Non è che per fare leggi sullo stare a tavola organizzi cene decretini

Finalmente è arrivato.

Il Natale? Ma no, chi se ne frega. Il nuovo DPCM! Era attesa la nuova patch che fixasse i bug delle versioni precedenti e che avesse anche il contenuto extra ‘Festività 2020-21’. Il lavoro per il rilascio del nuovo software non è stato però agevole per gli sviluppatori e ha lasciato qualche perplessità agli utenti per l’effettiva installazione – ricordo che il DPCM comunque è autoinstallante, che vogliate o meno ve lo ritroverete – e il suo avvio.

Ecco quindi che vengo io in soccorso con delle pratiche FAQ for dummies!

Per motivi di lavoro devo spostarmi tra il 24 e il 25, entrando in diverse case. Devo fare un’autocertificazione per ogni casa cui faccio visita o ne basta una sola onnicomprensiva?
Se sei Babbo Natale ne basta una.
Se sei un ladro, se ti fermano penso avrai altre preoccupazioni.

La mia casa si trova sul confine tra due Comuni. Praticamente dormo sotto un’amministrazione e faccio colazione in un’altra. Come devo fare il 25-26 e l’1 se non ci si può spostare di Comune?
Io mi trasferirei nel Comune dove c’è il bagno.

Che colore avrò a Natale?
Dipende. Potresti ritrovarti giallo, arancione, rosso. Se sei blu, ti è andato di traverso qualcosa e stai soffocando.

Lavoro come figurante mummia in un museo, per spiegare ai bambini l’Antico Egitto. Purtroppo i musei son chiusi e non posso recarmici; le attività didattiche però sono consentite, a distanza. Il problema è che è poco credibile una mummia in un appartamento arredato IKEA. Cosa posso fare?
Mi dispiace, mummia: hai le mani legate.

In base al decreto posso invitare a pranzo a Natale i miei complici, giusto?
I conViventi, non i conNiventi. Legga meglio.

È possibile entrare nelle seconde case? Anche quelle altrui?
Credo sia violazione di domicilio, poi veda lei.

Secondo il DPCM le coppie che vivono in luoghi diversi possono riunirsi, purché siano conviventi. Io e la mia ragazza non siamo conviventi, che devo fare per ricongiungermi a lei?
Avere un pene moooolto lungo.

Non è che il pittore sia scarso a poker perché ha sempre e solo quadri

Ieri una persona che è presente tra i miei contatti Facebook ha scritto:
Tizia sta guardando dei quadri al Noto museo d’arte di Nota città dove girano serie tv e catastrofi varie.

“Guardando dei quadri”.

Ho continuato a tornarci sopra col pensiero di tanto in tanto, chiedendomi cosa ci fosse che per me non andasse in quell’enunciato.

Da un punto di vista logico è ineccepibile: in un museo d’arte cosa si fa, se non guardare dei quadri?


Io ci vado anche perché sono silenziosi. Quando non ci sono visite guidate.


Perché infatti non si potrebbe dire che in un museo guardi dei quadri? Chi non è presente non lo sa che tu guardi i quadri. Eppure una persona non esclama mai “Oh figa, andiamo a guardare dei quadri in un museo”, allo stesso modo in cui dice “Andiamo a mangiare una pizza”.

Non sto paragonando i quadri a una pizza, per quanto qualche opera mi annoi e io la ritenga una pizza, ma non lo dico perché non ne capisco di arte.


L’arte per me si suddivide infatti in “bella arte” e “arte che per mie limitate conoscenze non comprendo”, in questo modo non urto la sensibilità di nessuno se dico che qualcosa non suscita il mio entusiasmo.


Quindi l’enunciato della mia conoscente è corretto, seppur poco utilizzato dalla gente comune.

È come dire: guardo dei libri in una biblioteca. Guardo delle case diroccate a Pompei. Guardo una torre di ferro a Parigi. Guardo una enorme basilica a Roma. E potrei andare avanti per ore ma stasera ho da fare delle cose.

Allora in un mondo che si rinchiude sempre più nel particolarismo e alza barriere ed esce dall’Europa  e sbaglia i calci di rigore in maniera originale, io dico ben venga un barlume di generalismo a riportarci in una dimensione più distaccata.

Guardate dei quadri, gente! Guardate dei quadri dipinti, dei quadri elettrici, dei quadri svedesi. E delle camicie a quadri, ovviamente.

Della gente che guarda dei quadri. E a me piace guardare della gente che guarda dei quadri.

Brutte Strisce #13

Il quadro è stato gentilmente prestato dal Museo Marmottan (museo delle marmotte) di Parigi ma non glielo restituiremo più.


Come sempre, cliccando sulla striscia essa sarà leggibile nelle dimensioni originali. Ma questo lo sapete già, ma per contratto debbo dirlo almeno una volta al mese.


striscia_13

Bisogna sempre seguire le prescrizioni mediche e non far da sé assumendo farmaci a caso senza neanche un colloquio!

Non è che quel quadro sia diventato sottile perché è di-Magritte

Le persone che frequento in Terra Natìa sono in genere mie coetanee o più giovani: con una statistica a spanne direi che l’età media delle mie conoscenze sia intorno ai 27-28 anni.
Questo potrebbe essere indice di un mio ritardo nell’uscita dai favolosi anni venti: così, per non sentirmi in difetto rispetto all’ordine naturale delle cose, sono uscito con un gruppo di Over 30, cui sono stato introdotto, tutti ammogliati o in-procinto-di. Sicuro che costoro, da buoni adulti, potessero farmi da mentori per il mio ingresso nel mondo della adulteria.

Non ho considerato che, nelle serate in cui son da soli, liberi dai ceppi familiari, gli Over 30 ammogliati o in-procinto-di regrediscono a un tardo adolescenzialismo*, che è più o meno l’epoca in cui andavano in giro a “castigare” (cit.) il resto d’Europa.


Quindi credo di dover ringraziare costoro quando chiedo un accendino perché il mio è scarico e vengo guardato con l’occhiata da “Ah, italiano, certo, certo, accendino, vuole scopare”¹.


¹ Ho cominciato quindi a chiedere di scopare per avere un accendino.


*E alcuni sembrano veramente molto tardi, di mente².


² Sono molto teneri, comunque. Così come degli adolescenti che promettono alla madre di non far tardi, loro controllano spesso l’orologio perché hanno promesso alle compagne di rientrare in orario consono e di molestare soltanto verbalmente le minorenni.


Ho dovuto rinvigorire le mie skills di intellettualismo, messe a dura prova dagli over-adolescenti, passando poi il pomeriggio seguente al Ludwig, il museo di arte contemporanea.

Come molte persone che si intrattengono con quest’arte, non capisco niente. Una volta al MADRE (Museo d’arte contemporanea Donnaregina di Napoli), anni fa, mi fermai a contemplare un estintore poggiato in un angolo finché non mi dissero “Quello è un estintore”. Al che risposi: “Questo è ciò che credi tu. Questo non è un estintore”. Adesso quell’estintore è al Guggenheim grazie alla mia intuizione. Se non ci credete, quando passate al Guggenheim cercate bene e vedrete un estintore.

Il Ludwig è un posto bellissimo. La struttura è essa stessa un’opera d’arte, a mio avviso, e merita una visita solo per questo.

Si sviluppa su tre piani ed essendo io avvezzo ad atti dadaisti ho ovviamente cominciato la visita dal 2°, per poi andare al 3° e poi scendere al 1°.

La mia scelta sulla sequenza della visita non è stata errata: il primo piano è deserto e non frequentato, perché ospitava soltanto un’esibizione di stampe di autori ungheresi.

Ho ritenuto opportuno non andarmene via subito da quel piano, però, per rispetto di coloro che avevano prodotto tali stampe. E perché avevo pagato un biglietto che andava consumato sino in fondo.

Uno dei sorveglianti presenti al primo piano ha preso a seguirmi.
Odio i sorveglianti nei musei che ti pedinano, ma ne esistono tipologie diverse. Ci sono quelli discreti, quelli che ti osservano a distanza, quelli che fanno finta di camminare in modo casuale ma in realtà ti stanno seguendo ma lo mascherano con un’espressione da “Oh! Che combinazione, ci incrociamo di nuovo”.

Costui, invece, paranoico e inospitale come credo questo popolo in fondo intimamente sia, mi pedinava. Ovunque andassi percepivo il tap-tap delle sue scarpe lucide sul parquet.

Inizialmente non credevo mi stesse seguendo, così ho fatto delle prove, o meglio, delle finte come il portiere quando deve parare un calcio di rigore: finge di essere propenso a gettarsi da un lato per indurre il rigorista a tirare dall’altro, poi all’ultimo momento cambia direzione.

Dopo un paio di esperimenti ho capito che non abboccava alle mie finte e continuava a seguirmi.

Allora ho iniziato ad accelerare il passo. Lui ha fatto lo stesso.

Ho deciso quindi, svoltato l’angolo, di approfittare del lasso di tempo in cui non ero visibile ai suoi occhi per correre lungo la stanza contigua e svoltare di nuovo nella stanza precedente dall’altro ingresso per arrivargli alle spalle. Avrei voluto vedere lo stupore nei suoi occhi quando, una volta svoltato nella stanza accanto, non mi ha trovato!

Abbiamo continuato così a rincorrerci.

Adesso scrivo mentre sono ancora intento a scappare nel museo: sono diventato un’installazione contemporanea, performance dinamico-estemporanea della corrente dei correnti.

Non è che il fotografo fosse atletico solo perché era scattante

Il RailJet da Vienna a Graz percorre il tratto della storica linea del Semmering. Un percorso di montagna tra tunnel e vallate che d’estate immagino regali paesaggi impressionanti. Anche in inverno garantisco che fanno la loro figura, tra abeti sempreverdi, alberi spogli e chiazze di neve che insieme creano un patchwork di natura dormiente.

Il treno procede lento ma costante, inerpicandosi per un dislivello non indifferente. La sensazione è che se si fermasse scivolerebbe all’indietro come un masso di Sisifo, ma non è mai successo o non starei qui a scriverlo.


Il percorso della linea ferroviaria. Fonte: Wikipedia

Costruita tra il 1848 e il 1854, la linea del Semmering è tra le prime ferrovie di montagna mai costruite (forse la prima in assoluto) in Europa: un’opera di ingegneria notevole, considerando il dislivello, le curve, le gallerie (ce ne è una di 1,5 km) e quelle che erano le possibilità tecniche dell’epoca. Ovviamente tutto ciò ha un costo e, in termini di vite umane, fu una vera strage (circa 700 operai persero la vita durante i lavori).

Fonte: linkiesta.it


Il progettista fu Karl Ritter von Ghega, in italiano Carlo Ghega, nato a Venezia. Considerando che all’epoca la Serenissima era sotto dominio asburgico suppongo che però debba essere definito Karl.

Alla stazione di Semmering c’è un monumento in suo onore e, approfittando del treno fermo con la porta aperta, stavo per scattargli una foto.

Poi mi è sorto un dubbio: me ne importava realmente qualcosa di Karl Ritter von Ghega, seppur col massimo rispetto per la sua inventiva? Fino a prima di salire sul treno non sapevo chi fosse e, anche una volta saputo, al di là del sapere aneddotico da sciorinare agli amici per annoiarli, non mi sentivo interessato all’argomento.

Essendo quindi No la risposta, il motivo per cui scattare una foto cessava di esistere.
Sono tornato quindi a sedermi per contemplare la Stiriana che avevo seduta di fronte, una ragazza biondissima e dagli occhi chiari ma arrossati, non ho capito se per pianto o per un raffreddore. Le nostre brevi conversazioni non erano entrate in un’intimità tale da poterle chiedere ragguagli in merito. E credo poi fosse rimasta disgustata dalla mia merenda, una megabaguette al prosciutto e mozzarella che ho divorato con compiaciuta voluttà, tal che lei nel frattempo aveva la testa girata di 90° verso il finestrino come a volersi appiattire contro.


Ma forse era una mia impressione dovuta alla mia sindrome dell’effetto riflettore, secondo la quale tutti stanno a pensare a ciò che faccio mentre in realtà non gliene importa nulla. Probabilmente stava a pensare ai cacchi suoi come qualsiasi essere umano in un treno.


L’episodio del Karl Ghega mi ha fatto riflettere sull’ossessione per l’immagine che abbiamo ormai nella nostra epoca. Una sindrome che decontestualizza – o forse dovrei dire sradica, per la sua aggressività – l’oggetto dell’immagine. L’immagine esiste come un concetto astratto, che vive e si replica perché la propria esistenza viene perpetuata da chi fotografa.

Mi fa tornare in mente la storia del “fienile più fotografato d’America” descritta in Rumore Bianco di Don DeLillo.


Diversi giorni dopo Murray mi chiese se sapevo qualcosa di un’attrazione turistica nota come il fienile più fotografato d’America. Guidammo per ventidue miglia nella campagna intorno a Farmington. C’erano prati e alberi di melo. Recinzioni bianche si srotolavano lungo i campi. Ben presto apparvero le prime insegne. IL FIENILE PIU’ FOTOGRAFATO D’AMERICA. Ne contammo cinque prima di arrivare sul posto… Camminammo per un sentierino fino alla collinetta che serviva ad ottenere una vista migliore. Tutti avevano macchine fotografiche; c’era qualcuno con treppiede, lenti speciali, filtri. Un uomo dentro un baracchino vendeva cartoline e diapositive del fienile, fotografato proprio da lì. Ci mettemmo vicino a un boschetto e guardammo i fotografi. Murray mantenne un silenzio prolungato, ogni tanto scribacchiava qualcosa su un taccuino. Alla fine disse: “Nessuno vede il fienile”. Seguì un lungo silenzio. “Una volta che hai visto le insegne per il fienile, diventa impossibile vedere il fienile”. Si ammutolì di nuovo. Persone con macchine fotografiche scendevano dalla collinetta, subito rimpiazzate da altri. “Non siamo qui per catturare un’immagine. Siamo qui per mantenerne una. Lo capisci, Jack? E’ un’accumulazione di energie senza nome”. Ci fu un altro lungo silenzio. L’uomo nel baracchino vendeva cartoline e diapositive. “Essere qui è una specie di resa spirituale. Vediamo solo ciò che vedono gli altri. Le migliaia che sono state qui nel passato, coloro che verranno in futuro. Abbiamo accettato di essere parte di una percezione collettiva. Questo letteralmente colora la nostra visione. In un certo senso è un’esperienza religiosa, come ogni turismo”. Ne derivò un altro silenzio. “Fanno fotografie del fare fotografie”, disse.


Una cosa simile avviene nei musei di tutto il mondo.
Al Louvre la gente fa la fila per raggiungere il posto davanti alla Gioconda, fare la foto e poi scappare via perché c’è altra gente dietro che dovrà far lo stesso e via così sino alla chiusura quando i sorveglianti cominceranno a seguirti incalzanti per spingerti verso l’uscita come si fa con le galline per farle rientrare nel pollaio.

Anche io all’epoca ammetto di aver fatto la foto alla Monna Lisa, rischiando anche di causare un incidente perché nella calca stavo per rotolare per terra oltre il cordone di sicurezza e non so le guardie ipocondriache appostate lì come l’avrebbero presa.


Per la cronaca la foto ovviamente venne una vera merda, come credo vengano male a tutti per la luce e la distanza. Questo dev’essere un complotto dell’ente che gestisce il museo per vendere più cartoline o stampe raffiguranti la signora.


La Gioconda è l’esempio perfetto per il discorso: è fotografata perché è famosa ma è famosa perché è fotografata. Beninteso, la sua fama è molto probabilmente precedente all’invenzione della fotografia ed è stata accresciuta da imitazioni, furti, reinterpretazioni artistiche e così via, ma oggigiorno lo scopo dell’esistenza della Gioconda nel Louvre è quello di far da piatto principale della mangiatoia dei maiali di consumo dell’immagine.

Questo rituale della tripla F (fila-foto-fuga) svuota l’arte di qualsiasi significato, a mio avviso.

Chiariamo, ognuno l’arte la vive come gli pare. In contemplazione, in adorazione, in riflessione. E io parlo come un profano per il quale Arte è spesso traducibile con Opera bella/Opera meno bella/Opera che non comprendo/Opera che non mi piace.

Ogni qualvolta viene replicato il rituale della cattura dell’immagine come a un safari, l’oggetto, per tornare all’esempio di DeLillo, cessa di essere “un fienile” e diventa “l’immagine di un fienile”.

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Questa non è una lanterna (semicit.).

Io non sono bravo a far foto. Ne faccio lo stesso e mi piace catturare immagini di cose che in primo luogo hanno catturato me. Come può essere questa lanterna in vero finto stile d’antan nel Castello di Eggenberg.

Sempre a Graz ho fatto una foto a una casa che mi piaceva molto. Era una casa normale, non un reperto o una meta di pellegrinaggio turistico.
Dimora caratteristica, esterno colorato e decorato da ghirigori fantasia, finestre in legno, un balconcino, anch’esso in legno, ad angolo nelle mura incassato nella struttura portante.


Doveva essere il famoso balconcino a reggiseno.


Stavo scattando una foto quando un tizio che passava ho notato mi osservava, finché non è entrato in quella stessa casa continuando a tenermi d’occhio. Mi sono allontanato vergognandomi, senza voltarmi. La foto per la fretta è anche venuta male, per giunta.

Ci sono cose poi che non si possono immortalare.

Come l’indifferenza della proprietaria di una caffetteria in cui ho fatto colazione.

All’atto di pagare, mi ha chiesto se avessi 10 centesimi per avere il resto tondo. Sicuro di me ho aperto il tintinnante portamonete, da dove ne sono però usciti soltanto spiccioli ungheresi.


Monete che non riuscirò mai a spendere. Contando che 1 euro = circa 310 fiorini, pensate quindi cosa mai ci si possa fare con manciate di 5 fiorini.


Alla fine sono riuscito a mettere insieme 10 centesimi di euro composti da 5+2+1+1+1. La donna è sembrata contrariata. Quando sono uscito le sono passato accanto salutando e lei ha tirato dritto senza guardarmi in faccia né rispondermi. Forse in Austria non piacciono le persone dai modi spiccioli.

Ecco, io avrei voluto immortalare la sua espressione statica e indifferente mentre le passavo accanto. E lanciarle una maledizione: da oggi sarai l’immagine di un fienile.

Scavi nel passato

Attraversando Piazza Municipio mi sono fermato a osservare i lavori del cantiere della metropolitana. Come un anziano.

E all’improvviso ho avuto un flashback.

Da bambino, avrò avuto 5-6 anni, mio nonno mi portava spesso a fare una passeggiata. Ci fermavamo poi a guardare i lavori in un cantiere vicino casa. Mi piaceva osservare le scavatrici in azione. O meglio, le paperelle, come le chiamavo. In effetti sembrano un po’ delle papere. Tutte gialle, con un becco all’estremità.

Ho sempre avuto una passione per le costruzioni. O per le distruzioni.
Impazzivo per il Lego Technic e credo di essere stato uno degli ultimi della mia generazione a giocare col Meccano. Pare che non lo conosca nessuno, quando chiedo in giro.

Ma più che costruire mi piaceva smontare. Credo di aver avuto la più alta percentuale di giocattoli smontati e, ovviamente, non rimontati più. Volevo capire come funzionassero.

Il più delle volte, com’è ovvio, rimanevo deluso. Tu ti aspetti chissà quali meraviglie tecniche, e invece all’interno delle cose spesso non c’è molto di affascinante. Due viti, qualche pezzetto di plastica e nient’altro. Gusci vuoti.

È un po’ come a volte accade con le persone. Un soggetto che desta l’interesse degli altri, una volta che lo si è aperto e osservato nei suoi meccanismi, può rivelarsi deludente. “È tutto qui?”, ci si chiede.

Non è sempre vero, va detto.

Mi è tornata in mente questa frase tratta da un libro di Banana Yoshimoto, Ricordi di un vicolo cieco:
“Pensare che una persona, solo perché sta sempre in casa e non si muove molto, o perché fa una vita regolare e a vederla sembra tranquilla, sia una persona semplice, chiusa e limitata anche internamente, riflette una mentalità incredibilmente meschina. Però la maggior parte delle persone ragiona così. Anche se il cuore ha la potenzialità di espandersi in qualunque direzione. Ci sono talmente tanti che non provano neanche a immaginare quale tesoro giaccia addormentato dentro le persone”.

Allora a volte val sempre la pena mettersi a scavare.

Qui da noi fanno un buco per un treno e ne escon fuori navi romane, per dire.

La zona dovrebbe diventare una sorta di museo a cielo aperto (quando prima o poi la completeranno).