Non è che ti serva una Reflex per avere una fotografia della situazione

Una delle cose più divertenti – lo dico con sarcasmo – del mio lavoro è dover, con una certa periodicità, aggiornare diversi file Excel condivisi per tener allineati i dati che sono inseriti su altri gestionali, in modo da poter permettere a chi fa un’estrazione periodica di quei dati di poter poi realizzare una fotografia reale dei carichi di lavoro degli uffici.

Questa fotografia fornisce sempre dei risultati che sono interpretabili in un unica maniera: siamo oberati di lavoro, stiamo lavorando più di quel che dovremmo/potremmo e le cose non sono destinate a migliorare.

Nel momento in cui abbiamo: a) fotografia, b) interpretazione della suddetta e c) proiezione pessimistica, cosa succede?

Il lavoro viene diminuito?
Vengono assunte più persone?
Verremo pagati di più?

La risposta è no, in tutti i casi.

Quindi perché passare il tempo a compilare file? Questa è una buona domanda. È semplicemente una cosa per la quale, con la quale e senza la quale tutto resta tale e quale.

Diciamo che credo sia diventato come una sorta di rituale pseudo-religioso. Non ha senso porsi la domanda se abbia un qualche ritorno concreto effettivo quell’azione: la si svolge perché va fatta, perché è diventata tradizione, perché poi magari se non la fai chissà cosa di brutto pensi ti possa accadere.

Ho cominciato quindi a pensare di regolarmi di conseguenza rispetto a quest’ottica per evitare una noia mortale che sottrae anche tempo a cose realmente urgenti. Essere esonerato dalla compilazione facendo un voto o un’offerta, per dire, fino ad arrivare a pensare di comprare un’indulgenza. Oppure diventare scismatico e portare avanti un mio concetto di credo lavorativo non basato sui rituali compilativi. Fingermi un praticante occasionale che compila i file soltanto a Natale e a Pasqua.

Le opzioni ci sarebbero, diciamo. Avevo anche pensato all’idea di diventare la massima autorità che sovrintende tali rituali, ma, ahimè, ci sono alcuni ostacoli: la prima è che chissà quanto tempo ci vorrebbe per scalare il potere. La seconda è che l’attuale eminenza in carica – in qualche post precedente credo di averla soprannominata, per comodità narrativa, Apprensina – ci tiene a dare il buon esempio e sgobba più degli altri. Allora, mi chiedo, a che pro essere a capo dei rituali se poi devi eseguirli anche tu?!

Non è che vai all’ufficio oggetti smarriti perché hai perso il lavoro

Avrei voluto iniziare la settimana Pasquale parlando di una tradizione folkloristica che c’è qui in Ungheria proprio per il giorno di Pasqua e che consiste nel fare un gavettone alle ragazze.

Questo venerdì, invece, un po’ in anticipo con questa tradizione, è arrivata una doccia fredda su CR.

È stata licenziata.

Senza preavviso. A meno che con preavviso non debba intendersi il “Mi spiace, devo darti una brutta notizia” da parte del Capo Tacchino. Al che alzo le mani. Su di lui.

La cosa strana è che le hanno sì comunicato di licenziarla ma davanti le hanno presentato un foglio di risoluzione consensuale da firmare. Non mi è ben chiaro dove risieda il consenso del licenziato. È un po’ come quando il Prof al liceo mi diceva “Gintoki, ti offri volontario o ti chiamo io?”.

La motivazione del licenziamento è che non la ritengono adatta a questo lavoro.

Dopo tre anni e mezzo e tre rinnovi contrattuali – fino all’ultimo dello scorso anno, a tempo indeterminato – è un po’ tardiva come presa di coscienza! Ma qui magari amano prendersi un tempo per ogni cosa.

La verità è che da quando il Tacchino è salito al rango di Capo l’estate scorsa, dando anche più spazio alla Castora, i rapporti col management si sono deteriorati alquanto. Mancava poco ci si scambiasse lanci di saliva negli occhi durante le riunioni.

Dopo aver ricevuto la pessima notizia, CR ha ricevuto una mail personale da parte della Castora in cui le comunicava tutto il suo dispiacere per una decisione che comunque fa bene a entrambi – società e dipendente – e le augurava poi tante care cose.

I rispettivi uffici distano due metri in linea d’aria e due porte di separazione. Lei però manda una mail. Purtroppo soffre di una grave forma di sbilanciamento del peso verso il deretano, che la porta a limitare i movimenti. Lo cantano anche Tiziano Iron e Carmen Sconsoli: Pesare il culo con entrambe le mani ci vuole coraggio.

Quando ha dato la notizia a me e S. la stagista, il Tacchino mi ha anche detto che sarei stato io il Senior dell’ufficio da ora in poi. Ne avrei fatto volentieri a meno.

Deve aver letto i miei pensieri, perché poco dopo, quando ha inviato una mail a tutti ringraziando CR per il lavoro svolto, ha scritto che la Castora coordinerà ora le attività.

Considerando che lei ha i modi di una tiranna sarmatica, la cosa non mi suona piacevole.

Praticamente io sono un Senior Pupazzo Rockfeller. Sento già la mano di lei nel sedere e i video su YouPorn: Hungarian longteeth & lazy ass, fisting Neapolitan Cat Worker.

Non è che a dicembre nel monastero addobbino l’abate

È più forte di me.
Cerco di stare lontano da determinati argomenti, per quieto vivere.
A volte ci riesco, altre volte no.
Finisco per sentire qualcosa dentro che mi rode e mi spinge verso quell’argomento.

Ho deciso quindi di parlare dell’evento principale di questo dicembre.

Il Natale.

Il Natale è come le Olimpiadi.
Si attende con trepidazione e grande entusiasmo.
Salvo poi lamentarsi perché la sua organizzazione crea tanto traffico per le strade, sperpero di soldi e, alla fine, diciamocelo, finisce sempre tutto in un magna magna.

Uno dei temi scottanti intorno al Natale riguarda il presepe.
Non si è ancora capito se non bisogna esporlo pubblicamente per evitare di attirare il terrorismo dell’ISIS oppure se bisogna invece farlo per evitare di attirare Matteo Salvini.

Per evitare problemi, Padre costruisce presepi nudi che, all’occorrenza, possono essere benissimo spacciati per modellini medioevali.

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Buonasera, buonasera, questa sera in studio avremo Caterina Sforza, Federico da Montefeltro e Lorenzo de’ Medici per discutere della riforma sul Consiglio dei Settanta, di cui avremo un plastico in studio.
[Bruno della Vespa]

Riguardo al cibo, premesso che non so bene quali siano le usanze in altre zone d’Italia, a Napoli è cosa buona e giusta fare il cenone il 24 sera, il pranzone il 25 e, poi, un pranzo anche il 26 con gli avanzi del giorno prima.

Purtroppo capita sempre che non restino avanzi dal giorno prima, quindi si cucina daccapo un pranzone per il 26 per onorare la tradizione perché sennò poi fa brutto e dicono che siamo provinciali, siamo tirati.

Negli ultimi anni una corrente riformatrice vorrebbe si riducesse il numero dei gozzovigliamenti, per dare un taglio agli sprechi alimentari e alle spese correlate.

Tale spinta riformatrice incontra l’opposizione di chi sostiene che abbiamo il Natale più bello del mondo e che vada bene così com’è.

Al coro dei difensori della tradizione ci siamo uniti anche noi non credenti/non osservanti, sostenendo che se venisse abolito il Natale non avremmo poi nulla da criticare.

Certo, rimarrebbe la Pasqua, ma quella se la filano in pochi.
Serve solo per capire in che giorno dell’anno organizzare una gita sotto la pioggia.

Perfino la celebre pastiera, dolce tipico pasquale, si è ormai votata al Natale per acquisir più notorietà.

Comunque la si pensi, al termine di ogni Natale ci si sente così:

Non è che dei pareri sulla sessualità siano l’opinione pubica

Un caro amico mi scrive e mi chiede: “Io non capisco questa necessità dei gay di fare outing o anche le giornate dell’orgoglio gay. Come se io mi svegliassi una mattina col bisogno di gridare ‘Mi piace la figa!’. Sarebbe normale? No!”.


In realtà non è vero, non è un caro amico e non mi ha scritto, è una figura mitologica che racchiude tutti coloro, vicini e lontani, dai quali ho sentito questa obiezione da che io ne ho memoria sino a stasera.


Ma, caro amico, se tu mi avessi scritto mi troverei a risponderti che convengo con te. Non mi sono mai svegliato al mattino col grosso bisogno di dichiarare il mio amor per “L’origine del mondo”. Tutt’al più mi son svegliato col bisogno grosso, ma è un altro discorso.

Anche volendo poi non potrei rilasciar dichiarazioni. Perché al mattino ci metto un po’ a carburare e tutto ciò che riuscirei a esprimere sarebbero suoni sconnessi che all’orecchio umano sembrerebbero un misto tra grugniti suini, brontolii da orso e un Klingon che ordina un caffè macchiato.

Però, caro amico, mi son trovato nella vita a fare confessioni dopo che era un bel pezzo che tentavo di seppellirle e che tornavano sempre su. Come quando mangi dei peperoni.

A 18 anni mi iscrissi a una fuckoltà che non faceva per me. Ma questo non lo sapevo, me ne resi conto dopo. E nonostante i miei tentativi, non riuscivo ad andare avanti. Per lo sconforto cominciai a non uscire di casa e non vedere gente. Ero stanco di sentirmi chiedere come andasse e dover mentire perché non volevo ammettere di fronte agli altri di aver sbagliato. Mi cercai un lavoretto perché mi pesava anche dipendere dai genitori. Ma è una cosa difficile da tener nascosta. Insomma, alla fine vuotai il sacco con parenti e amici perché non ne potevo più.

Caro amico, non è la stessa cosa, me ne rendo conto, ma vorrei ti soffermassi sul principio.

La faccio più facile e fornisco un altro esempio.

Io e la religione sono diversi anni che non abbiamo rapporti. Almeno non consenzienti, poi ogni tanto la religione ci prova sempre con me, in maniera un po’ brutale. La religione non ti bacia nemmeno, vuole soltanto la tua anima!

Sia come sia, son fatti miei e non sento l’esigenza di parlarne.

O forse è solo per evitare noiosi battibecchi e astruse reazioni?

Molte persone reagiscono guardandoti come se davanti a loro ti stessi mettendo un dito nel naso dopo averlo in precedenza infilato nel sedere.

Una donna invece una volta mi disse che io avevo il diavolo dentro. No, è solo il burrito messicano che sta facendo effetto, replicai.

A volte poi ti chiedono “Ma è Pasqua, non sei andato in chiesa nemmeno oggi?”.
Cavolo era oggi Pasqua? Mannaggia, pensavo che fosse di lunedì, debbo cambiare calendario.

C’è chi prova a convincerti/convincersi che in realtà tu non sia veramente così, allora ti invita a qualche incontro galante:

– Allora domani ti passo a prendere, andiamo alla missione a fare volontariato, poi magari resti lì ascolti Don Xyz cosa dice…

Ed è lì che risiede il problema. È come incontrare un assicuratore, vorrà per forza farti una polizza furto incendio sulla moto. Che non possiedi.

Va bene, neanche questa è la stessa cosa ma un pochino ci stiamo avvicinando, credo.

Certo, se esco con una ragazza o sono in un gruppo posso celare le mie idee senza problemi. Non è che tutti i giorni mi sia richiesta una attestazione di fede, che sia politica, religiosa, sportiva o alimentare.

Credo ci siano invece cose che tener nascoste sia più difficile e logorante.

Caro amico, allora penso che se non ci alziamo al mattino con la voglia di affacciarci alla finestra per dichiarare il nostro amor alle labia majora e minora è perché nessuno ci rompe le palle per questo. Forse ce le rompe quando pensano che ci piaccia troppo poco. In ogni caso, nessuno ci considera poco normali e profonde immensi sforzi  per convincer gli altri che sia anormale. Che se si potesse convertire tale impegno negativo in energia elettrica penso potremmo tagliare i costi della bolletta.

Caro amico, dici che non è vero, che in tv ci sono tanti omosessuali che fan le macchiette ben inseriti come se fosse normale?

Caro amico, se basi i tuoi parametri della società su quel che vedi in televisione, allora forse sei tu a non essere normale. Tranquillo però, ti accettiamo così come sei.

Non è che passando al telefono senza fili tu pianga per il cavo estinto

Una persona strana come me da qualche parte deve pur provenire. In effetti, ci sarebbero aneddoti da raccontare su alcune abitudini che spiegano perché la mia famiglia sia un po’ eccentrica e io non sia da meno.

Uno di questi riguarda il rapporto con il telefono.

Che non abbiamo mai avuto.
Non ho mai capito perché a mio padre non piacesse averne uno in casa.
A dirla tutta non ha mai amato in generale parlare al telefono.

Lui infatti credo sia l’unica persona in Italia che è stata in grado, più di una volta, di far scadere il credito sul cellulare. Praticamente il decreto Bersani che aboliva la scadenza del credito residuo fu fatto per lui.

Per le comunicazioni (il più delle volte solo per ricevere) abbiamo sempre utilizzato il telefono dei nonni, che abitano alla porta accanto: la casa, infatti, è divisa all’interno in due appartamenti.

Ai miei compagni di classe dovevo sempre spiegare questa storia. Un giorno mi scocciai e dissi “Sì, siamo come 8 sotto un tetto, viviamo tutti insieme, la gente entra e esce dalle porte come gli va”.


Ma in America nessuno chiude mai la porta a chiave? E la gente entra in casa senza bussare?


I nonni avevano il famoso telefono in bachelite nera:

La cornetta poteva essere utile anche come oggetto contundente. L’altra particolarità è che assorbiva l’alito: alzavi la cornetta e dai fori del microfono fuorisciva il pranzo di Natale dell’anno precedente. Una volta, alla vigilia di Pasqua, Madre non ricordava cosa avesse preparato come primo piatto per Natale. Le dissi “Aspetta, ora vado al telefono. Mmh, c’era di sicuro un sugo con la braciola”.

Durante gli anni ’90, quando arrivava una telefonata per me mio nonno ha utilizzato diversi sistemi per avvisarmi.

Iniziò bussando alla porta. Questo avveniva all’epoca delle elementari.

Durante il periodo delle scuole medie passò a bussare sul muro: una parete del soggiorno, stanza dove era il telefono, è in comune con la mia stanza dall’altro lato. Le prime volte sobbalzavo. In un’occasione, preso di soprassalto ruzzolai anche giù dal letto. Col tempo iniziai poi con lo stare all’erta: quando sentivo il telefono squillare dall’altra parte, mi preparavo al toc-toc.

Quando arrivai al liceo, mio nonno nel frattempo era passato all’urlofono: gridava il mio nome senza allontanarsi dal telefono.

In classe si diffuse la leggenda metropolitana che io dormissi a qualunque ora del giorno e che fossero necessarie le urla per svegliarmi. Una convinzione che non riuscii mai a demolire.


Se un giorno diventassi famoso si tramanderà quindi il falso aneddoto che io fossi dedito a dormire sempre, un po’ come la storia di Einstein che andava male a scuola o di Maria Antonietta che invitava il popolo a mangiare brioches.


Che, se non fosse chiaro, seppur da tutti ritenute vere, sono falsità.


Da lì a poco, ricevetti un cellulare.

Era giovane, era alla moda (?), era pesante mezzo chilo. Schiacciare i tasti richiedeva una pressione notevole, tant’è che mi venne un pollice ipertrofico. E poi, invece, mentre lo portavo in tasca più di una volta successe che si accendesse, si autodigitasse il PIN 3 volte e si bloccasse.

Non era semplice da portare addosso. E poi generava equivoci del tipo: Ehi, hai un telefono in tasca o sei solo contento di vedermi?.


Non è vero, non è mai successo ma io giravo con questo pesante cellulare sperando che accadesse.


Ma considerando che nessuno trovava conveniente utilizzare il cellulare per chiamare – sms e il famoso squillo erano le uniche vie di comunicazione – per lungo tempo sono rimasto comunque utente dell’urlofono.

Non è che in Austria per le camicie usino l’asse da Stiria

Il 15 marzo qui in Ungheria è festa nazionale per la Rivoluzione del 1848.


Il 15 marzo 1848 con la lettura di un proclama pubblico di 12 punti cominciò la rivoluzione che portò alla guerra di indipendenza dell’Ungheria contro l’Impero Asburgico, guerra che si concluse con la capitolazione – in un bagno di sangue – degli ungheresi, che dovranno attendere il 1867 (anno dell’Ausgleich, il compromesso) per vedere riconosciuta autonomia: in quell’anno, infatti, nacque l’Impero Austro-Ungarico, la Duplice Monarchia.


Già da oggi ho cominciato ad avvistare persone in giro con coccarde tricolore (è tradizione infatti apporne una sul petto per questa occasione) e bandierine, mentre suonatori ambulanti fuori la stazione Nyugati intonano canti patriottici.


O magari erano invece romanze neomelodiche che parlavano di tradimenti e amori impossibili e le coccarde mi han fuorviato.


Dato che le celebrazioni mi mettono sempre a disagio, me ne andrò via tre giorni. La società ha infatti deciso di far ponte il 14.


Che poi non è vero, rientrerò il 15 mattina in tempo per vedere qualunque cosa facciano gli ungheresi in questa giornata.


Se lo avessi saputo con largo anticipo mi sarei organizzato. Una prima idea sarebbe stata cercare un volo per tornare in patria, anche se comunque ho già in programma di rientrare a Pasqua.

La seconda idea sarebbe stata prendere un volo low cost per il Nord Europa. È stato sorprendente sapere quanti voli diretti ci siano da qui alla Scandinavia. Avrei potuto approfittare di quei fantastici biglietti a 30-40 euro per la Svezia.


La storia che i biglietti aerei conviene comprarli 8 settimane prima sembra essere purtroppo vera¹.


¹ Anche se, se tutti si convincono di questo modello matematico e iniziano ad acquistare biglietti 8 settimane prima, non c’è il rischio che il boom di click online intorno quel periodo faccia lievitare i prezzi?


Sento un bisogno di estremo Nord.

“Vieni, vieni, il Nord ti aspetta”

Non potendo soddisfare questo nordismo e vedere bionde pure prima che si estinguano,


Il biondismo sembra infatti destinato a scomparire.


Anche se in realtà poco mi interessa: sono per il nero scuro. Temo purtroppo però che i miei geni non siano total black: ogni tanto nella barba mi spunta un pelo chiaro o rossiccio.


ho deciso di prendere un treno per l’Austria, direzione Graz (preg!), capolouogo della Stiria, regione verde.


Ma esistono regioni non verdi in Austria?


Oltre a quello specifico di Nord, sento un generale bisogno di viaggiare spesso.
Non compro dischi e vivo di YouTube e Spotify, risparmio su altri intrattenimenti, ma a un viaggio, se posso e le mie possibilità manducatorie mensili me lo permettono, non riesco a rinunciare.

Ho il bisogno di vedere e di conoscere, anche perché non so se un giorno dovrò smettere o limitarmi.

Conosco anche molte persone sparse in giro, il che può essere rassicurante perché è piacevole pensare che se rimani a piedi con l’auto in un punto puoi ricordarti di qualcuno che potrebbe dare una mano lì nei dintorni.


Ammesso che si ricordi di me: sono così schivo nei rapporti umani che non li approfondisco, non li coltivo. A volte mi faccio proprio schivo da solo. Non è che non mi piacciano le persone: al contrario, più ne incontro e più trovo rassicurante sapere che ci sia vita nel mondo. Eppure di queste vite non riesco a spingermi a farne parte in misura più ampia. A volte penso sia inabilità sociale, a volte credo che quella della inabilità sia solo una giustificazione di comodo.

Quanti Fatti sentire ho ricevuto.
Oppure quanti Potevi avvisarmi che eri lì.


¹ Ma l’uso della giustificazione di comodo non è esso stesso una prova di una inabilità sociale?


Dopo tanti viaggi in treno, ancora mi affascina che dall’esterno sembri un proiettile ma quando ci sei dentro invece il paesaggio sembri scorrere più lento. Che è un po’ il contrario che accade quando si è pensierosi: la tua mente vaga a pensare mille cose in poco tempo, chi ti guarda invece pensa che tu ti sia pietrificato.

Provai a raccontare a lei, una volta, di questi miei momenti di raccoglimento. Della malinconia che mi prendeva quando dovevo specchiarmi nel finestrino perché non c’era nessuno a potermi dire che mi ero rasato male.


Uno dei motivi per cui alla fine ho lasciato crescere la barba è stata la mia presa di coscienza di essere incapace a farmi un pizzetto dritto o regolare.


Ma non mi espressi bene. Urtai la sua sensibilità. Non poteva viaggiare e lo prese come un tentativo di colpevolizzarla per il fatto di lasciarmi da solo.

Io come mio solito reagii alterandomi, perché la diplomazia per me è solo una sorella di un genitore con un titolo di studio.

Tanta voglia di vedere il resto del mondo da non riuscire poi a scorgere oltre il mio naso chi mi è più vicino.

Un giorno vorrei andare nello Spazio e, come il Doctor Who, tenderti la mano dicendo Vieni con me.

Andiamo a fare una passeggiata sul lungoMarte.

Della vita dolce ormai breve tempo mi resta e spesso gemo per timore dell’Ade*

* Anacreonte.


Ieri se ne è andato il mio professore di latino e greco del liceo, a causa di un male incurabile.
Chi l’ha visto negli ultimi mesi dice che era ridotto in modo irriconoscibile e rassegnato all’inevitabile.

Mi resterà sempre impressa una frase che mi disse e che secondo me ancor oggi mi qualifica in pieno.

Bisognava decidere la data della gita di 5 giorni: combinazione voleva che quell’anno (2003) ci fossero delle vacanze lunghe ad Aprile causa aggancio della Pasqua con il ponte del 25 aprile. La possibilità che la gita si tenesse prima delle festività pasquali poteva significare circa 3 settimane di vacanza per quel mese.

Il Prof. venne in classe sostenendo invece che la gita si dovesse tenere durante le vacanze pasquali: chiese a noi di decidere, ventilando però l’ipotesi di minacce e ritorsioni in caso avessimo scelto la soluzione “3 settimane di vacanza”.

Alcuni quindi si lasciarono persuadere. Io, invece, che sapevo bene che anche lui non voleva fare un ceppa ma non poteva dirlo apertamente, mi alzai e dissi: Prof, io voto per andare in gita prima di Pasqua. Lo ammetto, mi fa comodo, ma preferisco essere coerente.

Lui mi guardò con il suo tipico sorriso sardonico, che sul suo volto caratterizzato da una pelle scurissima – in netto contrasto con il capello brizzolato e gli occhi blu – era sempre inquietante, e fece:
Gintokiammiro sempre la coerenza con cui difendi le stronzate.

Ecco, me la dovrei tatuare da qualche parte come monito e insegnamento.

Era il tipo che sapeva inquadrare una persona e capirla subito. Come se avesse lo scanner ottico dei Saiyan.

Per la cronaca, come era prevedibile, ad Aprile di quell’anno godemmo poi di 3 settimane di vacanza.

A una cena durante la gita ordinammo una bottiglia di vino e brindammo col Prof. alla faccia di Mirsilo: da poco avevamo studiato Alceo e impresso ci era rimasto il verso con cui il poeta di Mitilene festeggiava la morte del tiranno Mirsilo.


“Ora bisogna ubriacarsi e ciascuno beva a forza: perché Mirsilo è morto”.


Archiloco del quale tutti ricordiamo dei versi oscuri: che avrà voluto dire con “sfiorando la bionda peluria, emisi la bianca forza”?

È difficile da spiegare a chi legge, ma quando il Prof recitava qualche verso dei lirici greci, con la sua voce profonda e raschiante tipica di 40 anni (o anche più!) di Pall Mall, riusciva sempre a dar loro una carica di pathos e teatralità.

Non a caso lui era anche presidente del teatro pubblico campano (da ora p.t.p.c.) e con la scuola e gli studenti ha organizzato spettacoli che ha portato in giro in tutta Italia.

In virtù dei suoi impegni, come vicepreside, come p.t.p.c. e come altro non so cosa, in classe ci entrava di rado e per un tempo ridotto. Inoltre, quando al mattino fuori la scuola lo vedevamo entrare nell’edificio con giacca e cravatta, capivamo che non sarebbe venuto a far lezione.

Quando era in classe, inoltre, non era mai una lezione convenzionale. Per cominciare, un buon quarto d’ora si perdeva in cazzeggio, in cui ci prendeva per il culo o raccontava aneddoti scolastici su questo studente o quel docente. I libri sono stati aperti di rado. Alcuni li ho comprati e riposti e mai più toccati. Amava impostare una lezione discorsiva, improntata sul ragionamento: più che liceale, era una lezione universitaria.

Com’è come non è, le cose che lui ha spiegato le ricordo ancor oggi a 12 anni di distanza. A volte mi chiedo perché la scuola non sia tutta così e perché debba ridursi a mero un travaso di nozioni da un libro di testo a una testa vuota, col risultato che il giorno dopo un’interrogazione lo zuccone ha già dimenticato tutto.

Io lui comunque lo odiavo. Ne avevo stima e profondo rispetto, ma lo odiavo. Lo odiavo perché in alcuni periodi mi eligeva a vittima sacrificale per fare lezione: mi chiamava alla cattedra, faceva domande molto complicate, poi si metteva a ragionare e spiegare.

Una volta invece mi chiamò giusto perché doveva in modo sadico tormentare qualcuno. Dovette accorrere dalla vicepresidenza perché, senza nessuno in aula, noi ci eravamo lasciati andare a eccessive turbolenze. Nero in volto, ancor più nero del solito tanto che sembrava il tizio di CSI Las Vegas con gli occhi azzurri, decise per punizione di sparare nel mucchio. Punirne uno per educarne 22.

Si piazzò in fondo all’aula dando le spalle alla finestra e alla luce, col risultato di essere in penombra. Era una nera figura.

Primo colpo:
V., vieni.
L’avevo scampata. Ero il soldato Ryan, sarei sopravvissuto all’imboscata.
Lei: Professore, vengo la prossima volta.
Bene V., 2.

Maledetta stronza. In quel momento le ho augurato un’infezione di clamidia orofaringea. Poteva andare al patibolo e in qualche modo scamparla, visto che prendeva sempre 7 e 8. Poteva salvarci tutti, invece no!

Secondo colpo:
Gintoki, vuoi venire?.
Ovviamente la fortuna ti grazia una volta sola.
Io: Certo.
Ostentavo sicumera. In fondo avevo studiato. E sarei stato l’eroe che avrebbe salvato tutti.

Presi la sedia per accostarmi alla cattedra.

Chi ti ha detto di prendere la sedia?
Pensavo…
Hai pensato male.

Cominciò a incalzarmi di domande. Io rispondevo, mi barcamenavo.

Lui: Smettila di gesticolare. E non presentarti mai più con quelle cose sulle braccia.


Ai tempi – ancor oggi in verità ma un po’ di meno – mentre parlavo avevo l’abitudine di muovere le braccia peggio di Alberto Angela.
E poi all’epoca andavo in giro con delle catene intorno al braccio.


Poi cominciai a incartarmi su me stesso. Picconata su picconata mi demoliva pezzo per pezzo. A un certo punto diedi una risposta che era giusta  ma forse l’avevo detta in modo contorto.

Lui, gelido: Non ho capito.
Poi aggiunse, rivolto alla prima della classe: A., tu hai capito che intendeva?

Lei mi guardò e fece: n-no

Stronza. Stronzissima. Raddrizzatrice di Pisistrati. Etéra del ditirambo.
Tu hai capito, perché tu la risposta la sai, la sai sempre. Potevi giungermi in soccorso, invece per sfilarti dai guai mi hai lasciato in mezzo al maelstrom. Scommetto se fosse stato qualcuno dei tuoi amici saresti salita in cattedra, invece dato che ero un Gintoki qualsiasi, da te disprezzato, mi hai lasciato così.

Rimpiansi di non averle detto qualcosa di offensivo in quel momento, ma ero ormai paralizzato dal terrore.

Stavamo ragionando sulla battaglia di Anfipoli e sulle circostanze che portarono al fallimento di Tucidide – allora stratego della flotta ateniese – e che gli costarono l’esilio. Quando volle sapere quale fu l’errore tattico dello storico/militare, balbettai qualcosa e lui disse, accompagnando le parole con un gesto che sembrava quello di un arbitro che espelle un calciatore: Vatti a sedere.

Andai al mio posto e diedi un pugno sul banco che mi fece volar via l’orologio.

Quell’episodio entrò a far parte degli aneddoti. Ogni tanto mi pigliava per il culo, mi chiedeva se volessi dare qualche pugno alla cattedra oppure se il muro di fianco a me fosse al riparo dalla mia ira.

Era una di quelle persone che vale la pena di incontrare nella vita. Se è vero che siamo la somma delle nostre esperienze, lui era un’esperienza formativa necessaria. Madre, finito il liceo, ogni tanto mi diceva: Tu hai passato troppo poco tempo con lui!.

Già. Troppo poco tempo.

8 indizi per identificare un insoddisfatto cronico da uno che va be’ dai è più normale anche se a volte rompe le palle

L’espressione serena e rilassata di un tipico esemplare di persona soddisfatta

Come cantava il vecchio Frankie hi-nrg, sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi: gli insoddisfatti cronici, il dito nel sedere molle del pianeta che a sua volta ha un dito nel sedere degli insoddisfatti. Non si spiegherebbe altrimenti quel loro perenne atteggiamento di fastidio misto a una sensazione di stitichezza viscerale.

La piccola guida che segue contiene gli elementi per identificare e distinguere gli insoddisfatti cronici da quelli che semplicemente si son svegliati una mattina per caso con la luna storta, magari perché han mangiato pesante la sera prima. Attenzione: se vi riconoscete in anche solo uno degli elementi di questa lista, cominciate a porvi delle domande (come ho fatto io che mentre scrivevo ho cominciato ad avere dei dubbi su me stesso).

Nota bene: il post è ironico e scherzoso e prende di mira chi tendenzialmente si comporta da scassapalle senza ragione: non intende prendere in giro chi invece soffre di un malessere serio.

    1. L’insoddisfatto cronico è come quel soprammobile che vi hanno regalato e che non potete gettar via perché era una bomboniera di vostra zia Clodovea che ci tiene tanto, poverina, anche se la vedete solo a Natale e a Pasqua (ma solo negli anni bisestili): dovunque lo mettete, sta male. Si sente fuori posto, non si trova a proprio agio, sta scomodo, non sta bene.

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      L’incomparabile e sempiterna bellezza di questo perfettamente inutile geco multicolor da me comprato in quel di Barcelona, che non può esser collocato in alcun posto a meno di non vivere in una casa disegnata da Gaudí, cosa che crea in me somma insoddisfazione

    2. L’insoddisfatto cronico 2.0 sfrutta internet come megafono del proprio malcontento. Scrive su facebook per lamentarsi della pioggia quando piove, del sole quando c’è il sole, delle nuvole quando il tempo è così così e non si capisce se voglia piovere o schiarire. Coloro che sono in grado di scrivere testi più lunghi di un sms aprono un blog, dove far scorrere fiumi di parole lagnose come i Jalisse e confrontarsi con altri insoddisfatti che giungeranno a commentare offrendo la propria empatica partecipazione.
    3. L’insoddisfatto cronico è stato morso da un Enrico Ghezzi radioattivo che era stato esposto a raggi Sgarbi durante un esperimento per clonare un Joe Bastianich potenziato: insomma, critica, si sente in dovere di farlo e in diritto di dirlo a tutti. Il risotto non è ben cotto, l’insalata è salata, gli amplificatori son poco sonori, la trama è grama (non mi venivano altre rime): nulla è di suo gradimento perché tutto è imperfetto, sbagliato, non incline ai suoi gusti eccelsi e sopraffini.
    4. L’insoddisfatto cronico ha il dono della preveggenza. Dovunque lo si sta conducendo, sa già che non si divertirà, che non mangerà bene, che non si troverà a proprio agio e via dicendo.
    5. L’insoddisfatto cronico entra in crisi quando si trova a dover ammettere con sé stesso (e anche con gli altri) che le sue previsioni erano sbagliate. È statisticamente impossibile che nulla possa accontentarlo: prima o poi si divertirà, prima o poi farà qualcosa che gli sarà piaciuto. I più bravi hanno un diploma all’Actors Studio per l’aver imparato a dissimulare il proprio entusiasmo e non darla vinta al prossimo.
    6. L’insoddisfatto cronico ha la sindrome da risveglio del lunedì mattina applicata a tutti i giorni della settimana, sabato e domeniche comprese. Alcuni membri della comunità scientifica contestano la classificazione di sindrome del lunedì, chiedendo che venga invece coniata una nuova definizione a parte, cioè “sindrome del risveglio e basta”. Finora sono rimasti inascoltati e quindi insoddisfatti.
    7. L’insoddisfatto cronico, contrariamente a quel che si può pensare, è un animale sociale. Predilige la compagnia delle persone, prospera nei luoghi frequentati, spesso ha un partner (anche se non a lungo perché tende a eliminarlo per sfinimento). In assenza di compagnia non avrebbe come e dove sversare il proprio flusso di lagnanze.
    8. L’insoddisfatto cronico è un fine stratega militare: degno interprete dell’arte della guerra di Sun Tzu, finge di autosabotarsi mentre in realtà prepara un’astuta trappola per liberare il proprio potere lagnoso. Ad esempio, quando bisogna decidere come trascorrere una serata lui non dice la sua o non si sforza di far valere le proprie ragioni: salvo, poi, lamentarsi di essere stato costretto a fare una cosa che non voleva.

 E voi conoscete un insoddisfatto cronico? Come lo identificate o come lo tenete a bada?

Le estrazioni dell’8

Siamo quasi in dirittura d’arrivo. Da domani mancheranno Pasqua e Primo Maggio e poi fino al prossimo autunno si potrà stare in pace: niente più festività comandate o istituzionali. Certo, ci sarebbe ancora il 25 aprile (se Renzi non lo abolirà nel frattempo), ma in ogni caso siamo in discesa e inoltre finiranno le feste di negozianti e gestori di ristoranti, pizzerie e locali.

L’8 marzo in questo non fa eccezione, anzi, fa da cerniera tra Carnevale e Pasqua. La mimosa tira la volata per le uova nelle vetrine.

No, non sono impazzito né mi esibisco in dichiarazioni di disprezzo, seppur possono sembra tali.

Rammentavo una cosa che avevo letto in Watchmen (che poi non so se l’hanno inventata lì dentro o era ripresa da altro, in ogni caso ho questo ricordo e lo riporto così): nella propria autobiografia, Hollis Mason alias il primo Gufo sosteneva che bisogna iniziare con una cosa triste per accattivarsi la simpatia del pubblico, prima di iniziare a raccontare.

Io allora ho pensato di iniziare con una cosa antipatica per vedere cosa succede e se il pubblico arriva sino alla fine.

Nei giorni passati parlavo con una persona di disuguaglianza di genere. Spiegavo perché innanzitutto è definita come tale e non come, invece, disuguaglianza di sesso. Perché genere ha un significato più ampio: innanzitutto, varia nel tempo e nello spazio, perché il ruolo attribuito al genere è indubbiamente diverso oggi rispetto al Medioevo e qui rispetto all’altro capo del Mondo. Genere inoltre comprende modelli sociali, comportamentali: va oltre la dimensione biologica, dove, è innegabile, sussiste la diversità tra uomo e donna.

Partendo da questa premessa, oggigiorno nel Mondo esistono disuguaglianze di genere (a sfavore delle donne), di differente tipo a seconda dei contesti ma esistono ovunque.

Uno dei problemi è cosa fare per dare potere alle donne. È un tema delicato, dove si creano molti equivoci intorno a esso. Qualcuno pensa che significhi togliere potere agli uomini e sostituirli con le donne.

Non è così. Dare potere non ha attinenza con il dominio, non è potere su ma potere di. Potere come possibilità di fare.

Oggi esistono molte situazioni in cui la donna non ha possibilità o ne ha in modo limitato.

Ecco, la persona con cui parlavo di ciò, una donna, mi diceva che la parità non la vuole. Tanto non esiste, non c’è e non si raggiungerà mai. Quindi non ha senso starne a parlare, l’uomo faccia l’uomo e la donna faccia la donna.

Non è la prima cui sento dire ciò. Qualcuno rimembrerà di quando avevo parlato di Collega Joker e delle sue teorie sui ruoli.

Credo ci sia sempre molta confusione anche quando si parla di ruoli. Qui non stiamo parlando dell’uomo che paga la cena o che apre la porta o che “deve fare l’uomo” (che poi dovrebbero anche darmi una definizione di cosa voglia dire “fare l’uomo”: ah perché, Gintoki, non lo sai? Stai inguaiato allora! Ma io sono un gatto, quindi io faccio il gatto), si tratta di discorsi di più ampio respiro e che di certo non mettono in discussione i ruoli, ma il valore e il peso specifico che viene dato a essi.

E che vanno al di là di una vetrina decorata. E a volte mi sembra strano o inusuale che proprio dalle donne vengano certi discorsi così negativi e mi chiedo cosa proprio non stia funzionando tra la gente.

Si accettano raccomandazioni

…prometto in cambio servilismo umile e strisciante.

Un po’ ci speravo che fosse la volta buona, dopo il colloquio serio ero stato convocato per il 2° turno, con colloquio di gruppo + individuale, ma domenica mi è arrivata la mail che mi comunica di esser stato scartato.

Che ironia, no? A Pasqua, quando si scarta l’uovo, arriva la mail che comunica di esser stato scartato. Ovvio che l’abbia inviata un sistema automatico programmato, ma vorrei capire perché il programma me la manda proprio a Pasqua. Mah, è andata.

Perciò ora basta, cerco uno Scilipoti cui giurare fedeltà in cambio di prebende e similari o almeno un posto da valvassino (poi me la vedrò io per cercare di far carriera da valvassino a valvassore/vassallo/margravio).