Non è che il pornoattore venga bocciato all’orale

Il tipo di fronte a me ha una maglietta con Paperon de’ Paperoni che si tuffa in un mucchio di rotoli di carta igienica. Il tipo di fianco a me gliene chiede il significato.

«È quando all’inizio della pandemia in alcuni Paesi la carta igienica sparì e diventò preziosissima. Tra un po’ non potrò metterla più che non si capirà più il significato perché nessuno se lo ricorderà».

«Potresti continuare a metterla per spiegarne il motivo»

«Secondo me sarà sempre un aneddoto interessante da raccontare pure quando lo si sarà dimenticato», intervengo io.

Gli aneddoti.

Delle volte propendo per dare una supremazia alla narrazione orale rispetto a quella scritta. Perché lo scritto, se lo rileggi 100 volte, resterà sempre uguale a sé stesso. Certo, la seconda, magari anche la terza, potrai ritrovarvi più cose, comprenderne appieno altre sfumature, ma resterà comunque immutato.

L’oralità invece è come se ricreasse il racconto di volta in volta. Sarà per questo che è sempre divertente ascoltare certe storie. Delle volte magari personaggi e situazioni cambiano un po’, un cane feroce diventa un branco, un controllo documenti diventa un posto di blocco dell’esercito, e così via. Alla fine il confine tra realtà e invenzione diventa così impalpabile che chi se ne frega. È il racconto per il racconto.


Da non confondere col racconto dei racconti che è un’altra cosa.

 


Mi piace immaginare che chi racconta si faccia interprete di una tradizione millenaria, vestendo i panni di un aedo, narrando, intrattenendo, lavorando di immaginazione sui pezzi più vaghi, perpetuando l’esistenza di una storia che continua a vivere.

Certo, poi se la storia è sempre la stessa raccontata da quel parente o da quell’amico che narra per la centesima volta delle due gemelle tedesche rimorchiate in spiaggia, diciamo sarebbe meglio se il racconto fosse semplicemente scritto, almeno per poterlo seppellire da qualche parte e dimenticarlo, mentre l’amico/parente, purtroppo, non lo si può seppellire vivo che dicono fa brutto.

Progetti. Li getti? A che pro?

Abbracciandomi mi hai detto “Realizza i tuoi progetti”.
Mi sono sentito come nudo e indifeso. Porca miseria, c’è quindi qualcuno che mi prende sul serio. Che ansia.

Progetti. E scorrono delle figure davanti a me.

Ho sempre avuto una mente visiva, con frasi e parole che nella mia testa vanno a ricollegarsi in modo automatico a delle immagini in base ai suoni. Riflessi pavloniani per associazione. Alcune volte tali immagini si rivelano obsolete o fuori contesto: ma ormai sono lì, fissate come scolpite nel marmo.

Per dire, io da piccolo Napoli posso dire di non averla mai vista. Mia madre e mia nonna mi portavano con loro a comprare il pesce dietro Porta Nolana o da un negozio di stoffe in qualche vicolo lì intorno; attività di cui non mi importava molto e che cancellavo dalla mente. Così per me Napoli era rappresentata dalla stazione dei treni. Sentivo “Napoli” e pensavo alla stazione, perché per me Napoli era una stazione. Non avendo visto altro era quella la prima immagine che mi si era fissata.

È così che da bambino la parola “progetto” nella mia mente si è legata a un episodio di Tom & Jerry in cui il gatto si dedicava a progettare una mega trappola per incastrare il topo. C’era questo gigantesco foglio di lavoro dove era disegnato tutto il macchinario, che funzionava con un meccanismo a domino, es. un tergicristalli puliva un vetro e il movimento metteva in moto un altro aggeggio e così via, sino ad arrivare a un orologio a cucù che sarebbe andato a tagliare una corda che reggeva una cassaforte piazzata giusto sopra il roditore.

Ecco, nella mia testa progetto è uguale a “lavagna con disegnato sopra una cosa molto complicata e articolata”.

E io adesso vedo davanti a me un foglio da disegno su cui non c’è tratteggiato molto, soltanto un foro enorme con tutto intorno scritto acqua acqua acqua. No, macché acqua, è un buco nero. E più ci si cade dentro e più non se ne vede il fondo. Le mie nozioni di fisica sono alquanto limitate, ma da quel che ricordo credo che se fosse tecnicamente possibile andare a esplorare un buco nero (restando integri) in realtà non si riuscirebbe mai a raggiungerlo, la caduta verso il suo centro sarebbe infinita.

Sono trent’anni che cado, cado e cado. Un’attività inutile, come per Tom inseguire Jerry. Che poi io quel cartone l’ho sempre odiato. Come si fa a fare di un topo un eroe? Come si può mitizzare un topo? Per lo stesso motivo ho sempre odiato Topolino. Saccente e petulante, si circonda di persone idiote, incapaci o strambe per rafforzare la propria autostima. Non ne parliamo di quando poi ne ho visto i cartoni animati: ma una voce meno stupida non poteva avercela?

Ho sempre preferito i paperi, infatti, e il maestro Carl Barks è un mio mito.

La grande capacità di Paperon de’ Paperoni è quella di riuscire a combinare istinto e progettualità. Anche se in nome del guadagno si getta a capofitto in qualunque impresa, ha sempre un piano, non si dimentica di avere un “paracadute” per assicurarsi contro i rischi. Furbizia. È la prima lezione che ha imparato nella propria vita: il suo primo guadagno in assoluto, ottenuto quando cominciò a fare il lustrascarpe, fu una moneta da 10 cent americana (la famosa Numero Uno). Una moneta alquanto inutile in Scozia. Accortosi dell’imbroglio, esclamò: Che mi serva di lezione! La vita è piena di lavori duri e ci saranno sempre dei furbi pronti a imbrogliarmi! Beh, sarò più duro dei duri e più furbo dei furbi… e farò quadrare i miei conti!

Immagine
Questo è avere una progettualità intelligente.

E tu così spontanea mi vieni a dire “realizza i tuoi progetti”.

Ti voglio bene e ti osserverò mentre realizzi i tuoi. Perché ne hai l’intelligenza.

Gatti non foste a viver come bruti

Agosto è per me il mese peggiore che esista. È il mese in cui penso a cento cose da fare da settembre in poi, cose che puntualmente o non farò o se ne farò una sola sarà già tanto. La gente fa buoni propositi a gennaio, per me invece l’anno comincia adesso.

Una delle idee che mi frulla nella mia pelosa testa felina in questo periodo, tra le tante, è quella di cercarmi un altro lavoro a partire dal mese prossimo.

Tanto il 24 dicembre, come regalo di Natale, comunque scado. Ormai mi sono assuefatto a questa immagine, quella di essere uno yogurt ambulante a bassa conservazione. Certo, in azienda potrebbero anche fare il grande sforzo di confermarmi, se mai me lo sarò meritato. Il fatto che in ufficio ci siano molti “vecchi” lascia ben sperare che non ci sia un riciclo continuo di risorse.

La domanda è: voglio continuare a fare ciò che faccio?
La mia risposta è no. Per me questo posto non rappresenta un punto di arrivo. Continuare giorno per giorno facendo le stesse cose sempre uguali come una macchina non riesce a stimolarmi.

Al colloquio a tal proposito mentii.
La prima regola di un colloquio di lavoro è quella di essere sinceri.
La seconda, è quella di saper mentire.

Mi chiesero se per me fosse importante la crescita. Io risposi di sì, allora provarono a mettermi all’angolo chiedendomi:
“E se non ci fossero prospettive di crescita lei non avrebbe stimoli?”
Io allora risposi che, in ogni caso, per me lo stimolo più importante è fare esperienza, imparare e bla bla perché anche quella è crescita, anche se a livello formativo e non gerarchico. Musica per le orecchie di un datore di lavoro, perché la terza regola di un colloquio è quella di non parlare mai di voler guadagnare denaro, poco importa che non è perché vorresti tuffartici dentro come un pesce baleno e scavarci gallerie come una talpa (cit. Paperon de’ Paperoni) ma semplicemente perché vuoi poterti mantenere. I soldi sono una cosa brutta, si lavora per la gloria. L’hanno imparato bene tutti quelli che vorrebbero pagarti in visibilità per scrivere articoli e racconti. Dove si conserva la visibilità? Entra nel portafoglio? Che unità di misura ha? È divisibile? Cioè, a una cassiera al supermercato posso dare 3 scampoli di visibilità e un quarto? A una ragazza posso dire “Vieni a casa mia ad ammirare la mia grande visibilità” senza suonare osceno e/o sfacciato?

“Vieni con me e ti mostrerò come sono visibile”

Comunque, dopo questo discorsetto che feci ai due selezionatori (una dei due era quella che ha youporn nella cronologia del notebook), per mettermi in difficoltà mi dissero:
“Ah, quindi lei una volta fatta esperienza o imparato ciò che c’era da imparare, non sente più obiettivi o stimoli?”

Io, col carisma di un venditore di materassi e il tono suadente di George Clooney che dice “Immagina. Puoi” non mi sono scomposto e ho replicato:
“Per me non c’è stimolo più importante di un lavoro ben fatto. È ciò che mi motiva ogni giorno, sapere che c’è un compito da svolgere e un obiettivo da portare a termine”.

Queste è una delle rare occasioni in cui mi riesce di sfoderare una faccia di bronzo di Riace. Roba che son stato lì lì per ricevere un Oscar ma poi ho detto no perché DiCaprio si sarebbe veramente suicidato alla notizia.

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Fatto sta che invece ho mentito. Per me è importante invece che ci sia sempre qualcosa di nuovo da fare, di dinamico, di stimolante, per l’appunto. La noia è mia nemica, quando mi tedio comincio a dire e fare cose strane. Nel precedente lavoro son diventato famoso come quello che girava con Dostoevskij nella borsa come una bibbia e che ai clienti citava Schopenahauer. In quest’altra esperienza, pur essendomi ripromesso di adottare un basso profilo, già mi son fatto notare per alcune piccole stravaganze.

Certo, coi tempi che corrono un’azienda che decida di tenerti (ammesso e non concesso che lo faccia, sto ragionando sull’ipotetico) sarebbe una benedizione. Ma la mia conclusione è che se mai troverò qualcosa di meglio (pffff! mi vien da ridere mentre lo scrivo) non ci penserò su tanto per andarmene. E, nella peggiore delle ipotesi cioè che a gennaio mi ritroverò a spasso, almeno mi sarò approntato un paracadute d’emergenza. Altrimenti, pazienza, resterò dove sono.

Eppure non vorrei arrendermi a stare in due dimensioni su un foglio di carta, come il quadrato di Flatlandia. Vorrei esplorarne di nuove.
A chi va via o è in procinto di, dico sempre Fuggi! Tu che puoi. Con buona pace per la fuga di cervelli. Eh sì è una bella piaga, ma sono una piaga pure le teste di cazzo che restano qui (citazione liberamente reinventata).

Spero che la mia testa di cazzo non mi porti a schiantarmi contro il Purgatorio, un giorno.

Riassumendo i precetti d’oro per il lavoro:
1) sincerità
2) bugie
3) non parlar di denaro.

Togliete il “non” alla terza regola e funziona anche con le donne (oh ciuelo! Come sono simpatico. Promemoria: diventare più simpatico a settembre).

NESSUN LEONARDO DICAPRIO È STATO MALTRATTATO PER LA STESURA DI QUESTO POST