Non è che il pomodoro ti può dar buon consigli se è concentrato

Sono giorni che cerco inutilmente di recarmi all’ufficio postale a ritirare una giacenza.

Purtroppo i ticket da prenotare online non sono mai disponibili. In posta invece devi fare la fila per prendere il numero e poi fare la fila col numero. Le persone all’esterno sono sempre di più e non c’è spazio sul marciapiede per mantenere il distanziamento. Tra un po’ si farà la fila per fare la fila per fare la fila per prendere il numero.

Pensavo di aver avuto un colpo di fortuna quando il 31 sono riuscito a prenotare un ticket per sabato 2 gennaio, alle 9:30. Metto la sveglia per sicurezza alle 8:30. Mi preparo atleticamente il giorno prima per affrontare i vecchietti che mi aggrediranno all’ingresso vedendomi arrivare ed entrare subito saltando la fila della fila.

Il sabato mattina non ho bisogno della sveglia. Apro gli occhi col rumore della tempesta di grandine che sta imperversando all’esterno. Va be’ poi smetterà.

Non ha smesso.

Sono rimasto a letto rinunciando a uscire.

Alle 9:28 la tempesta cessa (cessa come verbo e come aggettivo) ed esce il sole. E io il mio turno in posta l’ho ormai perso.

Quello stesso sabato alle 22 la caldaia cessa (sempre verbo e aggettivo) di funzionare, lasciandomi senza acqua calda e termosifoni.

Domenica mattina salta la corrente. Solo da me. Un sovraccarico perché avevo le pompe di calore accese e contemporaneamente Madre ha acceso il phon nel bagno di servizio giù.


A quanto pare l’impianto del bagno di servizio è collegato al mio appartamento.


È scattato il contatore esterno. Il lucchetto del gabbiotto che lo contiene è arrugginito e non si apre più. L’ho scassinato facendo leva con martello e bestemmie. Ci ho messo mezz’ora. Non credo di aver un futuro come topo d’appartamento.

Quella stessa mattina mi è uscito uno sfogo sul labbro. Forse il nervoso.

A pranzo il ragù avevo smesso di sorvegliarlo e si è ristretto troppo. Stava per bruciare. Per salvarlo l’ho diluito aprendo un altro barattolo di passata. Alla fine è venuto buono. Quindi, per pensar positivo e trarne qualcosa di buono dal fine settimana trascorso, ho preso come insegnamento per il futuro far restringere il ragù fino a concentrarlo – magari senza farlo bruciare – e poi riallungarlo.

Aforisma: Concentratevi pure ma non fuori gli uffici postali (ché io ci devo andare)

Non è che il mattino abbia l’oro in bocca perché porta una protesi dentale

La ragazza seduta di fronte a me sul treno sembra avere un pezzo di cibo su un incisivo. Mi giro per non guardare e non sentirmi in imbarazzo per il farmi i fatti altrui. D’altro canto penso che forse dovrei avvertirla. Ma è il caso di farlo con una sconosciuta e metterla a disagio? Però poi quando tornerà a casa e si accorgerà della cosa si sentirà più a disagio per aver girato tutto il giorno con un pezzo di qualcosa su un dente.

Mentre sono immerso in queste riflessioni un raggio di sole entra dal finestrino. La sua bocca inizia a luccicare. O siamo in uno spot Mentadent e non me ne sono accorto o qui c’è qualcosa di strano. Mi giro e noto che quello che pensavo fosse cibo è in realtà un brillantino. Quindi la ragazza o ha l’abitudine di sgranocchiare Swarovski a pranzo o quella è semplicemente una decorazione odontoiatrica.

La morale della storia è che non è tutto oro quel che luccica: può essere pure un brillantino, ma di sicuro non è cibo.

In tema di quel che sembra oro luccicante, ieri di buon mattino ho fatto il trasloco nella nuova stanza. La proprietaria/coinquilina si è mostrata nuovamente ospitale è accogliente: mi ha offerto un caffè e dei cannoli siciliani.

Ho iniziato ad aver paura di cotanta gentilezza. Siamo così abituati a non avere fiducia del prossimo e a enfatizzare le notizie di merda che ora ci aspettiamo sempre che ci sia merda dappertutto e quando qualcosa non sembra merda ci chiediamo quest’ultima dove sia sotterrata.

E, purtroppo, devo constatare che avevo ragione. Qualcosa costei mi stava nascondendo: la sua casa picchia.

Avevo già parlato in passato delle case che maltrattano gli umani. Il mignolo contro la base del mobile? La testa contro una mensola? Un’anta che si stacca e ti finisce addosso? Non siete voi: è la vostra casa che vi picchia.

Ieri mentre sistemavo le mie cose prima la base del letto mi ha colpito un piede, poi un ginocchio è stato oggetto di violenza da parte di una porta. Infine, mentre provavo a spostare un bottiglione di vetro da un ripiano – che io mi domando perché uno come decorazione in casa debba avere delle bottiglie vuote, non siamo mica in una natura morta di Giorgio Morandi – in cima a un mobile per fare spazio salendo su un puff per arrivarci,


Attenzione: non provate a farlo a casa. Queste scene sono state girate da un professionista.


il suddetto puff mi ha fatto perdere l’equilibro facendomi cadere e causandomi anche un taglio al dito a causa del bottiglione che si è spaccato.

Direi un’aggressione in piena regola.

Ma se questa casa tenta di intimidirmi, si sbaglia di grosso. In serata, quando la coinquilina mi ha chiesto Ti sei sistemato? Tutto bene? io ho risposto di sì con un sorriso smagliante. Non se l’aspettava tanta serenità da parte mia, scommetto, dopo avermi lasciato da solo con il suo appartamento violento.

Ma ora so e non abbasserò più la guardia!

Non è che ti fidi di Netflix perché le cose che ha sono serie

Il 1° febbraio mi trasferisco e cambio casa. Ho trovato una stanza in un’altra zona di Milano. Mi dispiace lasciare quella dove mi trovo ora, è un’area molto viva e interessante e nei dintorni ha praticamente tutto.

Dividerò casa ancora una volta con chi ne è il proprietario: questa volta è una tizia che mi sembra affabile e tranquilla. Domenica per portarmi avanti ho già trasferito lì uno zaino di cose. Mi stupisco di me ma in 5 mesi il mio vestiario è aumentato e in un solo viaggio non ce la farei a portare tutto.

Così settimana scorsa le avevo chiesto se nel weekend potessi passare a lasciare lo zaino e lei mi ha invitato a venire per pranzo. Veramente gentile.

Domenica abbiamo mangiato e chiacchierato. È alquanto ciarliera, mi ha raccontato un mucchio di cose. Io spero non si auspichi di avere un coinquilino con cui dividere il tempo e fare cose insieme. Quando si tratta di condividere casa sono il classico coinquilino di merda, sottogenere fantasma. Quello che non sai se c’è in casa o meno e quando c’è se ne sta in camera a farsi i fatti propri e che cerca di evitare di incrociarsi in corridoio per non dover fare conversazione.

So di sembrare una persona orribile e credo infatti di esserlo: in realtà a me piace stare con le persone, ma quando si tratta di una casa il discorso è diverso. Di una casa ho scelto la stanza, non la persona: la persona la valuto giusto nella misura in cui cerco di capire se è uno che ti ritrovi la notte a fissarti di fianco il letto. Giudicato innocuo, finisce lì.

Temevo che questo invito a pranzo nascondesse velleità di socializzazione. E, difatti, mentre sparecchiavo, cogliendomi di sorpresa in un momento che avevo abbassato la guardia, lei mi ha fatto una proposta indecente.

Mi ha chiesto – essendo appassionata di serie tv – se fossi d’accordo a dividere insieme un abbonamento Netflix.

Non ho parole. Così, giusto al secondo incontro, uscirsene con queste cose.

Non è che il palestrato va in biblioteca per cercare dei libri da reggere

Mi ritengo un buon lettore. Non riesco a leggere tutto quel che vorrei, però riesco a scoprire di frequente tante cose nuove. Leggo 20-25 libri all’anno e mi sembrano troppo pochi.

Ogni tanto mi capita davanti il mio incubo. Il libro che non se ne scende giù, come una quinoa alle verdure che in realtà è piena di cipolle.

Spero sempre di averlo scampato, e, di solito, mi riesce. Arrivato ad agosto, quando metà anno ormai era scavallato, pensavo che sarei riuscito a farla franca per questa annata.

Poi, proprio pochi giorni dall’inizio di agosto, mi hanno prestato un libro. Chi me l’ha dato ci teneva anche a consegnarmelo. Lo aveva appena finito di leggere mentre attendeva il treno prima di vederci e, mentre me lo raccontava, ha esclamato “Sai che c’è? Te lo presto”.

Quindi alla lettura si aggiunge anche il peso emotivo di sapere di una persona che ti ha prestato il libro che ci tiene probabilmente al tuo parere e al sapere se ti è piaciuto.

Il libro, a dire il vero, è scritto bene. E oggettivamente è credo sia un buon libro.

Solo che io l’ho trovato pesante e poco scorrevole. Ho veramente faticato ad andare avanti. A un certo punto leggevo le pagine senza che del filo del discorso mi rimanesse nulla, anche perché il filo lo perdevo di vista in mezzo alle digressioni mentali che si aprivano da una pagina all’altra.

L’ho terminato per senso del dovere. Detesto non concludere un libro. E odio ancor di più dover deludere le attese di qualcuno.

D’altro canto questa cosa mi ha spinto a una riflessione. In questi giorni sto tornando a casa tardi e mi resta poco tempo per dedicarmi ad altro e, quel poco, l’ho impiegato per terminare il libro.

Facciamo un sacco di cose nella vita che ci portano solo via tempo ma che portiamo avanti per obbligo. Tralasciando cose di cui non si può fare a meno, io vorrei dare un taglio col fare cose che non mi scendono giù. Come mangiare quinoa dichiarata alle verdure ma in realtà piena di cipolle (che è stato il mio pranzo odierno).

Quindi la prossima volta che mi propongono un libro, o farò il difficile nell’accettare o, al limite, sarò onesto e dirò Guarda non ce l’ho fatta a terminarlo.

Il che vorrebbe dire combattere contro un altro mio lato caratteriale, cioè la sensazione di fastidio di fronte alle cose incomplete, non terminate o fuori posto.

Ma facciamo che ho spazio per risolvere un sol buon proposito alla volta.

Non è che un prete di moda sia un prete-à-porter

Ho un amico che ad Aprile 2019 si sposa e in questi giorni è affaccendato nei preparativi. È un po’ sotto stress perché dice che il tempo è poco e le cose da fare tante.

Poco tempo? Mancano ben 4 mesi! Cosa ci vorrà mai a preparare delle nozze?

Io non ho mai organizzato un matrimonio né prevedo di farlo ma, proprio per quelli come me che, non essendovisi mai cimentati, non saprebbero da dove iniziare, ho deciso di scrivere un piccolo prontuario di preparativi che vi permetteranno di evitare perdite di tempo per il vostro matrimonio.

1) Serve innanzitutto qualcuno che vi sposi. Non mi riferisco al trovare una persona insana di mente che decida di passare tutta la vita con voialtri scassaminchia: diamolo per scontato perché dare suggerimenti in merito è troppo faticoso. Mi riferisco al reperire un officiante, qualcuno che vi dichiari marito&moglie o moglie&moglie o marito&marito o fedez&ferragni. Il Comune non è disponibile? Il prete è occupato fino al 2030 a meno che non gli allunghiate sottobanco “un’offerta per i poveri” (offerta che lui recapiterà con la sua nuova Mustang)? Sappiate che la legge prevede che le funzioni di ufficiale dello stato civile possono essere delegate anche […] a cittadini italiani che hanno i requisiti per la elezione a consigliere comunale. Tradotto: trovate uno che abbia tempo libero e vi offici. Volendo, potete travestirlo da Sindaco, da prete, da Papa o da Cavaliere Jedi se volete dargli un tocco più ufficiale.

2) Uno degli assilli maggiori è quello del ristorante dove tenere il pranzo. Trovare il posto giusto, scegliere il menù, verificare la disponibilità…uno stress inaudito. Soluzione: il matrimonio destrutturato. Si mandano 10 invitati in un posto, 6 in un altro e così via fino a esaurimento lista invitati. Chi ha intolleranze o diversi gusti alimentari può scegliersi il ristorante che preferisce. Se qualcuno ha impegni quel giorno, può anche andare a pranzare in un’altra data potendo comunque dire di aver partecipato al matrimonio!

3) I vestiti. Una scocciatura e per gli sposi e per chi partecipa. Trova l’abito giusto, provalo, dai le indicazioni per farlo sistemare perché non è a misura, scopri qualche giorno prima che non ti va bene perché hai messo peso o ne hai perso…Che tragedie. Basta con la dittatura delle sartorie. Soluzione: un bel matrimonio nudista.

4) Le bomboniere, ovvero i raccoglipolvere da mensola, se va bene. Se va male, finiranno in qualche scomparto della credenza insieme ad altri orrori. Diciamo la verità: non piacciono a nessuno, tranne agli sposi che le ordinano. E a volte manco a loro. Soluzione: se le vogliono, le scelgano gli invitati. Aprite una linea di credito con un determinato budget presso un negozio specializzato, così chi vuole ne andrà a ritirare una personale.

5) Il fotografo. Uno che si crede un misto tra Alberto Korda e Steve McCurry e vi chiederà cifre esose per un discutibile servizio fotografico. Soluzione: lanciate un hashtag Instagram (del tipo #matrimoniocippolippo&ermengarda) chiedendo a ogni invitato di scattare almeno una foto dell’evento con quella dicitura.

Visto come è facile? Con i miei suggerimenti potrete organizzare le vostre nozze da qui a domani!

Non è che porti il cane su un aereo da guerra perché è un cane da caccia

Mentre ero in giro per i boschi in cerca di funghi trifolati e castagne arrostite mi sono imbattuto in una donna armata di fucile. L’arma l’ho notata dopo in realtà perché sono rimasto colpito dal fatto che la donna fosse bionda naturale. E che fosse completamente nuda.

Quando poi mi è caduto l’occhio sul fucile – dopo che avevo terminato una sessione di autoerotismo – l’ho guardata male perché a me non piace la caccia né i cacciatori. Lei, leggendomi nel pensiero e leggendomi la maglietta con la scritta “Non mi piace la caccia né i cacciatori” che indossavo, mi ha rassicurato:

– Tranquillo…non uccido animali, perché sono meglio delle perzone. Io sono una cacciatora solo di buone opportunità. E di promotori finanziari.

E mi ha mostrato la sua sacca con un paio di belle occasioni e un agente Mediobanca ancora caldo e dall’espressione veramente euforica.

Dato che mi ispirava fiducia – la cacciatora, non l’agente – abbiamo proseguito insieme la passeggiata chiacchierando un po’. Quando si è fatta ora di pranzo ho pensato di invitarla a casa sperando che la conversazione poi potesse evolversi in modo favorevole a me. Cioè con dei consigli su come abbattere quelli che vogliono proporti delle polizze vita.

Purtroppo distratto dal pensiero del pelo – l’agente di Mediobanca aveva un taglio di capelli invidiabile – avevo dimenticato di avere il frigo vuoto. All’interno c’era solo un polletto transgenico (aveva fatto l’operazione per il cambio di genoma suscitando le ire degli oppositori della teoria genomagender).

Occorreva arrangiarsi per non far brutta figura. Ebbene, questa è la storia di come sono riuscito a mettere insieme un superbo pollo da servire alla cacciatora.

Ricetta pollo alla cacciatora

Tempo di preparazione: tre mesi
Ingredienti: 1 pollo, 1 cacciatora, 1 olio di palma, 1 aglio, 2 carote, 1 sedano, pelati (o capelloni da rapare a zero) a caso, 1 pizzico di sale urticante, petardi quanto basta, 1 aromi, 1 Netflix (se gradito).

1) Si prende un pollo. Il mio l’ho agganciato in un centro scommesse promettendogli un sistema infallibile per vincere facilmente.

2) Il pollo va un po’ battuto. Scegliete un gioco o uno sport in cui vi sentite forti e battetelo ripetutamente.

3) Fate a pezzi il pollo umiliandolo verbalmente e sminuendo le sue prestazioni sessuali. Mettetelo da parte a meditare sulla sua vita.

4) Prendete due carote. Una tritatela in modo grossolano, l’altra usatela per dei giochi erotico-vegani come aperitivo. Non tritate due volte la carota perché poi saprà di cosa trita e ritrita. Dovreste poi compiere la stessa operazione con del sedano ma io non lo avevo in casa e questo mi ha dato un’intuizione: l’ho seminato e ho atteso di poterlo raccogliere tre mesi dopo, per avere un prodotto fresco, totalmente km 0 e bio: l’ho infatti lavato col Bio Presto prima di utilizzarlo.

5) In un tegame si scalda dell’olio di palma e si getta dell’aglio che avrete in precedenza pestato a sangue. Gettate nel tegame il trito di carota e il sedano bio. Gettate nella spazzatura la carota erotico-vegan.

6) Mettete nel tegame il pollo che avevate prima lasciato a meditare. Prendete dei pelati e sciacquateli prima con l’Alpecin. Mostrate loro che prodotti simili sono inutili per la ricrescita dei capelli e gettateli nel tegame. Io avevo soltanto dei pomodori capelloni e quindi li ho rapati a zero.

7)  Gettatevi addosso del sale urticante fino a sentire una sensazione di pizzico sulla pelle.

8) Fate un po’ saltare il tutto con qualche petardo.

9) Aggiungete delle erbette aromatiche a piacere. In casa io non avevo niente tranne che delle infiorescenze di canapa quindi ho usato quelle.

10) Potete insaporire il pollo come volete. Io ho preso un po’ di pancetta (è bastata una settimana sul divano a guardare Netflix accompagnato da birra e prodotti precotti).

Quando il tutto è cotto a puntino impiattate e servitelo alla cacciatora. Oppure fate come me e mangiate direttamente nel tegame così risparmiate di lavare i piatti dopo.

Purtroppo la cacciatora nel frattempo si era scocciata ed è andata via prima di assaggiare la mia ricetta. Ha anche preteso del sesso da me che non avevo pronto e le ho dovuto improvvisare lì sul momento.

Nella prossima puntata vi parlerò quindi della ricetta del sesso alla cacciatora!

Non è che lo studente svogliato porti con sé olio e limone per marinare la scuola

Da un’auto di passaggio arrivavano note di Ma come fanno i marinai.

Ho tanti Ma come fanno in mente.

Ma come fanno quelli che prendono il Suv in città, tra problemi di parcheggio, vie molto strette e ansia continua per graffi e specchietti.

Ma come fanno quelle tacco 12 sul basolato che io su un percorso simile una volta ho preso una distorsione con le sneakers.

Anche costei si chiede ma come fanno

Ma come fanno quelli che escono dagli spogliatoi coi capelli bagnati.

Ma come fanno quelli che saltano il pranzo e non muoiono di fame né lo stomaco imita suoni temporaleschi. Se non mangio, io mi spengo e non parlo più né ragiono.

Ma come fanno quelli che stanno insieme da 20 anni con quella che era la compagna di banco del liceo mentre le mie relazioni durano meno di un capo esposto in saldo.

Ma come fanno quelli che parlano di lavoro anche al di fuori dell’ufficio mentre io è sin dai tempi in cui ero studente che, terminato l’orario del dovere, volto decisamente pagina e non voglio parlarne né sentirne più. Fino al mattino dopo.

Ma come fanno quelli che attraversano la strada voltati dall’altra parte o chinati sul telefono a trovare sempre uno come me che non li investe.

Ma come fanno quelle che alle 7 di mattina escono di case perfettamente curate e truccate mentre io sono a tanto così dall’andare a letto vestito per dormire 10 minuti in più al mattino.

Ma come fanno quelli che hanno nostalgie per epoche che non hanno vissuto.

Ma come fanno quelli che “Mi licenzio e giro per il mondo”.

Ma come fanno quelli che, sportivi amatoriali, si imbottiscono di farmaci dopanti per le gare del circolo della parrocchia o i campionati intercondominiali.

Ma come fanno quelli che si radono tutti i giorni a non ridursi il viso come Freddy Krueger.

Ma come fanno i marinai alla fine poi si è capito?

Non è che uno che naviga nell’oro se poi fa regali sia il Nababbo Natale

Tutti hanno qualcosa da chiedere a Babbo Natale ma delle esigenze di quel vecchietto nessuno si preoccupa mai.

Cosa desidera Babbo Natale?
Cosa sogna quando, tornato a casa, lascia gli stivali all’ingresso, smette l’abito rosso, lancia sulla poltrona la panciera, il tutto come se fosse una lavoratrice del sesso un po’ stagionata?

I suoi detrattori dicono che per aver lavorato un solo giorno – anzi una notte – all’anno matura il diritto al vitalizio pensionistico e questo sia scandaloso e quindi non avrebbe diritto di pretendere niente. Anzi, forse dovrebbe dimettersi perché in fondo chi l’ha votato ‘sto Babbo Natale?

D’altro canto il vitalizio è più che fittizio (bella rima): quand’è che andrà mai in pensione?
E forse questo è un bene, con tutti gli anni di contributi versati capirete che pagare la pensione a Babbo Natale manderebbe in crisi la previdenza sociale.

Per tal motivo si continuerà a ritardarne sempre di più l’uscita dal mondo del lavoro, finché non tirerà le cuoia. Questa cosa me lo fa sentire un po’ più vicino.

Forse potrei essere il prossimo Babbo Natale.
La barba la ho già, anche se è nera e dubito che si incanutirà mai del tutto. Credo che volgerà in un grigio piccione esausto e mi toccherà quindi tingerla di bianco.

Per metter su pancia potrei sempre chiedere consulenza a mia zia.
Bisogna sapere che lei ha per 40 anni provveduto al regime alimentare di mia nonna diabetica. La cara anziana fin quando ha vissuto è sempre stata in perfetta salute e non si è mai privata di nulla. Il segreto stava nel dosaggio preciso a livello subatomico di ogni singolo alimento.


Da qui il modo di dire che Si stava meglio quando c’era il regime alimentare, non come oggi che ci sono i vegani, poi c’è quello che si sveglia la mattina e decide che è meglio mangiare tutto senza glutine perché l’ha letto su internet, l’altro che segue la dieta del gruppo sanguigno, quella che segue la dieta delle targhe alterne e così via. Capirete che mettersi d’accordo per un pranzo crea una paralisi totale organizzativa ed è per questo che il Paese va a rotoli.


Tutta questa attenzione scientifica ma monotematica ha privato mia zia della capacità di saper cucinare per gli altri.

Ignora le quantità equilibrate di olio, sale, condimenti vari e singoli ingredienti per i non diabetici. Il risultato è che per non sbagliare e trovarsi a offrire di meno oppure a cucinare piatti insipidi, abbonda di qualsiasi cosa. Dall’olio al sale, dalla cipolla all’aglio, per non parlare di tutto il contorno di altri ingredienti che aggiunge per un singolo piatto.

Una volta mi disse: “Ti preparo una coscia di coniglio”.

Nel piatto ho scavato in mezzo a litri di pomodoro, cipolle, teste di aglio intere, rami di rosmarino, grani di pepe che sembravano pallettoni di un archibugio, porcini ancora attaccati al cesto di vimini, una corona di alloro forse rubata a un laureato, prima di trovare una coscetta piccola e smunta come quella di un Fassino che, com’è ovvio, alla fine di tutto aveva sapore tranne che di coniglio.

Una settimana a casa sua sarebbe sconsigliata da tutti i dietologi.

Babbo Natale, trema: il tuo posto un giorno sarà quindi mio.

Non è che devi metter mano al portafoglio per spendere una buona parola

Non potrò mai ritenermi un buon massaio fino a quando non sarò in grado di far per bene la spesa.

Ho difficoltà a pianificarla per l’intera settimana, non essendo in grado di quantificare gli acquisti necessari per un lungo periodo. Cosicché, mi trovo ad acquistare giorno per giorno quel che mi serve per la cena e, al massimo, per il pranzo del giorno dopo.

Fanno eccezione i bastoncini di pesce di cui riempio il frigo di scorte per l’intero anno prossimo venturo.

Ultimamente pensavo di aver fatto progressi, riuscendo ad andare al supermercato una volta ogni due giorni.

Poi mi sono reso conto che stavo semplicemente mangiando di meno. Me ne sono accorto una mattina che sono uscito di casa. Era una giornata ventosa e le folate mi stavano portando via: Mondogatta è arrivata la bora qui?, pensai. Poi una vecchietta di 1 metro e 50 mi ha superato di lato placida e tranquilla e allora ho pensato che forse stavo perdendo troppo peso.

Gestire gli acquisti è impresa non semplice.
Oppure semplice, quando non acquisti un bel niente come ho fatto io.
O come fa BB (non Brigitte Bardot), la segretaria amministrativa dove lavoro.

Da lei per scucire l’acquisto di un foglio di carta devi aspettare mesi e devi riuscire a convincerla che quel foglio di carta sia davvero necessario, invece di usare il vetro della finestra e l’alito per prendere appunti con le dita.

L’altro giorno cercavo un pennarello.
Sono passato davanti a BB con noncuranza, canticchiando a bocca chiusa Don’t you want me degli Human League, fingendo di dirigermi al distributore d’acqua. Poi, all’ultimo momento, ho aperto le ante dell’armadio della cancelleria.


Mentre lo cercavo, mi sono accorto che in italiano – a differenza dell’inglese dove si dice hum, che ha un che di onomatopeico – non esiste un verbo per identificare il canto a bocca chiusa.


Bisognerebbe inventarne uno, che sia così sorprendente da far restare a bocca aperta prima di chiuderla per canticchiare!


Lei ha alzato la testa come un gatto che sente il rumore della scatola di croccantini.

Posso aiutarti?
Si, evitando di rompere i cog…Ehr…Ho bisogno di un pennarello
Uhm

Quell’uhm stava a indicare che nella sua mente era iniziato questo processo logico-deduttivo: Un pennarello? Cosa se ne farà di un pennarello? Ha davvero bisogno di un pennarello? Perché mai dovremmo consumare un pennarello?.

Si è poi alzata ed andata nella mia stanza, dicendo:

– Forse CR li ha
– No, ho già visto
– Allora puoi usare questi
– Quelli sono evidenziatori. Servono per evidenziare cose. A me serve un pennarello per scrivere cose
– Ah
– Quindi?
– Non l’abbiamo!

E con un sorriso istantaneo fino ai padiglioni auricolari  è tornata a sedersi.

E ora sono due giorni che scrivo sul vetro con l’alito, ma, non so perché, i miei appunti sembrano riguardare solo materiale andrologico/ginecologico.

Non è che il commercialista ti inviti a rivolgerti a lui al grido di “Se hai bisogno fammi un fisco!”

È stata una settimana particolare.

Martedì ho contratto un virus intestinale che mi ha accompagnato per tutta l’ebdomada.
Anzi, lui ha contratto me: nel senso che andavo in giro tutto rattrappito su me stesso dal dolore.

Giovedì sono dovuto andare a Roma per affari.


Dire “affari” conferisce un certo tono autorevole.


Purtroppo son partito carico di buoni propositi e di enterogermina ma il risultato è stato un buco nell’acqua.

Venerdì mattina ho invece ricevuto una telefonata dall’ufficio postale che qualche giorno prima mi aveva respinto quando volevo chiudere un conto Bancopostaclick.

Ho pensato che si fossero pentiti o volessero profondersi in scuse o che altro. No. Il direttore mi comunicava che era stata sbloccata la pratica di conversione di un vecchio libretto postale che avevo fatto anni fa e di cui avevo dimenticato l’esistenza.

Così, insieme a un conto che volevo chiudere, ora mi ritrovavo anche con un libretto che non desideravo.

Sono andato all’ufficio postale per ritirare il nuovo libretto e ne ho approfittato per far presente la mia richiesta di chiusura del Bancoposta, chiedendo di parlare col direttore. Quest’ultimo mi ha ricevuto e mi ha spiegato:

– Allora, è vero che il bancoposta si può chiudere ovunque, ma, non avendo noi qui il fascicolo e dato che dobbiamo richiederlo e poi io debbo inviare la richiesta alle Poste, se in questi passaggi si perde qualcosa ne sono io responsabile nei confronti dell’utente…quindi, in genere, dico agli impiegati di sconsigliare tale procedura.

Tradotto: non voglio rotture di cazzo.

– Purtroppo, gli impiegati – ha proseguito – ecco, dovrebbero anche essere un po’ psicologi e capire chi hanno di fronte: alle persone anziane noi diciamo che una cosa non si può fare, senza impelagarci in spiegazioni lunghe e poco comprensibili per loro, ai giovani dovrebbero forse spiegare come stanno le cose…

Quindi sono anche stato trattato da anziano dall’impiegato.


Comunque alla fine mi ha fatto la richiesta di chiusura.


Più tardi, sempre di venerdì, ho ricevuto una proposta dalla Capa dell’ufficio finanza della mia vecchia società di Budapest. Una proposta che non so bene come valutare, perché fatico a comprendere come si possa conciliare con le normative fiscali italiane. Secondo la Capa sarebbe tutto normale, ma la Capa è ungherese e di normative fiscali italiane ne sa quanto me, cioè zero. Io in genere vado dal commercialista, chiedo “Debbo pagare?”, lui mi risponde “No, ci vediamo l’anno prossimo” e finisce tutto così. Sono un ignorante felice.


Con questo non voglio incentivare all’uso dell’ignoranza in campo fiscale e, d’altro canto, neanche io sono in realtà così ignorante in materia. Mi tengo aggiornato sullo stretto necessario, forse delle volte è troppo stretto o ti mette troppo alle strette.


Nel caso tornassi a Budapest il mio primo proposito sarebbe quello di evitare il ripetersi di pericolosi doppisensi con CR, già verificatisi in passato quando lei voleva il mio cannellone.

Si sa che Malizia è sotto le ascelle di chi se lo spruzza e che quindi il deviato sia io. Ma, quando le ho detto della proposta che mi avevano fatto, lei mi ha scritto:

Io volevo solo dirti che se vieni mi farebbe super piacere

Mi ha ricordato lo slogan di m3mango.

Non contenta, ha aggiunto – è tutto vero, che Zeus mi fulmini altrimenti –

mi farebbe piacere se venissi tanto

Non si può pensare di ricominciare con queste premesse.

Ho concluso la settimana quest’oggi dovendo constatare, ancora una volta, che Madre sia nel suo inconscio alquanto razzista e/o sessista.

Conosco una ragazza che vive al di sopra della Linea Gotica e che vedo quando posso, vista la distanza. Dopo aver riferito a Madre delle origini della fanciulla, lei ha commentato:

– Ah! Quindi sa cucinare i notoprodottotipico!
– Madre, si rende conto di cosa sta dicendo?
– Perché, cosa ho detto?
– Solo perché è donna allora cucina e solo perché è di quel posto sa fare i notoprodottotipico?
– Embé, cosa c’è di strano?
– È come se mi dicessero: Ehi, napoletano? Ah, pizza, mozzarella e spaghetti, eh?! Le par bello, Madre?
– Cosa hai mangiato ieri a pranzo?
– Spaghetti al pomodoro…
– Cosa hai mangiato ieri a cena?
– Mozzarella…
– Cosa mangiamo oggi?
– Spaghetti con le vongole…
– Ecco.

Non è che il fotografo fosse atletico solo perché era scattante

Il RailJet da Vienna a Graz percorre il tratto della storica linea del Semmering. Un percorso di montagna tra tunnel e vallate che d’estate immagino regali paesaggi impressionanti. Anche in inverno garantisco che fanno la loro figura, tra abeti sempreverdi, alberi spogli e chiazze di neve che insieme creano un patchwork di natura dormiente.

Il treno procede lento ma costante, inerpicandosi per un dislivello non indifferente. La sensazione è che se si fermasse scivolerebbe all’indietro come un masso di Sisifo, ma non è mai successo o non starei qui a scriverlo.


Il percorso della linea ferroviaria. Fonte: Wikipedia

Costruita tra il 1848 e il 1854, la linea del Semmering è tra le prime ferrovie di montagna mai costruite (forse la prima in assoluto) in Europa: un’opera di ingegneria notevole, considerando il dislivello, le curve, le gallerie (ce ne è una di 1,5 km) e quelle che erano le possibilità tecniche dell’epoca. Ovviamente tutto ciò ha un costo e, in termini di vite umane, fu una vera strage (circa 700 operai persero la vita durante i lavori).

Fonte: linkiesta.it


Il progettista fu Karl Ritter von Ghega, in italiano Carlo Ghega, nato a Venezia. Considerando che all’epoca la Serenissima era sotto dominio asburgico suppongo che però debba essere definito Karl.

Alla stazione di Semmering c’è un monumento in suo onore e, approfittando del treno fermo con la porta aperta, stavo per scattargli una foto.

Poi mi è sorto un dubbio: me ne importava realmente qualcosa di Karl Ritter von Ghega, seppur col massimo rispetto per la sua inventiva? Fino a prima di salire sul treno non sapevo chi fosse e, anche una volta saputo, al di là del sapere aneddotico da sciorinare agli amici per annoiarli, non mi sentivo interessato all’argomento.

Essendo quindi No la risposta, il motivo per cui scattare una foto cessava di esistere.
Sono tornato quindi a sedermi per contemplare la Stiriana che avevo seduta di fronte, una ragazza biondissima e dagli occhi chiari ma arrossati, non ho capito se per pianto o per un raffreddore. Le nostre brevi conversazioni non erano entrate in un’intimità tale da poterle chiedere ragguagli in merito. E credo poi fosse rimasta disgustata dalla mia merenda, una megabaguette al prosciutto e mozzarella che ho divorato con compiaciuta voluttà, tal che lei nel frattempo aveva la testa girata di 90° verso il finestrino come a volersi appiattire contro.


Ma forse era una mia impressione dovuta alla mia sindrome dell’effetto riflettore, secondo la quale tutti stanno a pensare a ciò che faccio mentre in realtà non gliene importa nulla. Probabilmente stava a pensare ai cacchi suoi come qualsiasi essere umano in un treno.


L’episodio del Karl Ghega mi ha fatto riflettere sull’ossessione per l’immagine che abbiamo ormai nella nostra epoca. Una sindrome che decontestualizza – o forse dovrei dire sradica, per la sua aggressività – l’oggetto dell’immagine. L’immagine esiste come un concetto astratto, che vive e si replica perché la propria esistenza viene perpetuata da chi fotografa.

Mi fa tornare in mente la storia del “fienile più fotografato d’America” descritta in Rumore Bianco di Don DeLillo.


Diversi giorni dopo Murray mi chiese se sapevo qualcosa di un’attrazione turistica nota come il fienile più fotografato d’America. Guidammo per ventidue miglia nella campagna intorno a Farmington. C’erano prati e alberi di melo. Recinzioni bianche si srotolavano lungo i campi. Ben presto apparvero le prime insegne. IL FIENILE PIU’ FOTOGRAFATO D’AMERICA. Ne contammo cinque prima di arrivare sul posto… Camminammo per un sentierino fino alla collinetta che serviva ad ottenere una vista migliore. Tutti avevano macchine fotografiche; c’era qualcuno con treppiede, lenti speciali, filtri. Un uomo dentro un baracchino vendeva cartoline e diapositive del fienile, fotografato proprio da lì. Ci mettemmo vicino a un boschetto e guardammo i fotografi. Murray mantenne un silenzio prolungato, ogni tanto scribacchiava qualcosa su un taccuino. Alla fine disse: “Nessuno vede il fienile”. Seguì un lungo silenzio. “Una volta che hai visto le insegne per il fienile, diventa impossibile vedere il fienile”. Si ammutolì di nuovo. Persone con macchine fotografiche scendevano dalla collinetta, subito rimpiazzate da altri. “Non siamo qui per catturare un’immagine. Siamo qui per mantenerne una. Lo capisci, Jack? E’ un’accumulazione di energie senza nome”. Ci fu un altro lungo silenzio. L’uomo nel baracchino vendeva cartoline e diapositive. “Essere qui è una specie di resa spirituale. Vediamo solo ciò che vedono gli altri. Le migliaia che sono state qui nel passato, coloro che verranno in futuro. Abbiamo accettato di essere parte di una percezione collettiva. Questo letteralmente colora la nostra visione. In un certo senso è un’esperienza religiosa, come ogni turismo”. Ne derivò un altro silenzio. “Fanno fotografie del fare fotografie”, disse.


Una cosa simile avviene nei musei di tutto il mondo.
Al Louvre la gente fa la fila per raggiungere il posto davanti alla Gioconda, fare la foto e poi scappare via perché c’è altra gente dietro che dovrà far lo stesso e via così sino alla chiusura quando i sorveglianti cominceranno a seguirti incalzanti per spingerti verso l’uscita come si fa con le galline per farle rientrare nel pollaio.

Anche io all’epoca ammetto di aver fatto la foto alla Monna Lisa, rischiando anche di causare un incidente perché nella calca stavo per rotolare per terra oltre il cordone di sicurezza e non so le guardie ipocondriache appostate lì come l’avrebbero presa.


Per la cronaca la foto ovviamente venne una vera merda, come credo vengano male a tutti per la luce e la distanza. Questo dev’essere un complotto dell’ente che gestisce il museo per vendere più cartoline o stampe raffiguranti la signora.


La Gioconda è l’esempio perfetto per il discorso: è fotografata perché è famosa ma è famosa perché è fotografata. Beninteso, la sua fama è molto probabilmente precedente all’invenzione della fotografia ed è stata accresciuta da imitazioni, furti, reinterpretazioni artistiche e così via, ma oggigiorno lo scopo dell’esistenza della Gioconda nel Louvre è quello di far da piatto principale della mangiatoia dei maiali di consumo dell’immagine.

Questo rituale della tripla F (fila-foto-fuga) svuota l’arte di qualsiasi significato, a mio avviso.

Chiariamo, ognuno l’arte la vive come gli pare. In contemplazione, in adorazione, in riflessione. E io parlo come un profano per il quale Arte è spesso traducibile con Opera bella/Opera meno bella/Opera che non comprendo/Opera che non mi piace.

Ogni qualvolta viene replicato il rituale della cattura dell’immagine come a un safari, l’oggetto, per tornare all’esempio di DeLillo, cessa di essere “un fienile” e diventa “l’immagine di un fienile”.

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Questa non è una lanterna (semicit.).

Io non sono bravo a far foto. Ne faccio lo stesso e mi piace catturare immagini di cose che in primo luogo hanno catturato me. Come può essere questa lanterna in vero finto stile d’antan nel Castello di Eggenberg.

Sempre a Graz ho fatto una foto a una casa che mi piaceva molto. Era una casa normale, non un reperto o una meta di pellegrinaggio turistico.
Dimora caratteristica, esterno colorato e decorato da ghirigori fantasia, finestre in legno, un balconcino, anch’esso in legno, ad angolo nelle mura incassato nella struttura portante.


Doveva essere il famoso balconcino a reggiseno.


Stavo scattando una foto quando un tizio che passava ho notato mi osservava, finché non è entrato in quella stessa casa continuando a tenermi d’occhio. Mi sono allontanato vergognandomi, senza voltarmi. La foto per la fretta è anche venuta male, per giunta.

Ci sono cose poi che non si possono immortalare.

Come l’indifferenza della proprietaria di una caffetteria in cui ho fatto colazione.

All’atto di pagare, mi ha chiesto se avessi 10 centesimi per avere il resto tondo. Sicuro di me ho aperto il tintinnante portamonete, da dove ne sono però usciti soltanto spiccioli ungheresi.


Monete che non riuscirò mai a spendere. Contando che 1 euro = circa 310 fiorini, pensate quindi cosa mai ci si possa fare con manciate di 5 fiorini.


Alla fine sono riuscito a mettere insieme 10 centesimi di euro composti da 5+2+1+1+1. La donna è sembrata contrariata. Quando sono uscito le sono passato accanto salutando e lei ha tirato dritto senza guardarmi in faccia né rispondermi. Forse in Austria non piacciono le persone dai modi spiccioli.

Ecco, io avrei voluto immortalare la sua espressione statica e indifferente mentre le passavo accanto. E lanciarle una maledizione: da oggi sarai l’immagine di un fienile.

Non è che la gallina si faccia portare i bagagli dal tacchino

In quest’epoca di food-pornography sono contento di essere tra quelli che preferiscono ancora praticare, piuttosto che guardare o compiacersi nell’immortalare.

Assumendomi tutti i rischi del caso, perché riempirsi come un tacchino non è attività salutare. Eppure in questi giorni le cose vanno così, tocca adattarsi.

Dovevo capirlo sin dal mio ritorno che queste feste sarebbero state armate di cattive intenzioni.

Arrivo il 22 sera e mia zia mi propone una pizza: Sono mesi che non ne mangi una! esclama.
In realtà sarebbe un mese, ma nella testa dei parenti subentrano meccanismi di relatività temporale.

Il giorno dopo: pasta al forno di Madre.
La sera: un’altra pizza.

Tralasciamo 24, 25 e 26 pranzo per rispetto delle menti più impressionabili: veniamo a ieri sera. A cena faccio fuori dei tortellini avanzati, perché lo stomaco è come una trincea: nulla deve avanzare oltre!
Esco.
Chiama un amico: ha preparato una genovese che è ansioso di far gustare. Gli si dice di no? Giammai.

Forse era meglio il food-porno.

In questi giorni è un’attività che si è intensificata, dando vita anche a battaglie tra generi. Carnivori vs Non carnivori. Come se domani su YouPorn comparisse un duro confronto Anal vs Non Anal. Me li immagino i commenti delle due fazioni: È contronatura! Chi se ne frega, io lo faccio lo stesso, alla faccia di voi Non Anal! L’OMS dice che è dannoso se fatto tutti i giorni con un cavallo! e così via.

Così, da una parte c’è chi posta foto di un bue muschiato gettato direttamente in pentola con le verdure (perché due verdurine ci stan bene per mangiare sano, che non si dica che non si è attenti alla salute) alla faccia di chi non sa cosa si perde, dall’altra chi posta foto di un bel tacchino vegano ripieno, alla faccia di chi si avvelena con cose morte.


Perché non possono morire entrambi, alla faccia loro?


Che poi io vorrei che i vegani/vegetariani mi spiegassero perché mai chiamino i loro cibi con nomi carnivori.

A volte ho fatto acquisti in negozi vegani e sono sempre rimasto colpito dai nomi dei prodotti, infatti.
Mi dovrebbero dire il perché dell’esistenza del salame vegano, del prosciutto vegano, della bistecca alla fiorentina vegana. Chiamateli sguazz, blablidi, grugrugrul, inventate dei nomi a caso, insomma. Ma non si può sentire “carne alla pizzaiola vegana”. Giuro, ho visto un preparato in busta per fare la carne alla pizzaiola. Vegana.

È come se il brodo di pollo lo chiamassi “brodo vegetale carnivoro”, il formaggio di capra “tofu carnivoro”, gli hamburger “seitan di carne”.


Parentesi cibi vegetariani
Sono uno che comunque cerca di limitare il consumo di carne. Così, come dicevo, mi è capitato di acquistare prodotti alternativi nei negozi specializzati o nei supermercati, dove, sarà per “moda”, almeno nelle grandi città non è difficile reperirli.

A Budapest è un altro discorso.
Credo che lì i vegetariani vengano espulsi dal Paese.

Gli unici prodotti vegetariani li ho visti in un dm (negozio di una catena tedesca) e consistevano in un paio di confezioni di hamburger, di wurstel e dei tortellini di tofu che credo non acquisti mai nessuno. Quando ho preso gli hamburger, la cassiera ha fatto una faccia schifata e poi mi ha guardato con sufficienza secondo me pensando “E tu ti definiresti un uomo?…Il mio fidanzato uccide maiali a mani nude e li trasforma in prosciutti”.