mettiamo sul pavimento, specie durante una conversazione) facendo Continuate, continuate mentre intanto girava per casa.


Quando dico sosia di Vinicio Capossela è per dargli un volto e visualizzarlo, ma la cosa non contiene alcun giudizio di merito, anzi. Più che altro il problema era che sembrava si fosse appena alzato dal letto.


Mentre quindi continuavo a parlare con Tizia lui ha interrotto chiedendomi per cosa mi fossi candidato. Quando gliel’ho spiegato ha detto che non stavano cercando per quella posizione in questo periodo.


L’annuncio per quella posizione era stato pubblicato 3 giorni prima.


E poi ha iniziato a parlarmi di altre tre-quattro attività in cui loro sono impegnati, chiedendomi Sai fare questo? Ti sei mai occupato di quest’altro? Poi di nuovo ha detto Continuate, continuate.

Tizia ha ripreso a farmi domande, collegate comunque alla posizione per cui mi ero candidato (ho capito quindi che doveva essere una situazione à la Schrödinger, un annuncio attivo e non attivo nello stesso momento), poi ha fatto di nuovo irruzione lui – come se ciò che stessimo dicendo non fosse rilevante – a parlarmi ancora di altre attività e cose che fanno e poi chiedermi Ma hai fatto questo? Come ti vedi a fare quest’altro? No perché io ad esempio non l’ho mai fatto non saprei come farlo. E poi ha invitato di nuovo Tizia a riprendere.

Questo copione si è ripetuto per una terza volta, finché ci siamo congedati con una sorta di dichiarazione di intenti: mi avrebbero mandato cose più dettagliate su quelle attività di cui mi parlava Tizio, con la promessa di risentirci.

Credo che attiverò il filtro spam e bloccherò i loro indirizzi email.


Nota: qualcuno potrà chiedersi Ma con chi hai parlato? Con una società di marketing piramidale? Una setta? No, in realtà è una Fondazione che dall’esterno pareva abbastanza figa e che da 20 anni a questa parte fa cose molto fighe. A quanto pare però a capo c’è uno svalvolato. Che ha una casa senza piani d’appoggio dove posare un telefono.


La prossima volta mi faccio invitare a un fluido sex party.

Non è che al cittadino indignato basti una crema emolliente per calmare l’irritazione

Ho riprovato l’ebbrezza di andar dal barbiere e ho smesso di andare in giro con una coppola à la Peaky Blinders per nascondere un tentativo di taglio casalingo mal riuscito.


È bella la coppola ma non quando ci sono 30°.


Andare su prenotazione e non dover attendere un paio d’ore è certamente un’innovazione, ma qualcosa nel contesto è venuto a mancare: le presenze solite.

L’habitat del salone di un barbiere è stato, dai tempi antichi, il social network per eccellenza, dove la predominanza l’hanno sempre avuta i discorsi d’indignazione (magari più pacati ma pur sempre con quel dna di sdegno primigenio).


Prova ne è Per l’invalido, una celebre orazione di Lisia del V secolo a.C.; in questa, l’imputato, tra le varie accuse mossegli doveva difendersi dall’ospitare nella propria bottega (quella di un barbiere, per l’appunto) mascalzoni dediti a insolenze e cospirazioni verso il prossimo.


Io confesso di provare un piacere al limite del feticismo per i discorsi dell’uomo della strada, purché a piccole dosi e dal peso specifico contenuto. Potrei sembrare un po’ borioso e con la puzza sotto il naso – e probabilmente è così – ma il mio non è un esercizio di scherno e dileggio, quanto più un interesse viscerale di chi vuol conoscere e capire il mondo che lo circonda.

Mancandomi il contesto della barberia, durante questi tre mesi ho scoperto, su segnalazione di un amico, un gruppo facebook di indignati (il titolo della pagina precisa proprio che sono degli indignati) della mia città. Mi offre dei retroscena su una realtà nella quale io non mi sono mai integrato e che cerco di recuperare attraverso un’analisi dei contenuti veicolati attraverso lo strumento social.

A inizio quarantena ricordo il post di un cittadino che lamentava di essere uscito di casa per andare a fare la spesa e di aver visto troppe persone in fila al supermercato. Un altro ha risposto “Sì vero anche io, è uno scandalo”, un altro faceva eco “Anche io sono uscito e ho visto un sacco di gente ma cosa hanno da uscire” e così via finché qualcuno ha fatto notare che probabilmente si erano quindi visti tra di loro.

Qualche giorno fa, invece, una cittadina preoccupata postava la foto di un vespidae appoggiato contro la sua finestra, annunciando terrorizzata l’arrivo, anche nella nostra città, del terribile calabrone asiatico o vespa killer: il sindaco cosa fa? Perché non interviene?


Ogni inizio estate arriva la notizia della vespa killer, perché si sa che certe vespe fanno giri immensi e poi ritornano.


A parte qualcuno che faceva notare che al massimo era un comune calabrone, il vero genio è stato quello che ha commentato scrivendo Bravi fate bene proteggetevi: zanzariere di XXX a YYY (nome di città) tel. 000000. Marketing 1 – 0 Indignazione.

Molte poi in questa pagina le segnalazioni di disservizi: la TIM per cadute di linea, l’Enel per interruzioni energia elettrica, le Poste per il postino che sbaglia sempre buca delle lettere. Purtroppo queste aziende, per evidente codardia, ancora non hanno deciso di iscriversi alla pagina degli indignati e le denunce cadono nel vuoto.

Infine, il dibattito che mi ha illuminato: le piste ciclabili costruite per accaparrarsi i voti dei ciclisti.

Analisi del contesto: a fine 2019 è stata creata una pista ciclabile (anche spezzata) che fa il giro di un isolato. Lunghezza: 600 metri. Presenza di noi ciclisti (occasionali e regolari) in città: insignificante. Per dar l’idea, in base al principio Gallera occorrerebbero due ciclisti per formarne uno.


Il principio Gallera è quel fenomeno fisico per cui, per esempio, se metto vicine sul fuoco due pentole d’acqua quando la temperatura di entrambe sarà a 50° potrò dire che la temperatura dell’acqua sarà 100.

 


Però a quanto pare qualcuno ha il timore che una segreta lobby del pedale stia tramando per mettere le mani sulla città.

E secondo me hanno ragione. Ho visto le città europee cosiddette bike friendly: Berlino, Copenaghen, Utrecht e così via. I ciclisti, da noi esemplari timidi e timorati, lì sono sciami sfreccianti che travolgono tutto e tutti. Le strade appartengono a loro, non frenano mai ma scampanellano per terrorizzare come fossero tanti Hector Salamanca.

La verità è che ogni popolo oppresso si trasforma in oppressore: per questo la lobby del pedale fa paura, perché la storia è destinata a ripetersi.

Indignate, gente, indignate.

Non è che dei maiali dicano: Avete domande da porci?

Tra le mie diverse identità c’è quella del Domandiere. Ma prima devo fare una digressione.

Durante la quarantena mi ero iscritto a un corso gratuito, online e full time. Poi quando è partito mi sono reso conto nel concreto che non mi interessava più di tanto. Inoltre nel frattempo avevo iniziato un’altra attività.

Ho provato a sganciarmi dal corso inoltrando il mio ritiro ma mi hanno telefonato dall’ente di formazione sostenendo che:
a) non era possibile;
b) pure se fosse stato possibile, dovevo tenere conto che è un corso ad accesso limitato e selezionato e quindi c’erano altre persone che erano interessate e questa volta non hanno potuto accedere perché i posti erano occupati da noialtri selezionati;
c) è un corso finanziato e soggetto a ispezioni da parte dei finanziatori e le defezioni li penalizzerebbero.

Pervaso dai sensi di colpa, sono rimasto iscritto ma precisando che mi sarei sì connesso ma non avrei seguito perché sarei stato spesso impegnato.

Le rare volte che seguo, però, intervengo. Non perché io mi senta realmente interessato a farlo, ma quando il formatore chiede Avete domande? oppure Come sta andando? o ancora C’è qualche suggerimento su come vorreste proseguire? e tutti tacciono io provo pena e disagio per lui. E allora pongo una domanda.

È una vita intera che faccio il Domandiere per intervenire laddove cala dell’imbarazzo. Perché quando qualcuno formula la frase Ci sono domande? e nessuno apre bocca io sento di dover riparare a un torto. Mi riprometto sempre di non farlo, ma poi alzo gli occhi e vedo l’espressione di scoramento negli occhi della persona che in quel momento pensa di aver sprecato ore della propria vita – ore che non torneranno mai più – per distribuire conoscenza a un branco di capre e non riesco a star zitto.

È così che sono diventato il Domandiere.


Ci tengo a precisare che le mie domande non sono poste a caso o sono fuori luogo: negli anni sono diventato esperto di domande precise e circostanziate.

 


Credo di essere maturo abbastanza per sfruttare questo mio ruolo in modo professionale. Mi rendo quindi disponibile a essere ingaggiato per qualunque occasione, corsi, eventi, cerimonie, per porre una domanda al momento opportuno.

Ci sono domande?

Spero di no, perché mi togliereste lavoro.

Non è che per un ballo in maschera devi prendere quella chirurgica

La proprietaria dell’enoteca ha voglia di chiacchierare. Io avevo solo chiesto un’informazione. «È ora di riaprire» dice, «Voglio tenerci chiusi solo per vendere il vaccino». Capisco, le dico. Lei sembra non badare a me e prosegue argomentando che regole e restrizioni sono solo finalizzate a venderci cose. «I disinfettanti. Questi dispenser di igienizzante».

Ché, giustamente, tra tutte le cose che potrebbero venderci, perché non organizzare una bella quarantena per dei dispenser?

Ha ragione, vorrei dirle. Il culo l’hanno infatti inventato per venderci la carta igienica, vorrei proseguire.

Tutto quel che mi vien fuori invece è un accenno di sbadiglio, che lascio sfuggire ben protetto dalla mascherina, stando attento a non tradirmi con la parte superiore del viso. Io non so se gli occhi siano lo specchio dell’anima, di sicuro sono lo specchio di quanto te ne freghi. Un osservatore ben attento potrebbe anche scoprire che espressione stai facendo sotto quel pezzo di garza e tela che porti appeso alle orecchie.

E lì ho provato un brivido. Il piacere di fare qualcosa un po’ sconveniente, ben nascosto in mezzo alla gente. La mascherina è un’allegoria dell’oscenità. C’è chi, per sfida e sfregio, si mostra a bocca e naso scoperti, dando sfogo a tendenze esibizionistiche. Chi invece è molto ligio e pudico e ti fa segno di coprirti, perché nel girare il capo ti è uscito il naso fuori. L’ultima volta che mi ero vergognato per qualcosa che era uscito fuori ero al mare e indossavo dei bermuda.

Bocca e naso come le pudènda.

La mascherina oggetto feticistico. Già immagino modelli più elaborati, fatte di sole striscioline di tessuto che occultano giusto gli orifizi, lasciando quel gioco di contagio/non contagio che lascia poco all’immaginazione.

Abbassati la maschera suonerà osceno e intimo.

Ma soprattutto noi annoiati cronici sbadiglieremo sommessamente senza che gli altri se ne accorgano. Mi sento già tutto preso dall’eccitazione.

Non è che il sub sia uno che ci resta sotto

Il ritorno a una normalità, con tutte le regole e le precauzioni del caso, è segnato anche dal veder comparire delle presenze familiari.

Questa sera io e due miei sodali – a distanze di sicurezza – siamo stati avvicinati da quello che definisco il Re dei Bruciati della città.


I Bruciati sono un gruppo di frequentatori assidui di un ritrovo storico a me familiare, che praticamente negli ultimi 20 anni ha cresciuto me e i miei amici a botti di Bass Scotch e Tennent’s. Una storia edificante, diciamo. Questi avventori, chiassosi e con problemi di equilibrio, li inquadrerei con termini scientifici dicendo ci sono rimasti sotto, da parecchio. Penso avessero familiarità con la keta prima che divenisse Myss.


Dopo avermi chiesto in dono, un giorno che non l’avessi voluta più, la maglietta col logo dell’Atari che avevo indosso, ha iniziato una conversazione, o meglio, un flusso di coscienza con oggetto la quarantena e le restrizioni, di cui non ho un filo logico da riportare o qualche passo specifico, se non uno che mi ha colpito quando ha detto che mio padre è cubico.

In realtà non mio padre nello specifico. Mentre lo diceva si rivolgeva a me e al mio amico, ipotizzando, a proposito delle regole, «Se un vigile prende e ferma tuo padre», rivolgendosi quindi a un padre che potrebbe essere quello di chiunque, un meta-padre martire dell’ingiustizia dello Stato.

Ebbene, ha proseguito, il vigile ferma il meta-padre perché è in giro e gli fa la multa e il meta-padre, «che altro deve fare? Lui è cubico».

«È cubico perché come devo dire ci vive dentro, le palazzine dove abita sono dei cubi, la fabbrica è un cubo, la sua vita è all’interno del cubo e quindi prende e paga 500€ di multa nonostante viva magari con una pensione di 600».

Ebbene, vi dirò, ho trovato che il discorso avesse un senso. In base alla parafrasi che ho fatto sulla via del ritorno a casa, quel che voleva dire probabilmente è che l’uomo onesto, l’uomo probo (tralalalalla tralallaleru), vive la sua vita irregimentato, confinato, abituato alle regole e alle imposizioni, cosicché anche di fronte a un abuso di potere come quello dell’ufficiale che lo sanziona per il semplice fatto di esistere lì in quel momento in quella strada in quello spazio di libertà, lui si piega perché la dimensione cui è stato abituato è quella dell’obbedienza.

Mai innanzitutto avrei pensato di ricevere un’illuminazione da un tipo del genere, con cui in verità non ho mai parlato in 20 anni ma che oggi si rivolgeva a me come se ci conoscessimo da una vita. O forse in una fase allucinatorio-onirica mi ha scambiato per un altro.

Mai, inoltre, avrei pensato a mio padre come cubo.


Tutt’al più da adolescente l’ho ritenuto un incubo, il che a ripensarci oggi mi porta a chiedere perché nessuno mi ha elargito talvolta una salutare dose di schiaffoni, ché va bene che la violenza corporale sui figli è sbagliata e non si deve applicare, ma magari due pizze in faccia come terapia anticoglionaggine di tanto in tanto io gliele avrei date a me stesso.


E adesso sono qui, che scrivo, all’interno di una stanza che è un cubo che vedo dopo che mi è stato squarciato il velo di Maya dagli occhi.

E se fossi io il bruciato?