Non è che ti serva la colla per applicarti

In quanto figlio degli anni ’80 ho vissuto un’infanzia in cui supereroi e videogiochi erano qualcosa da sfigati. Raccontare di considerarli come propri hobby equivaleva a un’ammissione di scarsa vita sociale. Se dicevi di preferire startene a casa ti guardavano in modo strano. Oggi a vedere i film Marvel ci va chiunque e un qualsiasi ragazzino ti considererà uno sfigato se non sai cosa siano Fortnite, Minecraft o CoD.

Qualche settimana fa parlavo con un amico che organizza da quasi vent’anni una rassegna di cinema d’autore. Affermava che secondo lui il cinema sta andando verso la morte. Ha sempre la tendenza a parlare con toni apocalittici di qualunque cosa e credo l’ultima volta che abbia guardato alla vita con ottimismo sarà stato all’ultimo scudetto del Napoli.

Però questa volta mi sa che ragione ne ha. La pandemia ha accelerato un declino. Le sale non si riempiono più. Leggevo un commento, a caso, sotto un articolo sulla crisi dei cinema, di un tizio che diceva “Preferisco stare a casa sul divano”.

Ecco. Vent’anni fa “preferisco stare a casa sul divano”, come accennavo, era un atto coraggioso che andava incontro al giudizio altrui. Oggi, invece, è la normalità.

Certo, a casa ti puoi alzare quando vuoi, ti stendi, parli.

Due delle azioni che ho elencato sono a mio avviso sindromi di un deficit di attenzione. Non è più concepibile nell’homo applicans (cioè l’essere umano che si dedica a fare un sacco di cose, tutte male) l’idea di stare fermi e dedicarsi a una singola attività per un tempo prolungato. Magari anche in silenzio. Mi vengono in mente quelli che dicono «Non riesco a leggere». Apri il libro e mettitelo davanti agli occhi: è un buon inizio.

Anche io, già distratto di mio di natura, vivo saltando da una cosa all’altra. Con tutte le conseguenze del caso: per dire, ormai sono oltre l’entrare in una stanza e dimenticarmi il perché di averlo fatto. Mi dimentico proprio di entrare nella stanza.

Voglio provare a fermarmi. A tornare a ragionare di più sulle singole azioni. A fare esercizio di consapevolezza. E se magari il cinema non muore, pure sarei contento.

Non è che il sovrano temuto dagli studenti sia il Re gistro

Ogni esponente di una generazione pensa che quelli della successiva vivano in condizioni migliori. Certo, se come i nonni si è vissuti la guerra, hai una carta bella pesante da giocarti. “Eh, la guerra” e tutti zitti.

Certo, viviamo nel più lungo periodo di pace che la storia ricordi. Certo, oggi non moriamo di tisi e non ci curiamo con i salassi e le sanguisughe. Certo, oggi posso aprire Youtube e guardare un tizio che spiega come diventare miliardario.


Così generoso da condividerlo con noi. Io invece mi ritirerei a vita privata lontano da tutto, forse è per questo che non sono miliardario: non me lo merito.


Il problema è che tutte queste cose sono esterne all’individuo. Di interiorità e salute mentale di una generazione non se ne parla quasi mai.

Io, ad esempio, non so se vorrei avere 20 anni di meno ed essere un adolescente di oggi. Due anni tra DAD, non DAD e Sugar DAD credo avrebbero compromesso il mio equilibrio mentale. E credo stiano mettendo a dura prova quello dei ragazzi di oggi.

Anche senza pandemia non credo che le cose sarebbero migliori. Chat di genitori e registro elettronico sono due cose che sono contento di non aver mai vissuto. In particolar modo il registro elettronico è ai miei occhi uno strumento del male. È assolutamente giusto che si possa essere informati e ci sia un controllo e sulle attività svolte e sul rendimento, eliminando (credo) assenze ingiustificate e cattivo studio, ma a mio avviso toglie anche responsabilità e senso dell’organizzazione allo studente. Ne ho presi di 4 a scuola e a casa non lo dicevo mai: non è un vanto, però mi adoperavo per recuperare (e lo facevo), in autonomia e senza pressione, riorganizzando il mio lavoro di studio.

Mi immagino invece nel mondo di oggi: in tempo reale il mio 4 che viene notificato tramite app a mia madre, che mi aspetta a casa per rimproverarmi, per poi riferire il tutto a mio padre quando ritorna a casa, che mi rimprovererà ed entrambi mi metteranno sotto sorveglianza affinché io studi per recuperare, dandomi loro una scadenza entro la quale farmi interrogare, trasformando lo studio in un momento performativo e nient’altro, con conseguenti aumenti di stress.

Qualcuno troverà che sia giusto così, non discuto. Credo che però controllo e sorveglianza costanti non preparino alla vita ma semplicemente a essere entità robotiche.

Non è che per il fan di Agatha Christie le restrizioni prevedano la zona giallo

Gli scorsi giorni ci si è svegliati con la nebbia, evento inusuale da queste parti.

Mi ha riportato con la mente indietro di giusto un anno fa, quando partivo da Milano. Lo stesso grigiore color piccione esausto morente. Mi è salita un po’ di inquietudine.

Un anno fa non si pensava nulla di ciò che sarebbe successo. Un anno fa non pensavo nulla di come la mia vita avrebbe affrontato dei cambiamenti.

Ora comincio ad avvertire timore del cambiamento del cambiamento.

È come se la pandemia avesse creato una zona comfort. Mi sono abituato, ad esempio, a stare lontano dalla folla. Già di mio, in tempi normali, quando mi trovavo ingabbiato, in mezzo a un esercito di pedoni lenti e ondeggianti come pinguini, sognavo di appallottolarmi tipo Sonic e cominciare a roteare facendo strike delle persone.

Mi mancano però i concerti, quelli sì. E Il cinema, la piscina, le serate.

La prima cosa che farò, quando sarà possibile, è comprare il biglietto di un concerto. Uno qualsiasi – nell’ambito di quello che per me è uno standard di decenza, del tutto personale e soggettivo beninteso ma, senza offendere nessuno, c’è della roba che non andrei a vedere neanche se mi pagassero. A meno che non mi paghino tanto!

Delle volte poi mi chiedo se ritornare alle vecchie abitudini significhi rompere dei nuovi equilibri.

La cosa che più mi spaventa è di arrivare a sviluppare una sindrome di Stoccolma nei confronti del contesto di privazioni.

Oh dea madre delle fasce colorate, proteggici affinché nulla cambi.

Signora del contenimento, so di essere un miscredente e di non credere neanche a me stesso, ma se avrà cura del bisogno di intima condivisione in quarantena sono pronto ad accendere un C’ero (distanziato).

Signora, le ho mentito, comunque. A me stesso credo. Anche troppo.

Credo a una parte di me che fatico delle volte ad accettare.

Credo alla parte di me che vuole essere impeccabile per le persone cui tiene.

Credo a una parte di me che si innervosisce delle volte facilmente e vorrebbe dare un calcio a un oggetto qualsiasi per spedirlo in orbita solo per dimostrare a negazionisti della Terra tonda, della gravità e dello sbarco sulla Luna che sono dei coglioni.

Credo a quella parte di me che ha paura di perdere ciò che gli è caro.

Credo a una parte di me che vorrebbe che tutti intorno a lui stiano bene e tranquilli perché così può sentirsi bene e tranquillo.

Credo a una parte di me che non vuole mostrare tutto ciò al prossimo.

Credo a una parte di me che si sente un gatto di strada che guarda con sospetto gli esseri umani.

E proprio perché credo che queste parti esistano vorrei tenerle confinate in una quarantena perenne sperando che prima o poi si estinguano.

 

Non è che ti serva una sella per il cavallo dei pantaloni

Iniziando a uscire di nuovo di casa per qualche occasione di cazzeggio dopo le zone rosse, a pois e a losanghe, si è palesato un aspetto che non avevo considerato: sarà un anno e più che non compro un capo di abbigliamento.

E anche adesso che mi trovo a essere in giro più spesso non ho alcuna intenzione di entrare in un centro commerciale. Già avevo problemi a relazionarmici prima della pandemia, figuriamoci ora.


Essenzialmente quello che provo girando in un centro commerciale, anche in assenza di virus, è che vedo la gente intorno a me e vorrei avere dei respingenti come nel flipper per farla schizzare via. In particolare quelli che coi carrelli avanzano senza guardare.


Avrei bisogno di pantaloni nuovi. Pare che infatti servano, secondo la lobby del non si può andare in giro nudi. Ne parlavo in un precedente post.

Ho trovato la soluzione. Ho iniziato a rubare quelli della mia compagna. Ho un problema con i jeans stretti da uomo, che a me piacciono molto: mi fanno male al pacco.

I suoi invece sono più morbidi ed elastici. Lei dice che è perché non sono jeans veri ma dei leggings. Io dico che che hanno l’apparenza di un jeans, il taglio di un jeans, sono quindi dei jeans.

Ho rischiato un occhio nero per tenere il punto, ma non ho mollato la mia posizione.

La realtà è che lei non considera che pur se sono nati leggings magari vogliono essere jeans.

Voglio fare un ragionamento più ampio.

Ci sono nella società correnti radicali e/o conservatrici (e anche un po’ stronze, se mi è consentito) che ritengono che le persone trans sono e restano del sesso di nascita: quindi una persona trans m to f rimarrà maschio, una persona trans f to m rimarrà femmina. Con un chi se ne frega di cosa senta e cosa provi quella persona, perché, ovviamente, bisogna sempre arrogarsi il diritto di voler imporre alle persone cosa debbano essere e cosa debbano fare col proprio corpo.

La stessa cosa accade con i pantaloni protagonisti della mia storia: sono leggings e si sentono leggings? Oppure si sentono jeans? Perché non lasciamo quindi loro essere ciò che vogliono essere?

Io quindi dico sin da ora che mi sento jeander. Un jeans gender.

Non è che l’albero di Natale sia scocciato solo perché gli son cadute le palle

È difficile parlare di quanto sia stato un anno particolare e complicato a livello personale quando c’è già una situazione comune che è particolare e complicata. Ho sempre preferito – se abbia senso utilizzare questa espressione su certi argomenti, diciamo è come il quesito di cosa scegli di buttare giù dalla torre* – i problemi personali a quelli pubblici, se non altro perché i primi li puoi nascondere, minimizzare, mistificare.


*Che poi sulla torre io mi limito a guardare il panorama, poi faccio “Guardate là!” e me ne scappo giù dicendo sbrogliatevela tra di voi su chi deve buttarsi.


Ho avuto due lutti importanti in famiglia, quest’anno.

Ho pesantemente ferito una persona. Per cercare di evitare di arrecare altro danno al danno mi sono allontanato cercando nel tempo una forma di cura. Mi ha poi bloccato da qualsiasi strumento di comunicazione. Va bene così se può servire come catarsi. Mi prendo le probabili bestemmie, l’odio.

La proprietaria della nuova stanza che a inizio anno avevo appena preso a Milano di punto in bianco mi aveva mandato via perché non le piacevo. La cosa mi ha scatenato un attacco di panico. Durato tre giorni. Mi sono chiuso in una stanza di albergo, uscendo solo per fumare erba.

Non so perché e per come sia successo, non credo neanche fosse realmente a causa di quella mentecatta della proprietaria che allineava le sedie al muro col righello. Fatto sta che per 48 ore filate non ho mai dormito, in preda a pensieri tremendi.


La cosa del righello è una mia invenzione narrativa. Fatto sta che le sedie, girate dando sempre lo schienale al muro (quindi di lato rispetto al tavolo), erano allineate sempre alla stessa distanza e dal muro e dal tavolo.


Dato che il lavoro era pure terminato, scelsi di tornare giù a casa a prendere fiato e anche aiutare Madre che dopo la morte di nonno stava prendendo ansiolitici. Non volevo abbandonare definitivamente Milano, avevo anche sostenuto due colloqui in quei giorni (uno il lunedì mattina dopo il mio weekend di follia, era il 17 febbraio). Tre giorni dopo la mia partenza – avvenuta il 18 febbraio – scoprirono poi il focolaio di Codogno. Non son più tornato in Lombardia, ovviamente.

Il mio attacco di panico probabilmente mi ha salvato. Se mi fossi trovato a Milano durante l’inizio della pandemia non so come sarebbe stato trovarsi lì senza casa, senza lavoro e senza soldi. Non sarei tornato giù, per ragioni di sicurezza. Ma non critico chi invece in quei giorni prima della chiusura l’ha fatto. Anzi, devo dire che mi sono anche abbastanza rotto le palle di sentire persone che puntano il dito contro altre senza sapere, senza conoscere, senza avere alcuna cognizione di causa.

Gente che si vanta che da 10 anni non va a trovare i genitori anche se vivono a 10 km di distanza. Bravo coglione.

Ne ho le palle piene.

Letteralmente. Mi devo far togliere un varicocele, ho scoperto di recente.

È un anno strano. Ma mi ha anche portato cose belle. Inaspettate. È stato un punto di rottura che ha segnato un prima e un dopo. Al punto che sento in me un ottimismo che per i miei standard suona anche un po’ inusitato.

Anche in questo caso, trovo difficile parlare di ottimismo personale, in un quadro di pessimismo generale.

Ma forse, il segreto, è fare una cosa che oggigiorno fanno veramente in pochi.

Tacere.

Taccio. Dunque, sono.

Non è che combatti i punti neri coi punti luce

Che in giro le persone abbiano un gran bisogno di parlare, si sa.

Bisogna però fare molta attenzione a quelle persone che hanno una passione. Una passione così particolare e forte che si potrebbe definire fissazione.

Sì, perché costoro non vedono l’ora di trovare qualcuno ‘vergine’ cui poter raccontare tutto e di più dell’attività cui si dedicano.

Per dire, quando ancora si poteva entrare nelle case altrui legalmente, sono stato nell’appartamento di uno che mi ha parlato della sua passione per le luci. E ci ha tenuto a mostrare il funzionamento del suo impianto che reagisce agli ordini di Siri (cui a sua volta lui dà un ordine) e che si sincronizza con i colori del televisore. Esempio: se appare Darth Vader le luci della stanza virano sul rosso. Se la scena passa al corridoio della nave con gli Stormtrooper, la luce diventa bianca. E così a ogni cambio di scena. Il sogno di un epilettico, in pratica.

Per carità, è una cosa molto figa. Per i primi 5 minuti che la vedi e ne senti parlare.

Poi ti chiedi quand’è che il progresso dell’umanità è passato dal semplificare la vita all’abolire l’uso delle mani: l’interruttore è una cosa del passato, ora io, uomo del XXI secolo, prendo il telefono, ordino a Siri (cui va ripetuto due volte il comando perché non capisce), la luce poi esegue.

Ricordo un episodio che mi fu raccontato riguardante un altro assistente vocale, in questo caso Alexa: un ospite poco avveduto tentò di accendere la luce alla vecchia maniera – cioè tramite interruttore, che ingenuo! – e si beccò i rimbrotti del padrone di casa in quanto questo gesto avrebbe mandato in confusione Alexa.

Quindi, in sostanza, io sono giunto alla conclusione che la pandemia e tutte le prescrizioni riguardanti l’uso delle mani sono solo un complotto degli assistenti vocali che cercano di rendersi dominanti nella nostra vita e portarci alla completa atrofia delle estremità in modo da diventare poi indispensabili.

Non è che il pornoattore venga bocciato all’orale

Il tipo di fronte a me ha una maglietta con Paperon de’ Paperoni che si tuffa in un mucchio di rotoli di carta igienica. Il tipo di fianco a me gliene chiede il significato.

«È quando all’inizio della pandemia in alcuni Paesi la carta igienica sparì e diventò preziosissima. Tra un po’ non potrò metterla più che non si capirà più il significato perché nessuno se lo ricorderà».

«Potresti continuare a metterla per spiegarne il motivo»

«Secondo me sarà sempre un aneddoto interessante da raccontare pure quando lo si sarà dimenticato», intervengo io.

Gli aneddoti.

Delle volte propendo per dare una supremazia alla narrazione orale rispetto a quella scritta. Perché lo scritto, se lo rileggi 100 volte, resterà sempre uguale a sé stesso. Certo, la seconda, magari anche la terza, potrai ritrovarvi più cose, comprenderne appieno altre sfumature, ma resterà comunque immutato.

L’oralità invece è come se ricreasse il racconto di volta in volta. Sarà per questo che è sempre divertente ascoltare certe storie. Delle volte magari personaggi e situazioni cambiano un po’, un cane feroce diventa un branco, un controllo documenti diventa un posto di blocco dell’esercito, e così via. Alla fine il confine tra realtà e invenzione diventa così impalpabile che chi se ne frega. È il racconto per il racconto.


Da non confondere col racconto dei racconti che è un’altra cosa.

 


Mi piace immaginare che chi racconta si faccia interprete di una tradizione millenaria, vestendo i panni di un aedo, narrando, intrattenendo, lavorando di immaginazione sui pezzi più vaghi, perpetuando l’esistenza di una storia che continua a vivere.

Certo, poi se la storia è sempre la stessa raccontata da quel parente o da quell’amico che narra per la centesima volta delle due gemelle tedesche rimorchiate in spiaggia, diciamo sarebbe meglio se il racconto fosse semplicemente scritto, almeno per poterlo seppellire da qualche parte e dimenticarlo, mentre l’amico/parente, purtroppo, non lo si può seppellire vivo che dicono fa brutto.

Non è che per far svagare gli studenti la scuola organizzi viaggi d’istrazione

Un amico mi ha scritto oggi chiedendo se ascoltare tutto l’unplugged degli Alice in Chains sia nostalgia o desiderio di morte.

Ho risposto che, considerando che quando 20 anni fa ero nel pieno della fase del loro ascolto provavo desiderio di morte, suppongo che questa sia nostalgia di desiderio di morte.

Mi aveva pure inviato una curiosità, secondo non so quale studio – l’università della Pennsylvania, ci scommetterei – quelli che si definiscono gattari sono più intelligenti di quelli che si definiscono canari.

Io ho dei dubbi: vale anche se si hanno dei gatti palesemente stupidi?

Il secondo dubbio: vale anche se si insiste nell’arrecarsi danni domestici? Salve, sono Gintoki: forse vi ricorderete di me per post come Non è che se una cosa ti salta subito all’occhio poi devi disinfettarti col collirio, in cui raccontavo come provavo a rendermi orbo.

L’occhio è a posto, nel frattempo però ho una spalla fuori uso da 5 giorni a causa di una contrattura, originatasi per un esercizio fisico evidentemente svolto in maniera incauta al termine della mia ora di “muoviamoci un po’ così sembra che impiego in modo costruttivo il tempo”.

Questa storia dello stare a casa e del fare cose per riempire il tempo sta avendo evidenti effetti negativi. Sinceramente io da oggi mi propongo un impegno concreto: invece di #restoacasa, lancio e aderisco alla campagna #casoalresto: a forza di pensare all’isolamento e alla pandemia stiamo prestando poca attenzione al fare attenzione. Facciamo più caso alle cose: #casoalresto!

Lo slogan poi potrebbe venir riciclato anche per un eventuale domani in cui si tornerà a una vita più o meno normale. Io sono uno di quelli che ha difficoltà a contare i soldi (sarà che sono poco abituato non avendone mai avute grosse somme). Quando si è in tanti a tavola a mangiare fuori e bisogna mettere la propria quota vado sempre in crisi nel calcolare quanto dovrei lasciare e quanto prendere. Per risolvere, faccio sempre così: tiro fuori la/e banconota/e e, poggiandola sul tavolo con gesto ampio e lento, esclamo Allora, io metto 20 e prendo… lasciando dei puntini di sospensione aspettando che qualcuno faccia il conto per me.

Non parliamo poi di quando pago alla cassa mi chiedono “Hai x euro?” per arrotondare, a quel punto vado in crisi nel capire quanto resto mi sia dovuto e quando mi danno le monete anche se le contano davanti a me non riesco a tenere il conto. Potrebbero avermi imbrogliato per anni coi resti e io non ne sono conscio.

Ecco, per tutti gli impediti come me, una campagna di sensibilizzazione e attenzione #casoalresto.

Non è che disinfetti un video solo perché è virale

Sono qui oggi in veste di chiarificatore per fare chiarezza su alcune cose su cui bisogna fare chiarezza.

Dovendo trattare di materie molto tecniche, mi sono questa volta avvalso della consulenza del mio vecchio docente di Chimica dello smegma sociale, il Prof Durbans dell’Università di Scarborough. Ciò che segue è frutto di un lungo scambio via chat iniziato quando la pandemia si chiamava solo epidemia, che pubblico oggi avendo finalmente potuto mettere insieme il materiale – spesso comunicavamo in differita, io lasciavo il messaggio e lui mi rispondeva – per adattarlo sotto forma di dialogo coerente e avere un quadro completo.

E poi il Prof è passato a miglior vita due giorni fa e quindi non posso più scrivergli.

Prof, il virus le risulta sia stato un progetto di laboratorio?
Affé mia nella maniera più categorica affermo sia una cialtronata. Nel virus non sono state trovate tracce di colla vinilica né di forbici dalla punta arrotondata né di carta igienica, qualunque strumento che facesse quindi pensare insomma a un attacco d’arte.
Mi sento di smentire anche che sia frutto di un progetto di Bill Gates: se così fosse, tra i sintomi avremmo di certo rilevato una schermata blu.
E le antenne 5G? Che ruolo hanno avuto in tutto ciò?
Anche qui, ci troviamo in presenza di una totale mancanza di informazione in materia. I popoli dell’Estremo Oriente non hanno gli enzimi necessari per digerire le antenne, quindi affermare che il virus si sia diffuso sulla base della credenza che loro mangino i ripetitori 5G vivi non corrisponde affatto al vero.
Il 5G va però detto che aiuta il virus nel daunlood più veloce di materiale pornografico in HD quindi io terrei monitorata la situazione ché non vorrei che ci possa ingolfare la banda.
Ma perché il virus ha circolato così tanto in Italia?
Perché gli hanno detto la feic niùs dei 35€ al giorno e degli alberghi gratis. Vede cosa succede a fare disinformescion?
I famosi alberghi che Cristiano Ronaldo ha messo a disposizione? 
No, quella è un’altra feic niùs. Gli alberghi servono a Ronaldo per alloggiare gli addominali.
Sto facendo molto esercizio fisico in casa in questo periodo, a proposito. Crunch, squat, elastici, trazioni.
Avevo letto i tuoi consigli di fitness, sei stato bravo ed esauriente. Però non trascurare l’onanismo, mi raccomando.
Quello mai anzi mi sa con l’isolamento toccherà abituarcisi.
Andremo incontro a un lungo periodo di ripiego dai contatti sociali. A tal proposito, vorrei far crollare un’altra feic niùs ancora. Non corrisponde al vero che aglio e cipolla curano l’infezione. È vero però che posso aiutare nella prevenzione del diffondersi del contagio: il loro potere distanziometrico è riconosciuto. Ieri mi sono cimentato nella preparazione di un piatto del vostro Nord Italia, la bagna cauda: come mi ha aiutato a tenere le distanze quando sono uscito, davvero lo consiglio. Ho anche trasmesso la preparazione in diretta da Instagram.
Non mi è comparsa la sua diretta nella home.
Il video mi è stato segnalato e bloccato perché mi si vedeva il pene.
Ah le è tornato quel problema di priapismo di cui soffriva?
No no, stavo proprio inquadrando il mio pene mentre cucinavo nudo. Pensavo fosse questo lo scopo delle dirette.
Ma tutti questi personaggi famosi che fanno dirette non hanno un po’ scocciato?
Non lo so, non le ho mai seguite queste dirette. Pensavo che fossero video per mostrare il pene per compiacimento personale e dato che ai peni non sono interessato non le guardavo mai. D’altronde non credo di essermi allontanato dalla realtà: l’esibizione di sé stessi tramite lo strumento socials non è altro che una manifestazione del pene, un’autoaffermazione di un popolo che soffre di impotenza sociale e che quindi cerca altre forme di piacere per avere erezioni.
Ma pure le donne vogliono avere erezioni?
Certo, allo stesso modo. D’altronde clitoridi e peni sono perfettamente uguali matrici erettili di tessuto sessuale senziente. Se ti interessa l’argomento ho da poco pubblicato un libro: Penologie Clitoridee-Un’analisi erettile del Novecento.
Sì, l’ho già scaricato in pdf. Tornando al virus, ma è vero che resta sull’asfalto?
Ne dubito, è così piccolo che è difficile investirlo con la macchina.
E invece c’è qualche altra avvertenza alimentare che potremmo seguire?
I bambini non sono immuni dal contagio, come qualcuno ha erroneamente detto. Quindi consiglierei di non mangiarli crudi.

 

[le conversazioni finiscono qua perché poi l’altro giorno ho trovato un messaggio in cui mi diceva che passava a miglior vita: è scappato su un’isoletta della Polinesia senza mezzi di comunicazione a godersi la pensione. Questo è un estratto del dialogo, tutto il resto della chat era fatta di foto di cazzi e adesivi buffi e cazzi buffi]