Del riflusso e altri conati

Considerazioni sparse su tovaglioli di carta.

La solidarietà per i tragici eventi in Sardegna proviene anche da persone la cui casa non sarebbe/non era a norma. Ricordo quando dalle mie parti, anni fa, il Sindaco diede inizio ad abbattimenti di edifici abusivi: rivolte, minacce di ritorsioni.
La gente dice, non priva di una certa logica, ma come, ce le avete fatte prima costruire, ora ce le volete buttare giù?
Allora che si fa?
E paghiamo, suvvia!
Fin quando non sussistono rischi idrogeologici non dico sia accettabile, ma quantomeno condonare non si trasforma in un concorso in strage. Ma invece sembra che il condono sia un’immunità totale, come se Madre Natura agisse come l’Angelo della Morte biblico, che sterminò i primogeniti egiziani ma risparmiò quelli ebrei, perché le loro case erano marchiate col sangue di agnello. Ecco, secondo alcuni la natura dovrebbe agire in questo modo, controllare prima se le case abbiano pagato e quindi passare oltre.
Il mio pensiero va agli agglomerati urbani arrampicatisi sul complesso vulcanico Somma-Vesuvio.

Telefono per chiedere informazioni sullo stato della mia pratica. Mi passano una persona con un rapporto conflittuale con la sintassi che mi dice che, sì, stanno esaminando le documentazioni, ma sono molto indietro. In alto mare, direi io. Anzi, staranno tentando di buscar el Levante por el Poniente, quindi si attendono tempi mooolto lunghi.

Qualche settimana fa ho violato una delle verità nella mia autopresentazione: quella in cui affermo che mi piace l’alcool, in tutte le sue espressioni. Purché siano di qualità. Ecco, qualche settimana fa, dicevo, ho partecipato a una festa di laurea e ho bevuto (e tanto) cose che come qualità sarebbero andate bene per spurgare i bagni del Maracanà durante il concerto dei Rolling Stones. Non ne vado fiero, no all’alcool sì a Valsoia eh. Ero un po’ giù di corda e poi si preannunciavano donne ubriache. Che ci sono state. Peccato che ho rammentato che le donne ubriache mi mettono ancor più tristezza, come quelle che fumano volgarmente e quelle che parlano in dialetto (e guarda caso erano presenti tutte e 3 le tipologie insieme!), quindi ho abbracciato la mia nausea e addio.
Rimedi per riprendersi il giorno dopo, rigorosamente in quest’ordine e non tutto insieme ma a intervalli:
1) Acqua calda e succo di limone;
2) Fette biscottate e miele;
3) Una banana.
Calmano lo stomaco e ristabiliscono equilibrio nel corpo.

Mia madre è precaria. L’anno scorso dove lavora hanno provveduto a una stabilizzazione delle dipendenti, anche se ne erano rimaste fuori tre. Tra cui mia madre, ovviamente. La garanzia era che l’anno venturo (ossia questo) si sarebbe provveduto a sanare anche le restanti posizioni. Ora la novità è che La Fondazione non ha i fondi per farvi il contratto e il Comune non ci dà una mano. Per caso quello stesso Comune che spende e spande soldini per feste e festività a imitazione delle feste più grandi organizzate in grandi città, probabilmente colto da invidia del pene? Quelle feste composte da 4 bancarelle in croce dove in una trovi le maglie del Napoli (false), in un’altra l’immancabile venditore di torrone esausto stagionato vent’anni, in un’altra ancora chincaglieria cinese e così via? Quello stesso Comune che ha avuto la geniale idea di abbattere delle panchine di pietra (giustamente i simboli del precedente potere vanno eliminati) solo per piazzarne altre di legno appena comprate? No, forse mi confondo.

Una persona mi ha detto che soffro due volte. La prima per ciò che sento, la seconda per quello che non esprimo.

Come parla?! Le parole sono importanti!

Oggi non ho nulla di particolare da scrivere e, quindi, vorrei concentrarmi su un piccolo sfogo che covo da tanto: le parole o le locuzioni odiose. Quelle che proprio fanno ribrezzo, per il suono, il significato, l’uso improprio…roba che vorreste avere a portata di mano un nodoso bastone da far incontrare alle ginocchia di chi vi sta parlando.

Ecco la mia lista.

Attimino“, “secondino” (non quello del carcere), “messaggino“…tutti i diminutivi idioti e inutili, da bimbominchia, pronunciati, purtroppo, da persone ormai da tempo nell’età adulta. Ricordo con orrore un oculista che mi disse (avevo 17 anni), per un’infezione, di mettere “la pomatina“. Non sono più andato da lui.

“-poli” attaccato a qualsiasi sostantivo per indicare uno scandalo. Ok, tutto è nato con Tangentopoli, per indicare il noto scandalo scoppiato a Milano. Tangento-poli, appunto, vuol dire città delle tangenti, e questo luogo era la città meneghina. In questo caso era ammissibile. Oggi è in uso, da parte dei giornalisti, usare -poli come sinonimo di scandalo: calciopoli, vallettopoli, scommessopoli…Per me è un abominio linguistico. πόλις vuol dire città!
Ho capito che lo fanno anche in America, utilizzando, nella stessa maniera, il suffisso -gate. Ma non è che se una cosa la fanno negli USA vuol dire per forza che è buona.

Una new entry recente: “agibilità politica. Ma che diavolo vuol dire? Ma chi li inventa questi termini? L’agibilità è per le strutture, gli edifici…capisco che Berlusconi ormai abbia più stucco in faccia di un muro di mattoni, ma insomma.

Ti vedo come un amico“. Non c’è bisogno di altre spiegazioni. Per approfondimenti c’è un mio post.

Piuttosto che” usato col senso di “oppure”. Perché la gente sta condannando l’oppure all’estinzione?

Non ho nulla contro…basta che…“. Una frase che vorrebbe suonare come una dichiarazione di tolleranza, riflette invece una profonda intolleranza malcelata da ipocrisia. Spesso usata con gli omosessuali: non ho nulla contro i gay, basta che stiano al posto loro. Che minchia vuol dire? Fai il gaio quanto ti pare, basta che te ne stai nascosto? Pss, te lo dico sottovoce, amico…questa non è tolleranza.
Io proporrei di arrivare a un’abrogazione formale di tale locuzione inflazionandola, facendone venire la nausea dell’uso:

  • Non ho nulla contro chi gioca a calcetto con le magliette di 10 euro facsimile di quelle originali. Basta che non giochi nei campetti dove vado io.
  • Non ho nulla contro chi mette troppo zucchero nel caffè. Basta che si faccia venire il diabete a casa sua.
  • Non ho nulla contro i capelli ricci. Basta che li taglino.
  • Non ho nulla contro chi corre nel parco col fiatone, ansimando. Basta che trattenga il fiato e non respiri.

E via così.

Apericena“. Sarò all’antica, ma son cresciuto con ruoli ben definiti. L’aperitivo è l’aperitivo, la cena è la cena. Gli stadi intermedi mi sembrano l’allegoria perfetta della nostra società indecisa. Ho capito che è comodo al prezzo di una birra o un cocktail riempirsi anche lo stomaco (quando sei in viaggio e coi soldi contati fa comodo!), ma fa tanto snobisti e modaioli, di quelli che ormai mangiare è un accessorio ingombrante, di quelli perennemente a dieta (che poi ingurgitano l’equivalente in peso di un bue muschiato tagliato a fettine e servito con pancarré e oliva), di quelli che fanno una cosa perché la fanno gli altri. Altrimenti, viste la moda e la vita moderna che ci impongono di andare sempre di fretta, proporrei altre fusioni. Lo spuntinanzo: fare merenda con la peperonata. La pausa cafféna: per gli impiegati stressati e oberati di lavoro, una pausa davanti il distributore comprensiva di cena, così a casa possono direttamente andare a morire sul divano senza preoccuparsi di dover anche riempire lo stomaco (se single) e senza rotture sul cosa preparare (per la moglie). E, infine: perché seguire tutta la trafila cena, ritorno a casa, finire a letto insieme…che si copuli direttamente sul tavolo del ristorante, tra una zuppiera di vongole e un astice semi-vivo (uomini, occhio alle chele). Come potremmo chiamarla? Trombatena? Uhm, non sono convinto.

Vado a fare plin plin“. Sì. È tutto vero. Io ne ho sentite donne che voi umani non avreste mai voluto sentire, dire una cosa del genere. È la prova che la tv rincoglionisce. Mi raccomando, poi, fammi drin drin quando mi telefoni, sotto casa fammi dlin dlon e quando vorrai smettere di fare l’oca avvisami con un quack quack.

Ok, non volevo arrivare anche a questo, ma giunto a questo punto devo confessare tutto. Odio tutte le formule alternative per indicare le mestruazioni. Sì, per me si deve dire mestruazioni, basta. “Sono indisposta“. A parte che mi dà l’idea di un disturbo intestinale, a me ricorda la consueta giustificazione sul libretto scolastico: indisposizione, un modo per dire che quella mattina della scuola non c’avevi voglia. “Ho le mie cose“. Dove? In borsa? A casa? In banca? “In quei giorni“, che mi fa tanto di racconto biblico: In quei giorni…i fiumi si riempirono di sangue…e Dio vide che ciò non era tanto buono. E l’ultima, che odio più di tutte, è ciclo. Non so perché, non c’è un motivo. Forse il suono, quel “clo”, che mi disturba.
Spero comunque che le donne smettano di usare formule da spot Lines (dove, tra l’altro, le donne vengono odiosamente rappresentate come delle mentecatte, ci dedicai pure un post).

ps lo so che le virgolette stanno tutte storte e aperte/chiuse alla dog’s dick, ma non capisco perché WP faccia ciò

È la stampa, bellezza #2

Seconda parte della mia storia. Tutto è cominciato perché, l’altro giorno, scavando nei cassetti ho trovato le vecchie copie del giornalino di classe e mi sono un po’ commosso, quindi ho deciso di raccontare del mio sogno di diventare giornalista.
Avevo interrotto la prima parte ai tempi del liceo. Riprenderò  da lì, parlando dei miei tentativi di farmi largo in una vera redazione; non menzionerò i nomi delle testate (non che io debba dire chissà che di sconveniente…almeno non per tutte).
Prima, un paio di premesse importanti:

* Come si fa a ottenere il tesserino da pubblicista (dal sito dell’Ordine dei Giornalisti):
Documentare l’avvenuta retribuzione per il lavoro giornalistico svolto, costituisce requisito indispensabile per richiedere l’iscrizione nell’elenco dei giornalisti pubblicisti. Tale retribuzione deve, inoltre, essere adeguata all’attività giornalistica e accompagnata alla documentazione che attesta il carattere di continuità dell’attività negli ultimi due anni.

** La legge sull’equo compenso è entrata in vigore quest’anno e da poco tempo si è anche insediata la commissione che dovrebbe definire tale equo compenso e, anche, redigere un elenco delle testate che garantiscono il rispetto di un equo compenso, dandone adeguata pubblicità sui mezzi di comunicazione e sul sito internet del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. Il testo completo della legge è consultabile qui.

Il primo vero giornale – L’ultimo anno di liceo, un mio amico e compagno di classe mi propose di scrivere per il giornale col quale collaborava: una testata a diffusione localissima a pubblicazione qundicin…mensi…aquandocapitavale. Visitammo, io e altri aspiranti reporter, la redazione: due stanzette e tre pc. Il direttore non ci fece false promesse parlando di retribuzioni o altro, chiese solo passione e voglia di mettersi alla prova. Occupandomi sempre di cronaca bianca, scrissi per quella testata per un anno e mezzo. Gli impegni universitari, frutto di una scellerata scelta che m’aveva portato a iscrivermi a ingegneria (niente domande, pliz), mi assorbirono poi corpo e mente, costringendomi a interrompere la collaborazione.

Provaci ancora, Gin-chan – Seguirono 5 anni in cui dimenticai completamente il mondo della carta stampata; cosa era successo? Non saprei dirlo con certezza, probabilmente uno dei tanti sogni adolescenziali che poi si spengono per consunzione naturale nel corso del tempo. O così credevo.
Nel frattempo avevo cambiato facoltà e mi ero anche laureato, nel 2009. Fu allora che un giorno ripresi in mano i vecchi articoli che tenevo gelosamente conservati, con la voglia di scrivere che si riaccese. Cercai su internet un giornale che avesse bisogno di collaboratori, trovai una testata online locale che aveva bisogno di articolisti nella mia zona e mi misi in contatto via mail. Risposero dopo un giorno, invitandomi in redazione: solite due stanze con 3 pc in croce. Il direttore mi spronò a cominciare subito a scrivere, ovviamente precisando che non erano previste retribuzioni, facendo però leva su quella parolina: il tesserino*, se avessi voluto. Non ponendomi il problema di come avrei fatto a ottenerlo, io cominciai a scrivere, inviando articoli con una certa regolarità. Mi occupavo di vari temi: cronaca, politica, sport…tutto ciò che poteva essere fonte di notizia. Scrissi per loro per un anno e mezzo, finché, di punto in bianco, notai che da quando fu cambiato il direttore i miei articoli non venivano più pubblicati, anche se il sito era aggiornato quotidianamente. Nessuna comunicazione, nulla. Al che, smisi di inviare articoli. Forse avrei potuto chiedere spiegazioni, ma tanto i nostri rapporti erano solo online, non avevo alcun vincolo con loro, non mi avevano prospettato nulla di più la pubblicazione degli articoli…chi se ne frega, mi dissi.

La breve parentesi calcistica – Nel settembre dello stesso 2009, quando scrivevo da pochi mesi per la testata web, il vecchio amico (quello che mi introdusse nel primo giornale), mi fece un’altra proposta. A quel tempo lui collaborava, precario, con un quotidiano locale. Disse che cercavano collaboratori nella redazione sportiva. Accettai. Finalmente potevo vedere una vera redazione. Quando mi trovai in attesa di essere ricevuto, fuori dalla porta, mi batteva il cuore come se dovessi incontrare una ragazza con la quale mi avevano organizzato un appuntamento. Il direttore, stavolta, oltre a vagheggiare la prospettiva dell’agognato tesserino, ci parlò (a me e ad altri 2-3 volontari) anche di rimborsi spese, addirittura. “In futuro“, parole sue. Il lavoro consisteva nello stare in redazione la domenica, a costruire la pagina del calcio locale, a partire dalla Promozione in giù. Poco più di Scapoli vs Ammogliati. Oltre a scrivere gli articoli (molto spesso inventando le cose di sana pianta, considerato che il lavoro si svolgeva senza guardare le partite, solo basandosi su commenti raccolti in rete o al telefono), curavo anche l’impaginazione. Era divertente, tutto sommato.
Sono durato due domeniche. Non per volontà mia. Considerando che non ero padrone dell’auto e che la sede del giornale era in un’altra provincia, i miei, considerati gli orari, mi imposero di non andare avanti.
Va detto che di quella redazione non me ne parlarono bene: alcune persone ben informate mi dissero che lì facevano entrare i ragazzi a ciclo continuo e dopo un paio di mesi li mandavano via prima che iniziassero a pretendere, pronti per un’altra infornata. Un collega dell’università, che scriveva per il giornale gemello (stesso editore), mi disse di non farmi fregare, che quelli non erano brave persone.
Fatto sta che io avrei almeno voluto verificarlo da solo, invece non ne ebbi possibilità.

Ultimi tentativi – Prima di lasciar perdere, considerai anche l’ipotesi di una scuola di giornalismo, che permette di sostituire i 2 anni di praticantato obbligatorio con un biennio di studio, compreso uno stage in redazione. Ma spendere 7000 € all’anno (per la scuola più economica) non è una cosa che mi posso permettere né che mi sento di chiedere alla famiglia, che mi ha già mantenuto abbastanza. Vero è che ci sono le borse di studio, ma quasi sempre a copertura parziale e, inoltre, vanno aggiunti i costi per vivere fuori sede.
Siamo quasi ai giorni nostri: l’anno scorso, mentre leggevo delle notizie su internet, vidi che una web testata locale cercava collaboratori. Li contattai, il direttore mi chiamò, invitandomi a prendere un caffè al bar. La visita alla redazione non era contemplata, probabilmente stavolta non c’erano manco le due stanzette coi pc.
Mi spiegò, ovviamente, che non era prevista retribuzione, ma – rullo di tamburi – avrei potuto guadagnare qualcosa se avessi portato sponsor al giornale! Scrivere o fare il commerciale, qualcosa mi sfuggiva. Poi mi offrì la possibilità del tesserino e io, che ormai sapevo ovviamente come funzionava con tutti (o quasi) i giornali locali ma che volevo sentirlo dire chiaramente, domandai in che modo ottenerlo. Semplice: a fine anno lui si sarebbe occupato di produrre la documentazione (farlocca), io avrei versato i contributi. Certo, come no.
Avrei dovuto denunciarlo, ma non avevo prove né volevo mettermi nei guai. Contattai, comunque, l’Odg della Campania per chiedere se vigilassero sulle testate e se avessero una sorta di “lista dei buoni” cui una persona si sarebbe potuta rivolgere, per svolgere un’attività quantomeno non illegale**. Mi dissero di contattare il sindacato dei giornalisti (l’FNSI) per queste cose. Li chiamai, mi dissero di rivolgermi all’Odg. No comment.
L’ultimo tentativo lo feci contattando Luca Telese, che incontrai alla presentazione di un suo libro. Visto che stava aprendo un nuovo giornale, gli chiesi se avesse spazio per un giovane volenteroso. Mi scrisse via mail dicendo: quando apriremo la sede passa a trovarci. Non passai mai a bussare al citofono, però inviai in redazione una lettera, col mio cv e un paio di articoli. Non ebbi risposta, considerando anche che il giornale chiuse dopo poco.
Lasciai perdere del tutto dopo questa cosa e mi concentrai sul lavoro in banca che avevo appena iniziato.

Conclusioni – Non sarò mai giornalista, l’ho capito. Non me la prendo con nessuno, per il semplice motivo che credo di non avere la necessaria bravura per svolgere tale mestiere. Non mi riferisco solo al saper scrivere (cosa di cui neanche sono certo di sapere fare), ma anche all’essere in grado di ottenere ciò che si vuole, farsi conoscere dalle persone giuste, rompere i maroni a chi si deve. Forse un altro al posto mio si sarebbe incollato a quel citofono fino a che non gli avrebbero aperto la porta. Un esempio ce l’ho sotto gli occhi: quel famoso amico che mi ha fatto conoscere due giornali, adesso è un giornalista. Senza spinte, senza essere figlio/nipote/amante di. Si è fatto un culo così per anni, ancora oggi si fa in quattro tornando alle 10 di sera per neanche chissà quale guadagno, però ce l’ha fatta. La domanda è: ne vale la pena di fare una cosa così massacrante? Se è per passione, per me vale sempre la pena.

Dieci anni fa lessi su un diario una frase illuminante: il destino è la strada che separa la rassegnazione dall’ostinazione.

È la stampa, bellezza

Da bambino volevo guarire i ciliegi…e fare altre cento cose diverse, una volta divenuto adulto. Mi infatuavo di mestieri diversi tra loro (avvocato, criminologo, imprenditore, medico…), trovavo del fascino in ognuno di essi. Come rimanere ammaliato da varie donne, colpito da un differente particolare (gli occhi, il portamento, il carattere, l’eleganza e così via) per ognuna.

Il colpo di fulmine – Ci fu un’idea, però, che da un certo punto in poi nel mio cuore prese il posto di tutte le altre: diventare un giornalista. Accadde in terza media, con la realizzazione di un giornalino di classe. “Teenager’s mirror” si chiamava. La scelta del nome per quella creatura non fu semplice, dopo lungo dibattito l’aula optò per l’english style (faceva più figo), chiedendo soccorso all’insegnante di inglese. Poi, vennero scelti i redattori: io mi sarei occupato di cronaca bianca, raccontando fatti inerenti amministrazione e sociale della nostra città. Successivamente, per un breve periodo, mi occupai anche di scienza, pagina fortemente voluta da me, che la imposi all’insegnante al grido di o questo o non scrivo niente. Ero già una primadonna.
Fu amore, comunque. Intenso e travolgente. Raccontare scrivendo, intervistare un politico (seppur locale), andare in giro a raccogliere notizie, vedere pubblicato il proprio articolo…sì, sarebbe stata quella la mia strada.

Dopo due mesi di faticosa gestazione, il nuovo anno salutò il parto del primo numero del giornale. Solo la nascita del Royal Baby ha generato più trepidazione di questo avvenimento.

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Era una beta version, come si evince dalla grafica un po’ scarna e dalla sillabazione fantasiosa del Word ’97; per tacere, poi, della cornice mortuaria della testata. Notevole il profilo del soldato greco (clipart per riempire un buco), forse un omaggio a Omero, cui era intitolata la scuola. Nel complesso, questo primo numero aveva un certo valore artistico-kitsch, roba da far accorrere Andrea Diprè. La cosa per me significativa era che l‘articolo di apertura, il pezzo d’esordio del giornale, era il mio! Quale orgoglio.
La grafica poi migliorò e il terzo numero (l’ultimo, prima dell’esame di III media) fu anche totalmente autogestito da noi alunni: ricordo ancora la riunione di redazione a casa di M., la ragazzina che mi piaceva (quella del bacetto della mia top ten)
*, nominata direttore del giornale dall’insegnante. Cercare di conquistare il capo per far carriera, avevo già capito tutto della vita.

Le superiori – Coltivai il mio hobby da pennivendolo anche alle superiori, quando in V ginnasio mettemmo su un giornale di classe. Io e un altro reduce dell’avventura delle medie imponemmo agli altri il nome: sarebbe stato Teenager’s Mirror. Era ormai un marchio. Non è registrato, quindi, chi volesse perpetuare la generazione è libero di farlo.
Io proseguii nell’occuparmi della cronaca cittadina (istituzioni, lavori pubblici), ormai ero navigato in questo settore. Di quel giornale riuscimmo a pubblicarne ben 4 numeri, l’ultimo sul fotofinish prima dell’inizio delle vacanze dell’estate 2000.

Fine prima parte
La seconda sarà ancora più lunga e noiosa.


* Come finì con la ragazzina? Non le confessai mai i miei sentimenti, ho sempre avuto la sindrome da “scrutatore non votante”. Sono sicuro che lei invece si aspettasse un passo verso di lei da parte mia. Finite le medie non l’ho più vista. Anni dopo, le chiesi l’amicizia su fb. Mai accettata. Adesso ogni tanto la incontro in giro, frequentiamo gli stessi posti, ci salutiamo. Spero stia soffrendo per non avermi avuto, sono diventato un figo pazzesco negli anni (see, certo certo)!

Sforzi che vanno in fumo

Faccio una premessa: non intendo parlare degli svantaggi, dei pericoli del fumo, della lobby del tabacco, dell’importanza di smettere di fumare e quant’altro, perché non me ne cale né tanto né poco. Ciò che mi appresto ad esaminare è il comportamento del fumatore incallito e degli aspetti che suscitano in me ilarità.

Seconda premessa: anche io ho fumato. A 17 anni ho provato due tiri, tra i 18-19 ho cominciato a farmi qualche sigaretta, più che altro perché mi ritrovavo in una compagnia di 5-6 persone, tutti fumatori, che mi svampavano in faccia contemporaneamente, creando intorno la mia testa una nebbia da brughiera: più volte, sentendo un cane abbaiare, pensavo fosse il mastino dei Baskerville. Giunto a questi livelli,  una sera dissi ok, datene una anche a me. Non ho mai preso il vizio, però, pur andando avanti per 2-3 anni a fumare, tant’é che un giorno ho detto stop al tabacco sì a valsoia, di punto in bianco.

Detto questo, quello che non riesco proprio a comprendere è l’ansia di doversi mettere in bocca la bionda, come se non esistesse nient’altro. Un giorno ero in pausa pranzo con due colleghi, quel turno era un sabato straordinario e, dovendo lavorare meno ore del solito, in luogo della canonica ora di relax c’era solo mezz’ora. Ho visto lui e lei ingoiare il pranzo senza masticare, bruciare l’esofago coi bocconi appena scaldati dal microonde, perché dovevano correre fuori a svampare nel poco tempo restante.

E che dire del Polacco e Patti Smith al cinema? Nei 5 minuti di intervallo ogni volta li vedo correre fuori ad aspirare. Maremma tabaccaia, due ore di fila non resistete?

I pendolari sulla banchina, in attesa del treno: meravigliosi. Un viaggio di soli 20 minuti, nell’attesa devono fumare comunque. E poi, regolarmente, buttare la sigaretta neanche a metà perché arriva, incombente, il treno (poi si lamentano che hanno già consumato il pacchetto, con quello che costa!). In quei frangenti non capisco se è più l’esigenza di fumare o l’ansia di dover attendere senza far nulla. In quest’ultimo caso un po’ lo capisco, anche io, a volte, non riesco a stare con le mani in mano e mi ritrovo a giocare con lo smartphone o col lettore mp3. È la società moderna, comprendo. Ha ritmi tanto serrati che ci ricopre di un vestito di disagio quando ci ritroviamo in nullafacenza solitaria. Però per l’appunto, gioca con lo smartphone, o pendolare, mio pendolare!

Per non parlare delle conversazioni in treno con la Giovane Maga Nera, che mi raccontava della sua sigaretta elettronica, delle sostanze contenute nella soluzione da vaporizzare che si era fatta calibrare a livello molecolare, del numero di tirate ogni tot minuti che doveva fare e così via. Non ascoltavo discorsi così deliranti da quella volta che la radio mi si bloccò su Radio Radicale durante un discorso dell’On. Razzi.

Insomma, fumare dovrebbe essere un piacere (giusto o sbagliato o deprecabile che sia); io ad esempio ogni tanto vorrei provare i sigari, sedermi in poltrona con fare contemplativo e godere i piaceri del “fumare lento”. Ma se deve essere una fissazione, che piacere è? Il fumo dà dipendenza, ok, ma se ne fumi un pacchetto al giorno ci credo! Forse se non ho mai avuto la dipendenza sarà questo il motivo

Vieni qua, ti imparo il mestiere

Tra le giustificazioni addotte riguardo l’utilizzo di stage/tirocini non pagati, c’è quella di considerare questo tipo di esperienza equiparabile al vecchio periodo d’apprendistato che un ragazzo andava a eseguire in una bottega: il padrone gli insegnava un mestiere e questo era il compenso per la prestazione d’opera. Imparare un mestiere, quindi.

Ora, io vorrei sottolineare degli aspetti essenziali del ragionamento, cioè che quando il ragazzo ha finito di apprendere il mestiere, tre cose possono avvenire:

1) il padrone lo prende stabilmente a lavorare;

2) il padrone non può prenderlo a lavorare, ma il ragazzo ha l’esperienza necessaria da renderlo una manodopera qualificata per potersi presentare da qualunque altro artigiano e farsi assumere;

3) il ragazzo può mettersi in proprio e il lavoro se lo crea da solo.

Trasportiamolo alla realtà attuale (non che lavorare in una bottega sia oggi in disuso, ovviamente), prendiamo come esempio un fantastico tirocinio del Ministero degli Affari Esteri presso un Consolato. Cosa può accadere, dopo che “mi hanno insegnato il mestiere”?

1) Mi assumono? No, è impossibile, non funziona così per entrare in un ente simile.

2) Posso andare a bussare ad un altro consolato, ad un ministero, ecc., per farmi assumere? No.

3) Posso mettermi in proprio ed aprire un consolato (!!!)? No.

Posso magari presentarmi in un’azienda e mostrare che ho esperienza? Certo, ma nella maggior parte dei casi non avrò accumulato l’esperienza specifica che va cercando quell’azienda (a meno che l’azienda non cerchi un passacarte), avrò al limite maturato delle skills da valorizzare, ma non di certo “ho imparato un mestiere”, perché si presuppone che quel mestiere io poi lo eserciti.

Questo parrebbe che il governo di tecnici l’abbia capito, mettendo uno stop agli stage gratuiti. Ma siam sicuri? Cosa dice la riforma Fornero (testo approvato dal Senato il 31 maggio)? Vediamo

34 – Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigoredella presente legge (quindi l’effetto della riforma in questo caso non è immediato), il Governo e le regioni concludono in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano un accordo per la definizione di linee-guida condivise in materia di tirocini formativi e di orientamento, sulla base dei seguenti criteri:

a) revisione della disciplina dei tirocini formativi, anche in relazione alla valorizzazione di altre forme contrattuali a contenuto formativo; b) previsione di azioni e interventi volti a prevenire e contrastare un uso distorto dell’istituto, anche attraverso la puntuale individuazione delle modalità con cui il tirocinante presta la propria attività; c) individuazione degli elementi qualificanti del tirocinio e degli effetti conseguenti alla loro assenza; d) riconoscimento di una congrua indennità, anche in forma forfetaria, in relazione alla prestazione svolta.

Segue il comma 35, con le sanzioni per i trasgressori. A parte l’effetto non immediato, pare tutto ok? Quasi. Comma 36

Dall’applicazione dei commi 34 e 35 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Che vuol dire? Che Comuni, Province, Regioni, Ministeri e quant’altro potranno continuare a proporre tirocini gratis? Eh già, come camperebbero, sennò, senza quelle migliaia di laureati a lavorare per loro gratis.

Il lavoro logora chi non ce l’ha

Essendo io una persona in cerca di occupazione, mi dedico quotidianamente a spulciare le offerte di lavoro su internet e ad inviare curriculum. La sensazione che ho, comunque, è che ciò serva a poco o niente.

Basti pensare di non essere il solo a fare così: soltanto per le offerte-fuffa del tipo agente plurimandatario portafoglio clienti altissime provvigioni rispondono in centinaia di persone (certo, può darsi anche che il contatore dei siti di annunci sia farlocco), figuriamoci quante persone, allora, inviano CV alle aziende per le posizioni aperte di miglior livello. Senza contare che un’offerta di lavoro su internet viene ormai diffusa e pubblicizzata su molteplici canali, ampliando il numero dei destinatari e, quindi, dei concorrenti.

Perché è così: di fronte a migliaia di concorrenti, il tuo pezzo di carta non significa niente, a meno che tu non abbia la specializzazione rara e indispensabile per quell’azienda.

Io in 6 mesi avrò risposto ad un centinaio di offerte di lavoro (mi tengo basso, ma credo siano almeno il doppio) e sono stato contattato ben 4 volte.

I miei dubbi trovano vigore di fronte a notizie del genere:

Recruting: 6 Pmi su 10 assumono per conoscenza diretta

Il recruting delle imprese, soprattutto se di piccole dimensioni, si orienta verso candidati di cui il datore di lavoro ha una conoscenza diretta. In Italia per la maggior parte delle assunzioni, rivela l’ultima indagine Excelsior svolta da Unioncamere e ministero del Lavoro, avvengono tramite canali informali e non mediante lunghe selezioni e valutazioni di esperienze e curriculum. Continua

“Conoscenza diretta” non deve trarre in inganno: non vuol dire automaticamente che stiamo parlando di una raccomandazione; considerando, però, che ci troviamo in Italia, dove c’è un fiorente mercato di cercatori di spinte e datori delle medesime, è lecito pensar male.

Ovviamente non è una scusa, se uno è senza lavoro non è colpa dei raccomandati; il problema di fondo che ponevo era quanto fosse utile spedire CV a destra e a sinistra, considerando che

1) le aziende non sembrano usare il CV come canale di reclutamento principale;

2) c’è tanta concorrenza;

3) inviare così tanti CV fa scendere anche la qualità della tua candidatura: mi spiego, secondo me una persona dovrebbe predisporre un CV ad hoc per ogni azienda e per ogni annuncio, evidenziando i punti che possono interessare quella determinata azienda e mettendo in ombra quelli meno rilevanti. Ma se uno risponde a 50 annunci non può stare a modificare 50 volte il CV, oltre alla lettera di presentazione che già di per sé va personalizzata a prescindere. Quindi si finisce per inviare una candidatura standard a tutti che può non risultare appetibile.

Selezione naturale

Tanto per cambiare, anche questo Capodanno qualcuno ha realizzato di avere qualcosa di troppo nel proprio corpo (dita, mani, occhi) e, pertanto, ha pensato bene di rimuovere il superfluo in maniera esplosiva.

Sinceramente non ho pietà per queste persone (ovviamente non mi riferisco alle vittime incolpevoli, colpite fisicamente dall’idiozia altrui) e non approvo il tono triste o addolorato nel commentare  questi fatti. Per me, molto cinicamente, si tratta di selezione naturale: gli imbecilli arrechino pure dei danni alla propria persona, le persone intelligenti, invece, si mantengano sane proteggendo il loro dna.

Far esplodere “botti” per il gusto fine a se stesso di assistere compiaciuti alla deflagrazione è un atto idiota partorito da menti primitive che, come tali, dovrebbero soccombere all’evoluzione storica. Pertanto, io lancerei un invito: fatevi pure saltare in aria, c’è ancora troppa stupidità da rimuovere.

Buona fine e buon principio

Francamente, non riesco a capacitarmi della fine dell’era berlusconiana; eppure il trionfalismo di questi giorni sembra dare per scontato che Silvio Berlusconi abbia chiuso col governo di questo Paese.

Io sono tra gli scettici; anzi, m’immaginavo che nel suo videomessaggio sarebbe comparso così


Io dico che non finisce qua: ha i mezzi per potersi ripresentare alle elezioni, per l’ennesima volta, come il salvatore della Patria, l’unto del Signore che ci aprirà le porte del regno di Silvio. Gli italiani hanno la memoria corta, sono propensi ai “giri di valzer” e soffrono di nostalgia immaginaria (questo a causa della memoria corta): ai loro ricordi se ne sovrappongono altri totalmente fittizi ma che richiamano alla mente un’età dell’oro perduta, per la serie “quando c’era Silvio…”. Tra qualche mese son sicuro che cominceranno ad apparire i primi nostalgici, tenete d’occhio i luoghi affollati (bar, mezzi pubblici ecc…) è l’habitat dove vive e si riproduce il nostalgico immaginario.

Censimento 2011

Sì, ok, è da un mese che dovevo parlare del censimento, nel frattempo che mi decido sarà già finito. Magari, perché il bello (o il brutto) deve ancora venire. Partiamo dagli inizi: per avere qualcosa da fare nel periodo post laurea (nel luuungo periodo post laurea, sarebbe il caso di dire), ho deciso di cimentarmi come Rilevatore per il Censimento 2011. Sono entrato in graduatoria e, dal 10 ottobre, presto servizio al Comune ritirando i questionari e assistendo nella compilazione. Già qui dovrei fermarmi per una precisazione: io e gli altri rilevatori, siamo senza contratto e, oggi 31 ottobre, ancora non si sa quando l’avremo. Teoricamente, io in questo momento sarei un tizio che passa per caso al Comune e si mette a prendere i questionari, dato che non ho contratto, tesserino (e dire che ho consegnato le fototessere un mese fa) e quant’altro.

Il 2° punto è che ancora non si è capito quanto dovrebbero pagarci: teoricamente, ogni rilevatore dovrebbe essere pagato in base ai questionari consegnati, tot euro per i cartacei, tot euro per quelli compilati online ma solo a seconda delle percentuali di restituzione ottenute:

Questo contributo sarà erogato ai Comuni in ragione di:

  • 6,00 euro per questionario di famiglia restituito al Centro Comunale di Raccolta o recuperato tramite rilevatore comunale;
  • 5,00 euro per questionario di famiglia consegnato ai punti di restituzione sul territorio;
  • 3,00 euro a questionario di famiglia restituito via web, ove il tasso di utilizzo del canale nel singolo Comune risultasse inferiore o uguale al 10%.

Nel caso il tasso di restituzione via web nel singolo Comune fosse superiore al 10% dei questionari validati dall’Istat, lo specifico contributo sarà corrisposto in misura pari a:

  • 4,00 euro per ciascun questionario restituito via web, se il tasso di restituzione via web risulterà compreso tra il 10,01% e il 15%,
  • 4,50 euro per ciascun questionario restituito via web, se il tasso di restituzione via web risulterà compreso tra il 15,01% e il 20%,
  • 5,00 euro per ciascun questionario restituito via web, se il tasso di restituzione via web risulterà compreso tra il 20,01% e il 25%;
  • 5,50 euro per ciascun questionario restituito via web, se il tasso di restituzione via web risulterà superiore al 25%.

Nella pratica, il Comune, una volta ricevuto il contributo dall’Istat, lo spartirà in parti uguali per tutti i rilevatori. Ma a quanto ammonterà questo contributo? Boh. No, non è mio il “boh”, è la risposta che otteniamo dai nostri responsabili.

Il dato positivo è che mi tengo impegnato, faccio qualcosa e alla fine mi diverto anche; per il momento, comunque, non è ancora iniziata la fase più complessa, cioè girare casa per casa consegnando i questionari rimandati indietro dalle Poste e (dopo il 20 novembre) sollecitare la restituzione. Sono curioso di vedere come andrà a finire quest’ultima cosa, quante porte sbattute in faccia troverò.

Le persone, comunque, non sono tutte collaborative: posso capire gli anziani, posso capire che i questionari non siano stati concepiti in modo perfetto, ma esistono molte persone che non si prendono manco la briga di leggere cosa c’è scritto. Se, di fianco il quadratino della risposta, c’è una freccia rossa e la scritta andare a domanda 6.13 , perché continuare a riempire tutte le altre caselle, quando non è richiesto? Il 90% delle persone riempie le caselle che non dovrebbe e non le salta, anche se espressamente indicato. La cosa più bella è quando le persone si innervosiscono perché vogliamo guardare il questionario davanti a loro: io sono venuto solo per consegnare, perché devo aspettare?! Urlano. Poi apriamo il questionario e troviamo firma mancante, dati mancanti e così via. Non comprendono che è meglio aspettare 5 mn in più lì che dover essere ricontattati o doverli andare a ripescare a casa.

Per fortuna, questi casi di persone irrequiete sono rari. I migliori, comunque, sono gli anziani che vengono a farsi compilare il questionario, sono pazienti e disponibili e ringraziano con calore per l’aiuto.