Non è che il proprietario dell’azienda di fazzoletti sia proprio in grado di controllare il Tempo

Tendo spesso a fare il quadro della situazione. Ma non so dipingere. Ho investito la mia esistenza, dando forse in pegno anche eventuali successive vite, a cercare di acquisire quante più informazioni possibili per ottenere il quadro ogni volta. Avere il controllo.

Una cosa impossibile, com’è intuibile: esistono le variabili, gli imprevisti. Esistono le persone: non si può sapere cosa pensino. Questa è una delle mie più grandi fonti di disperazione. Il fatto di non sapere cosa pensi qualcuno di me o di qualcosa che riguarda me mi mette agitazione, ansia, nervosismo e tante altre cose su cui mi fermo qui perché non ho il dizionario sinonimi sottomano.

Sono conscio sia un bene non essere a conoscenza dei pensieri altrui. Sono anche convinto che però farebbe comodo, in certi casi. Quantomeno per non avere rimpianti.

Non ho mai confessato i miei ‘peccato’. Peccato sia andata male. Peccato che non abbia vinto. Peccato non ce l’abbia fatta.

Ho una lista di ‘peccato’ che non emenderò mai: li porto con me, esistono come se stessero accadendo in questo momento. E forse è così. Siamo abituati a concepire il tempo come unidirezionale. Perché mai? Perché vediamo l’acqua da un fiume andare al mare e non viceversa? Perché gli orologi vanno solo in un senso e non al contrario?Potrebbe essere soltanto la nostra percezione. Magari il tempo non esiste: passato, presente e futuro vivono nello stesso istante, uno dentro l’altro attorcigliati senza inizio né fine come in un disegno di Escher.

Nella mia mente, almeno, è così.

Ho immagini di me seduto all’ultimo banco, sulla sinistra accanto la finestra, in prima elementare, mentre sono impegnato nel mio primo colloquio di lavoro con una che vuole mandarmi a suonare i citofoni per vendere polizze sulla vita, andando in giro sulla mountain bike nuova del mio 13esimo compleanno, bicicletta che ho sfasciato soltanto 6 mesi dopo quel compleanno venendo investito da una Panda rossa, ma era colpa mia, ero troppo distratto dall’aver dato il mio ultimo esame all’università, che mi aveva dato un senso di euforia tale che ho chiesto cosa ci fosse mai in quella canna e mi hanno risposto sempre lo stesso, la differenza è che in quel momento a 17 anni avevo capito come aspirare.

Tutti questi momenti insistono e sussistono insieme, e, seppure persone, cose, edifici, in realtà non esistono (perché non ci sono più o perché sono cambiate nel frattempo), se io focalizzo l’attenzione nel mio ricordo, le vedo animarsi e/o ricostruirsi.

A volte mi sembra di sentire ancora la voce di mia nonna. È un’allucinazione uditiva. Una pareidolia: era qualcuno che parlava e il suono mi era sembrato somigliante a. Così come quando, accovacciato per muovere un cavo dietro al PC, con la coda dell’occhio sinistro mi sembra di vedere la gatta che dalla cuccia si alza per venire a poggiare le zampe anteriori sul mio ginocchio. Questa non è manco un’allucinazione perché più che altro è un’aspettativa di ricordo. Poi mi dico «Ah già» e svanisce.

O forse è la mia testa che sta svanendo.

Non è che metti la camicia di forza a un burattino perché è un pu-pazzo da legare

Le grandi domande vengono sempre in momenti in cui la mente è libera di vagare. Mi succede mentre lavo i piatti, mentre mi trovo sotto la doccia, mentre guido in auto verso casa lungo la strada che avrò percorso migliaia di volte.

Oggi durante una lunga minzione, stanco di fissare le piastrelle e ancor più di contemplare l’organo deputato all’atto – già contemplato forse troppo durante l’adolescenza costandomi qualche diottria – mi sono come assentato e lì mi è venuta questa curiosità: ma il pupazzo Uan, che fine avrà fatto?

Avevo già sentito parlare del suo destino ma non ricordavo la storia. Facendo qualche ricerca, ho scoperto che Uan, insieme ai suoi colleghi Four (un orso col naso rosso che io chiamavo sempre Ciao invece, visto che era presente nella trasmissione Ciao-Ciao) e Five (un drago giallo di cui invece non ho memoria), è sparito più di 10 anni or sono.

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I fatti. Giunta l’ora di andare in pensione, a inizio anni 2000 i tre pupazzi sono finiti ospiti della Scuola di Teatro di Milano Paolo Grassi. Me li immagino lì a raccontare ad annoiati studenti dei loro trascorsi televisivi e di quando hanno incontrato questo o quel personaggio famoso.

Finché una notte del 2005 il fattaccio: qualcuno irrompe nella scuola e se li porta via.

La storia, però, secondo me non finisce qui: io sono convinto che i tre abbiano semplicemente inscenato il proprio rapimento per uscire di scena e andarsi a godere una vecchiaia tranquilla su qualche isola della Grecia dove non li avrebbero trovati. In fondo sapete quante cazzo di isolacce deve averci questa merda di una Grecia? (cit.).

Chi può dar loro torto? Pensate a essere costretti a lavorare con Paolo Bonolis. E con qualcuno che ti infila una mano su per il sedere tutto il tempo, non potendo denunciare per il rischio di perdere il posto di lavoro. Facile dire: Perché non hanno detto nulla?. Sapete quanto è difficile per un pupazzo peloso rifarsi una vita?

A proposito del subire atti molesti, sabato un’amica mi ha raccontato di alcuni episodi che le son accaduti.

Ha deciso a 35 anni di prendere la patente e, ricevuto il foglio rosa, ha iniziato a far le guide con l’istruttore, un placido signore – così sembrava – over 60.

In auto costui si è rivelato abbastanza monotematico: i suoi discorsi finivano sempre su un solo argomento. Un esempio: Eh i giovani d’oggi non sanno che farci con una donna, magari vedono una bella ragazza e subito è tutto finito, non hanno l’esperienza di un adulto…

Per non parlare di quando commentava qualche passante donna per strada.

Pazienza, la mia amica non ci bada molto a queste cose. A 35 anni di persone che credono di esser simpatiche se ne sono già viste.

Ha iniziato ad accorgersi però di una sua progressiva “invasione fisica” nel corso delle guide: per darle indicazioni ha iniziato a mettere la mano sulla spalla o sul braccio. Va be’, pazienza.

Poi un paio di volte per dirle di guardare bene lo specchietto le ha girato il mento con la mano. Va be’, pazienza.

Poi per dirle di fare attenzione ha iniziato a metterle una mano sulla coscia. Va be’, pazienza.

Poi per aiutarla a sterzare ha steso il braccio sfiorando la tetta.

Al secondo sfioramento mammellare “involontario” la mia amica gli ha allontanato la mano dicendo che la distraeva.

Io ad ascoltare il racconto ho detto che per me queste son molestie.

Lei concordava con me, ha detto che il giorno dopo quest’ultimo episodio si è sentita malissimo, sia per non aver realizzato subito dei suoi atteggiamenti sia per non aver reagito prima. Le ho chiesto come mai non l’avesse fatto e ha detto che lì per lì era troppo agitata per la guida e magari poi si trattava solo di una sua impressione.

Io penso che se il giorno dopo uno ci sta male non può essere stata soltanto un’impressione. Così come un atteggiamento molesto non deve per forza implicare qualcosa di palese e violento. Molesta è qualunque intromissione – non autorizzata – nella propria sfera personale, mentale e/o fisica.

Ho consigliato alla mia amica, la prossima volta, di rompere con un pugno le “sfere personali” dell’istruttore, nel caso si ripetesse la storia.

 

Non è che chi prepara conserve stia sempre a pensare al passato

Ho incontrato una persona che non vedevo da anni e che ricordavo come persona brutta e antipatica. La bruttezza non la intendo riferita all’aspetto esteriore ma proprio alla personalità.

Si sa che la mente può portare su percorsi fuorvianti e adattare anche i ricordi, facendo apparire più bello ciò che così bello non era e più brutto ciò che così brutto non era. Essendo io uno che plasma di continuo il proprio passato come l’esperto in materia mi ha insegnato*, mi capita spesso di interrogarmi su quanto le mie convinzioni odierne su eventi e persone di tempi trascorsi siano aderenti alla realtà.


* E se non sapete chi, peste!


Una delle specialiste più note e riconosciute al mondo, storia vera, è la Dottoressa Elizabeth F. Loftus, psicologa esperta nella memoria e sui meccanismi che la regolano. I suoi studi hanno dimostrato che eventi, idee, condizionamenti e qualsiasi altro intervento successivo alla data del nostro ricordo possono modificare quest’ultimo convincendoci che siano vere cose che non lo sono affatto.

Orbene, i miei ricordi di un tempo possono quindi essere fallaci, ma la mia capacità di plasmare il passato ha fatto sì che oggi questa persona si presentasse brutta e antipatica così come io credevo di ricordare.

Vorrei quindi lanciare una speranza a tutti coloro che hanno dubbi e ripensamenti sui propri trascorsi: impegnatevi a fondo perché potete renderli anche peggio di come ricordavate, in barba a tutti i tuttologi fessoscopici di questo mondo.

 

Non è che io ammiri così tanto il tuo coraggio da fare sogni eroici su di te

Questa notte ho fatto un sogno erotico con protagonista CR.

Ci trovavamo in un ambiente dai contorni sfumati, un corridoio deserto dai colori legno pastello mangiucchiato – da piccolo amavo assaggiare quelli a cera – illuminato da luci alogene tonde, di quelle che sembrano anche costose: infatti erano da incasso.

C’era un bancone appoggiato alla parete, stile reception di albergo due stelle.
Dietro di esso, noi due ci apprestavamo a consumar il piacer carnale (ma era disponibile anche quello vegan).

La prima stranezza era che i vestiti semplicemente le svanivano addosso. Bastava toccarla e si ritrovava denudata.


Come un vecchio spot Wampum che, tra l’altro, non ricordavo fosse così pornografico. E dire che andava in onda in fascia protetta (anche se questo era più pro-culo).


La seconda, era che il suo clitoride si spostava. A un certo punto le era finito sul petto.

La terza, quella più clamorosa (addirittura più di un clitoride itinerante), era che all’improvviso è apparso un indiano – indiano d’India – nudo. Era visibile soltanto dal busto in su, cioè io sapevo che fosse interamente nudo, ma lo vedevo soltanto a mezzo busto.

Costui, quando mi sono girato a guardarlo, ha esclamato:
Non ti preoccupare, faccio fattura.

E poi si è avvicinato a intrattenere la CR. Io me ne sono andato, con una sensazione tra il perplesso e il convinto che fosse tutto nella norma.
Lì il sogno è finito.

Questa mattina sono andato in ufficio con un po’ di imbarazzo addosso. È difficile guardare una persona con cui hai avuto una relazione, seppur onirica e surreale quanto un video dei Radiohead, la notte precedente.

Lei ha poi contribuito ad accrescere il mio disagio.

Dopo una pausa sigaretta, è tornata con in mano un bicchiere XL di Coca Cola da una nota catena fast food. Non quella col pagliaccio, quella monarchica.

Sì però è light!, ha esclamato in risposta al mio sguardo inquisitorio.


Ho avversione per alcune categorie di prodotti industriali di largo consumo – come bibite, snack – che non apportano alcun beneficio all’organismo.


Detto da un fumatore di sigari e abituale consumatore di alcolici può sembrar fuori luogo e vagamente ipocrita e, in effetti, lo è.


Sappi che sono offeso, ho detto. Lunedì, quando per pranzo mi sono portato i cannelloni che mi ero cucinato domenica e ti ho chiesto di assaggiare, hai detto “No, sono a dieta“. E ora ti bevi mezzo litro di Coca Cola.
Ma no, aspetta. Ti spiego. Non è che non lo voglio il tuo cannellone!
Eh?
È che se poi lo provo, voglio prenderlo tutto!
Ah. Buongustaia…
Lo so, sono golosona. Se voglio una cosa non mi trattengo.

Dato che Malizia è sotto le ascelle di chi se lo spruzza, ho pensato di cambiar discorso e ho disperatamente cercato qualche argomento che non aprisse nella mia mente finestre su doppi e tripli sensi.

Ho preso sottomano un giornalino pubblicitario di una catena di abbigliamento, sul quale avevo notato in vendita una camicia a quadri.

Allora, ieri mi dicevi che nel week end fanno gli sconti?
Sì, venerdì e sabato. Dammi qua.
E sfoglia il cartaceo. Poi fa, mostrandomi una pagina su cui troneggiava una modella-trampoliera
Guarda questo vestito, se lo può mettere solo una che ha un metro e mezzo di gamba. E che non ha tette, perché qua sul davanti sennò il vestito fa effetto tenda da circo.
Eh già…
Ad esempio mia sorella non potrebbe mai. Pensa che l’altro giorno ho visto un video che mostrava tutti i problemi che hanno le ragazze con le tette grandi. Mia sorella li ha vissuti tutti!
Ah…Intanto mi colava il sudore dalla fronte.
Anni fa volle imparare a suonare la chitarra. Quando la imbracciava non sapeva come metterla perché le tette la intralciavano!
Eh bel casino…
E poi l’Ingrugnito mi sfotte sempre dicendo che gli è capitata la sorella sbagliata, perché ho poco seno. E pigliati mia sorella se vuoi una tettona, allora!
– …


Tale sorella, che ovviamente non è solo tette e distintivo, fu da me ribattezzata a suo tempo LSD, La Sorella Demoniaca, perché le due sorelle accanto sembrano  diavolo e acqua santa.
Dal viso, tondo e fumettoso, ricorda Lamù, cosa che si ricollega anch’essa al soprannome, in quanto la popolare aliena del manga e dell’anime è di razza Oni, che nel folklore giapponese sono appunto creature demoniache.


Dopo, è suonato il telefono.

Buongiorno, sono Tizio: vi ho mandato una mail con la mia fattura, l’avete ricevuta?


Ok non era indiano, ma sarebbe stato divertente (o inquietante) se lo fosse stato.


Visto che sono stati citati, il singolo appena uscito:


 

Non è che la mafia dei fiori sia Rosa Nostra

Le andai incontro con una rosa dietro la schiena, celandola come le migliori intenzioni che spesso non vengono mostrate.
In realtà la rosa non era nascosta molto bene. Credo il gambo fosse troppo lungo e lei facesse capolino impertinente dalla mia testa, come le idee malsane nella mente che spesso sono identificabili dall’esterno.

Era un omaggio per il suo onomastico.
La rosa, intendo, non la mia testa. Anche se qualcuna oggi forse preferirebbe quest’ultima, servita con una mela nella bocca.

Non regalo rose, di solito.
Credo però nel fatto che ogni tanto una rosa andrebbe regalata.
Tutti pensano a chi riceve le rose, come se l’azione risiedesse sono nell’atto di ricevere. Dovremmo soffermarci di più invece anche sull’atto di chi la regala la rosa invece che sulla sensazione del destinatario.
Forse il mondo sarebbe migliore se pensassimo di più all’energia potenziale del donare un qualcosa di simbolico.

Mentre mi avvicinavo a lei, un giovane passante che mi vide porgere questa rosa a una ragazza disse qualcosa di canzonatorio.

Da quand’è che le rose non fan più parte delle canzoni ma sono canzonabili? Avrei voluto fermarlo e chiedergli: “Scusa, che problema c’è? Ho le mie rose, oggi, ti disturba?”.

Mi è tornato in mente quest’episodio l’altro giorno, quando le ho inviato un sms di auguri per l’onomastico. Ho questi flashback di tanto in tanto, come se fossero onde di ritorno di un brutto trip causato da una torta all’hashish. Non ho idea di come sia una simile torta, me lo ha raccontato mio cugino che prova cose e non più rose.

Mio cugino si pungeva da piccolo con le rose, quando doveva recuperare il pallone finito nei cespugli. Mio cugino si ciucciava il sangue dalla ferita e aspettava che il taglio si cicatrizzasse all’aria.

Mio cugino poi forse è cresciuto, io invece mi ciuccio ancora le dita quando mi ferisco e a volte non so se ciucciare il dito sia più un atto infantile per provare conforto o semplicemente mi piaccia il mio sangue, nel qual caso spero di non diventare un vampiro perché mi cannibalizzerei.

Non regalo più rose, oggi.
Eppur mi punge vaghezza di esse e me ne sento ferito.

Il dizionario delle cose perdute – L’Atari


In questa pagina c’è il dizionario in costruzione. Se volete suggerire elementi nostalgici o, anzi, se volete scrivere voi stessi un articolo su una cosa “perduta” per arricchire il dizionario, fatevi avanti (col corpo) e indietro (con la mente)!


L’Atari ha tolto la verginità videoludica a molti futuri videogiocatori. Io non ho fatto eccezione.

Una precisazione è doverosa: io, come molti altri, non ho avuto un vero Atari ma uno dei tanti cloni dell’Atari 2600 messi in commercio a partire dalla metà degli anni ’80. Il mio, oltre a funzionare con le cartucce originali Atari, aveva una ROM all’interno con preinstallati un centinaio di titoli.

Il suo aspetto era quello della foto qui sotto:

Playstation…I am your father!

Sembra uscito da Guerre Stellari ep. IV. La linea squadrata, marziale e total black di questo scatolone di plastica deve essere stata progettata da Darth Vader.

Lo scatolone era completamente vuoto: c’era all’interno solo questo circuito stampato largo più o meno quanto la striscia grigia, mentre tutto il resto dell’armatura non conteneva nulla.

Il joystick era legnoso e anchilosato e dalla scarsa longevità: dopo un po’ i contatti interni (delle lamine di alluminio che a seconda di dove veniva spostata la cloche facevano contatto inviando il segnale alla CPU) si danneggiarono irrimediabilmente e dopo un primo tentativo da parte di mio padre di ripristinarli con il saldatore, si decise di sostituirli con altri joystick comprati in un negozio di elettronica che da anni ha chiuso i battenti, sopraffatto dalla grande distribuzione organizzata.

Ricordo ancora quando acquistai il clone una 20ina di anni fa. L’ipermercato dove i miei genitori andavano a fare la consueta spesa del sabato un giorno all’ingresso espose questa montagna di console in vendita a 34900 lire. La gente ne faceva incetta.


Oggi quell’ipermercato non esiste più. All’epoca faceva parte di una catena italiana, poi fu rilevato da Carrefour. Quando il colosso francese aprì un nuovo punto vendita in un nuovo, enorme, centro commerciale costruito poco lontano negli anni ‘2000, cedette l’ipermercato, che passò al gruppo SPAR. La crisi si abbatté sull’attività, la direzione decise di chiudere, licenziò lavoratori e mise in cassa integrazione gli altri. Attualmente è ancora chiuso. Di una vasta area che negli anni ’90 comprendeva l’ipermercato, una galleria commerciale, un grande punto vendita Brico e un Mercatone Uno, oggi rimangono solo strutture abbandonate che il tempo sta consumando.


Io e mio padre restammo lì a guardare chiedendoci se fosse possibile che costasse realmente 34900 lire e, dopo essercene accertati, lo prendemmo.

Il principio di funzionamento era molto semplice: lo scatolone si collegava alla tv tramite il cavo dell’antenna e uno switcher (lo scatolino antenna<->game nella foto) avrebbe bypassato il segnale. Era però necessario trovare il canale sul quale il segnale della console si sarebbe agganciato e questa cosa, all’inizio, fu fonte di molte invocazioni al dio Anubi da parte di mio padre.

I 128 giochi precaricati non erano selezionabili autonomamente: bisognava far partire la ricerca sequenziale (spostando una delle levette sulla console) che faceva scorrere tutti i giochi, che in genere rimanevano sullo schermo un paio di secondi. Dovevi essere lesto a bloccare la ricerca nel momento in cui compariva il gioco che cercavi. Se sbagliavi il tempismo, dovevi ricominciare da capo. Era un gioco nel gioco: delle volte ho dovuto farlo per quattro volte consecutive prima di riuscire a bloccare la leva su ciò che volevo.

Le cartucce le compravo al prezzo di 9000 lire da un Tutto a 1000 lire sul corso principale della mia città. Era uno dei primi negozi di questo tipo che vidi comparire e quando aprì vi entrammo curiosi di scoprire se tutto fosse realmente in vendita a 1000 lire. La risposta era, ovviamente: NO.

Non so per quale mistero quel negozio avesse delle cartucce originali Atari. Non erano molte, e le teneva in un cestone di vimini come quello che si usa a Natale per i pacchi dono. Ogni 3-4 mesi compariva qualche titolo nuovo al suo interno. Il fatto che rimanessero lì nel cestone i titoli che scartavo mi lasciava pensare che io fossi l’unico acquirente in tutta la città.


È inutile precisare che anche quel negozio non esiste più.


La vita del mio clone si spense per ben due volte: avevo un amico distratto (lo stesso che giocava con me a Subbuteo), che inciampava sempre nel cavo di alimentazione. Un giorno lo strattone fu talmente forte che il jack dell’alimentatore staccò un piccolo tondino di alluminio dall’ingresso della console. Non essendoci più contatto elettrico, non funzionò più.

Padre riuscì a sistemarla con un lavoro certosino di nastro adesivo. Nonostante altri inciampi, da parte dello stesso amico e anche di altri, resistette lo stesso. Molti amici, nonostante fossero in possesso di computer performanti (per l’epoca) e in grado di supportare videogiochi ben più evoluti (quelli dell’Atari erano vecchi di 10-15 anni), subivano il fascino di quello scatolone nero.

Mandai in pensione la console quando la sostituii con un clone del Nintendo 8 bit.

Ironia della sorte, negli anni ’80 era stata proprio la Nintendo la principale avversaria di Atari, con vari scontri d’affari, battaglie di mercato, tentativi di collaborazione non portati a termine che alla fine videro sempre soccombere la Atari nei confronti del colosso nipponico. Dopo varie vicissitudini, acquisizioni da parte di altre società, ridimensionamenti e ripetute crisi, nel 2013 la divisione statunitense Atari ha dichiarato ufficialmente bancarotta.

La leggenda della sepoltura nel deserto – La Atari si è resa protagonista di quella che per molti anni è stata ritenuta una leggenda metropolitana: la sepoltura di migliaia e migliaia di cartucce di giochi invenduti nel deserto del New Mexico.

Tra i giochi sepolti, il quantitativo principale era costituito da quello che è stato considerato come il più brutto videogioco mai creato dall’uomo: ET l’extraterrestre (ironico che sia finito occultato proprio nel New Mexico, lo stesso deserto dove si raccontava che fosse precipitato un UFO con degli alieni all’interno), di cui allego un video del gameplay:

Il gioco andava avanti così all’infinito: non succedeva nulla, non si capiva cosa dovesse succedere e non si sapeva come farlo succedere.

Le cartucce invendute o ritirare dal mercato giacevano nei magazzini Atari: dato che ciò per un’azienda comporta un costo, dai vertici ritennero opportuno che la soluzione più economica fosse smaltirle seppellendole in una discarica.

Per anni si è pensato che questa fosse solo una diceria, finché nel 2014 sono state realmente rinvenute le cartucce sepolte:

A differenza di altre cose perdute, i videogiochi di un tempo hanno ancora il loro pubblico di estimatori e il retrogaming, appunto la passione per i giochi old style, è molto popolare su internet. Esistono diversi siti che permettono di giocare online ai vecchi giochi Atari. Archive.org ha messo a disposizione una vasta libreria di titoli.

Non è che se sei nella fase R.E.M. tu non possa ascoltare altri gruppi musicali

Noi come persone siamo la somma delle nostre esperienze.

Ogni tanto, però, qualche sottrazione non farebbe male. Lasciamo perdere le divisioni perché ho sempre qualche problema col resto: ciò che resta dopo un’esperienza non corrisponde mai al risultato atteso.

Atteniamoci all’eliminare qualche tassello, rimuovere qualche vecchia traccia sul nastro della memoria.

Oppure anche cancellare sequenze oniriche notturne che durante il giorno si ripropongono come il sapore dei peperoni.

Durante questa settimana per tre notti di fila ho fatto tre sogni particolari, dal contenuto indiano: con-turbante.

Notte 1: ero con la ex, che per descriverla meglio caratterialmente invito a immaginarla come Monica di Friends.


Qualcuno potrebbe dire: “Ah, Monica! Era simpatica!”.
No, Monica non era simpatica. Era petulante, pignola e competitiva. Una donna odiosa.
Io ero simpaticamente affezionato a Phoebe, perché era fricchettona e svampita.


Nel sogno, stavamo litigando.
Ciò è perfettamente aderente a quella che è stata la realtà durante i mesi passati insieme: immaginate di svegliarvi ogni mattina e volervi fare il segno della croce per prepararvi alla prossima possibile tragedia che potrebbe verificarsi durante la giornata, ma essendo passato troppo tempo dall’ultima volta che vi siete fatti il segno della croce non riuscite a far di meglio che grattarvi il sedere sperando che sia un gesto apotropaico.


Conscio dei miei problemi religiosi forse come donna dovrei cercarmi una Miss-credente.


A un certo punto il litigio si placa: lei mi salta addosso, io le metto le mani dove capita e cominciamo a fare quello che facciamo un po’ tutti e che lasciamo regolamentare a uomini che fanno voto di non farlo perché troppo occupati a comprare attici.

Nel compiere tali atti, nella mia mente – la mente del sogno: ma se il sogno è un prodotto della mente, la mente nel sogno è un prodotto del sogno o della mente che sogna la mente? – pensavo che il tutto fosse profondamente sbagliato: ci stavamo giusto insultando poco prima! Eppure siamo andati avanti senza smettere.

Il rammentare tale sogno mi ha profondamente turbato durante la giornata.

Notte 2: Sogno di tornare a casa e trovare nella stanza da letto dei miei genitori la badante dei miei nonni, quella che è fissata col mio sgnakku e mi tende gli agguati.


Non è una metafora oscena: è appassionata di astrologia e in ucraino “segno” si dice “znak” o qualcosa di simile.


L’unica differenza è che aveva le sembianze di Sharon Stone. Non quella attuale, diciamo versione Basic Instinct.
Com’è come non è si finisce a fare le cose già accennate in precedenza.

Il sogno non mi ha turbato ma mi ha lasciato un interrogativo: perché Sharon Stone?

Notte 3: Sto passeggiando con la ex al quadrato (ex ex). E sto pensando (sempre nella mente del sogno) che sia proprio una fortunata combinazione averla incontrata. “Peccato che sia impegnata”, penso.

Poi ho un’illuminazione: lei crede di essere impegnata, in realtà è single ma non lo sa. Per rispetto, però, non glielo farò notare e aspetterò che lo capisca da sola.

Nel frattempo, camminando camminando arriviamo in un supermercato: perché non entrare? È un magnifico posto dove passare il tempo!

A un certo punto tra uno scaffale di sottoli e sottaciuti (perché non nominati) lei dice qualcosa che suona profondamente acido: io ne rimango scosso, chiedendomi quand’è che fosse diventata così sprezzante. Mi allontano, offeso. Poi ci rifletto su e mi dico che una volta tanto non devo rovinare tutto, smettendola di essere permaloso.

Questo sogno mi ha turbato perché non so cosa sia successo dopo.

E anche questo post mi turba perché non so come concluderlo.

Voi non vi sentite mai turbati dai sogni, ammesso che li ricordiate al mattino e non li dimentichiate perché spesso appena suona la sveglia saltate giù dal letto come soldati e ciò equivale a un azzeramento della memoria da quel momento in poi?

Non è che un rugbista possa girovagare senza meta

È il mio ultimo mese di permanenza a Roma.
Per adesso.

Un po’ mi mancherà questa casa che tanti spunti per aneddoti interessanti mi ha fornito. Ultimamente però non ho altre curiosità da raccontare. A parte che la cinese ha passato lo scorso week end a Firenze con un “amico”: il fatto che abbia rimorchiato e sia partita per un w/e mi ha sconvolto.

Poi ho capito che si trattava di un altro cinese che va alla scuola di italiano con lei e la cosa mi è sembrata più normale, così come il fatto che in questi mesi il suo italiano sia addirittura peggiorato: se parla solo con connazionali, non fatico a crederlo.

Coinquilino invece in vista della mia partenza mi ha chiesto aiuto nel reperire un altro inquilino, chiedendo se io potessi sondare nel mio ambiente, perché vorrebbe in casa un altro che si occupa di cooperazione.

Una richiesta un po’ strana: è come se uno dicesse “Voglio affittare casa solo a un assicuratore”, oppure “A uno che progetta impianti termoidraulici” e così via.


Gli ho detto che gli avrei fatto sapere, la classica formula evasiva che uso quando in realtà non farò sapere un bel niente.


Perplesso, comunque, sono uscito per una passeggiata. Poco più in là di casa, degli operai stavano ritinteggiando la segnaletica stradale della fermata dell’autobus. La vernice si asciuga in pochi minuti: uno degli operai, per constatare la cosa, con la suola calpestava le strisce. Ho desiderato in quel momento di farlo anche io: l’operaio mi ha rivolto un’occhiataccia come se mi avesse letto nel pensiero e questa cosa mi ha preoccupato perché a volte ho proprio l’impressione che le persone mi leggano nella mente.

Ho girovagato senza meta.

A un certo punto non so perché sono entrato in un outlet non visibile dalla strada, cui si accede scendendo delle scale. Ero convinto di poter fare qualche affare, perché gli affari migliori li ho sempre fatti quando non avevo intenzione di comprare qualcosa.


O forse è una giustificazione per gli acquisti inutili.


Era una boutique per donne. O forse l’abbigliamento maschile era nascosto in un ripostiglio.


Comincia a infastidirmi questa cosa che nei negozi di abbigliamento i vestiti da donna siano all’ingresso e quelli da uomo o in fondo la sala o al piano superiore o, infine, a quello inferiore.


mara-carfagnaUn commesso che somigliava a Domenico Dolce mi ha guardato scrutandomi come fanno i poliziotti all’aeroporto. Una commessa che somigliava a Mara Carfagna – con il medesimo tipo di cranio che sembra si stia rimpicciolendo causando quella inestetica impressione che gli occhi stiano per uscire dalle orbite mentre forse è solo l’abuso di cocaina a renderli così – non mi ha nemmeno guardato.
Sono andato via.

Deciso a dare una seconda possibilità al mio istinto, sono salito su un autobus a caso. Ho assistito con vivo compatimento al tentativo di un paio di turisti tedeschi di obliterare il biglietto, fino a che non mi sono deciso a dirgli che la macchinetta credo fosse andata in tilt.

Sono sceso a Piazza del Popolo e poco più avanti ho trovato un negozio equo-solidale in cui mi sono infilato, per uscirne con paté al peperoncino e un infuso balsamico che non so quando utilizzerò perché le cose balsamiche mi nauseano. Faccio uno sforzo sovraumano per riuscire a sopportare una Halls, quando capita, nonostante la prenda a causa del naso otturato e la gola in fiamme.

Il proprietario equo-solidale mi ha trattenuto mezz’ora a parlare. Nel negozio c’era in diffusione La isla bonita di Madonna. Lui fa: “Qui dentro siamo rimasti agli anni ’80…”. “Vedo”, dico io, ridendo.

Da qui poi è iniziata una conversazione senza né capo né coda che è partita da un’apologia degli anni ’80, culminata con la visione dello spot del primo Macintosh del 1984 che il proprietario ci ha tenuto a farmi vedere su YouTube (lo spot, non il Macintosh), passando poi per lo spot Superga del 1997 con la musica dei Prodigy, attraversando riflessioni sull’arte come forma di comunicazione figlia del proprio tempo, per finire col proprietario che vuole aprire un outlet dove il vero proprietario – secondo lui – deve sentirsi il consumatore. Nel senso che il cliente entra nel negozio e deve sentirsi a proprio agio, si collega con lo smartphone alla rete del negozio e mette in diffusione la musica che vuole; se poi fa pubblicità al negozio sui social network, ottiene il 20% di sconto.


Ha detto anche altre cose sul suo progetto ma non mi dilungo.


Sono andato via contento di una cordiale chiacchierata ma chiedendomi, ancora una volta, perché io, dall’aspetto così taciturno e perennemente sulle mie, ispiri conversazioni agli sconosciuti.


Non è che ti possa bastare un’ascia per accettare il dolore

Come mi vedo

Martedì ho il colloquio con la Serbellons Mazzant Comesfromthesea. È una roba grossa, anche se poi tecnicamente lì dentro sarei rilevante quanto Jar Jar Binks nella seconda (in ordine di produzione)/prima (in ordine cronologico) trilogia di Star Wars.


Se non avete capito il mio esempio da una parte è un bene perché vi posso assicurare che l’idea che uno come George Lucas abbia pensato a un personaggio così ridicolo è difficile da accettare, dall’altra è un male perché vuol dire che non siete cultori di Star Wars e ciò mi spinge a guardarvi con sospetto.


Da sempre (probabilmente già da quando ero nell’utero materno, al pensiero di dover nascere), quando devo affrontare un evento importante (esami/colloqui/appuntamenti) tendo ad attraversare 5 fasi come quelle del dolore, applicate però all’ansia anticipatoria.

1. Sfiducia. La Sindrome di Charlie Brown.

2. Preoccupazione. Questa è la fase ossessivo-compulsiva, in cui la mente prova a pensare-pianificare tutte le cose da sapere/fare per prepararsi all’evento.

3. Ottimismo. A un certo punto, in maniera del tutto improvvisa e immotivata, come se fosse una scarica di endorfine arriva un picco di ottimismo.

4. Terrore. Quando si scarica l’ottimismo, arriva la voglia di fuga. Sarebbe bello se qui ci fosse un errore di vocale, ma purtroppo l’unico bisogno che avverto in questa fase è quello di fuggire e sottrarmi alla prova.

5. Menefreghismo. In un arco di tempo che può variare dalle 24 ore sino al minuto precedente l’evento ansiogeno, subentra il menefreghismo totale. Mi ucciderà questa cosa? No? E allora chi se ne frega.


Realizzare che le cose che facciamo non ci uccideranno né metteranno a repentaglio la nostra incolumità è un grande passo. È probabile che mi uccida un’auto mentre attraverso la strada per andare alla sede del colloquio, ma non certo il colloquio in sé: eppure la mente umana ha uno strano modo per scegliere le proprie priorità e preoccupazioni e sembra che la mia vita invece dipenda da ciò che avverrà mentre sarà seduto su una sedia a farmi valutare da una sconosciuta.


Il tizio (perché il mondo ruota tutto intorno a tizi e tizie) che fa da consulente che è riuscito a trovarmi questa opportunità, non è stato molto utile riguardo i dettagli. Non ha saputo dirmi a) chi fosse la tizia che mi fa il colloquio (una cosa risolvibile per lui con una telefonata o con un minuto su Google, come ho fatto io); b) a quale settore/dipartimento facesse capo; c) che figura nello specifico stesse cercando.

Lui, inoltre, le ha scritto in italiano; io le ho scritto in inglese visto il suo nome e cognome e considerato che è di oltre-oltreoceano (bisogna scavalcare due oceani per raggiungere casa sua, insomma): quando l’ho detto al tizio, lui ha fatto “Ah bravo, hai fatto bene, infatti volevo dirtelo”.
E perché non me l’hai detto? Pare che stai a fare un altro mestiere.

E quindi ho capito che se mai riuscirò a vincere le mie 5 fasi dell’ansia, da grande voglio essere un tizio. Uno che fa qualcosa ma che non si sa che cosa faccia.

Non è che “via dei Fori!” sia un incitamento sessuale


NOTA INTRODUTTIVA
Questo post sarà ricco di note come il registro di una classe indisciplinata.


“Ehi, Mister! Can you help me?” esclama indicando una enorme Reflex.
Siamo all’altezza del Vittoriano, di fronte al Foro Traiano. Un giovane dall’aria affabile, con i capelli sparati in aria tipo Saiyan, dei baffetti da portoricano e un abbigliamento che costerà quanto un’automobile, richiama la mia attenzione per farsi scattare una foto con sullo sfondo le rovine romane.

Non l’avevo proprio visto, primo perché era in un cono di buio oltre l’illuminazione stradale e secondo perché camminavo con la mente impegnata nell’analisi semantica di una frase di Tutor. Quando sono immerso nei pensieri innesto il pilota automatico e la mia mente incrocia le braccia dietro la testa, allunga i piedi poggiandoli sul tavolo e si mette a guardare il soffitto, cogitabonda.


FLASHBACK
Brevemente, quando le abbiamo detto “Scusa se ti facciamo fare tardi, avrai la tua vita”, lei ha risposto “Macché, figuratevi, non c’ho proprio nessuna vita” con aria rassegnata. Mi interrogavo se per caso fosse quindi andata male nei giorni scorsi col suo sconosciuto conquistatore.

Oppure poteva significare altro, essendo in quel periodo nel mese voleva dire che per stasera niente vita: plaid e tisana sul divano e via a dormire.


NOTA AL FLASHBACK
Quella sull’attuale attività ormonale di Tutor è una mia deduzione basata su un esame estetico-comportamentale sommario.


NOTA DELLA NOTA AL FLASHBACK
La nota precedente potrebbe sembrare vagamente inquietante, ma io, in generale, come si vedrà anche dal prosieguo della storia qui sotto, tendo a scannerizzare le persone che ho di fronte.


NOTA DI AUTOCRITICA
Ok forse ciò è inquietante lo stesso.


Mi sono quindi fermato ad aiutare il giovane, avendolo giudicato non pericoloso in base a un veloce scanner biometrico. Non sono diffidente a prescindere con gli sconosciuti, io li squadro e cerco di valutarli. È difficile da spiegare, ma diciamo che essere stati abituati a Napoli ti fa comprendere in genere di chi ti puoi fidare quando ti fermano per strada.


Con l’affermazione qui sopra potrei contribuire ad alimentare immagini distorte di Napoli che circolano spesso tra chi non l’ha mai vista: non è questa la sede per fare classifiche e statistiche di pericolosità o vivibilità, però un dato che ritengo certo è che Napoli è una buona palestra di vita per insegnarti a campare. Prendete la viabilità, ad esempio: guidare al Sud ti allena ad avere riflessi pronti e occhi sempre vigili. Rimango sempre sconcertato nel constatare che al Nord ci sia troppa fiducia nel codice della strada: chi ha la precedenza si immette nella corsia senza decelerare e io penso sempre che se comparisse qualcuno che non rispetta la precedenza sarebbe la fine. Dalle mie parti invece anche se hai diritto a passare abbiamo l’abitudine di rallentare e controllare se la strada è libera. Questo evita molti problemi.


Gli ho specificato di non essere Steve McCurry (lui ha riso) e che inoltre quando tocco macchine così sofisticate vado in crisi perché non so che pulsante premere.

Abbiamo dovuto rifare la foto molte volte, perché: a) era troppo scura; b) era troppo luminosa; c) l’avevo fatta venire sfocata; d) è passato un autobus in quel momento coprendo il Foro; e) sono passate delle persone in quel momento davanti all’obiettivo; f) due o più degli inconvenienti descritti in precedenza insieme.

Durante i tentativi ha scambiato qualche parola con me. Mi ha detto che viene dal Brasile, è in giro per l’Europa (prima Parigi, tre giorni a Roma e poi Amsterdam), gli piace viaggiare, cose così. Mi ha chiesto se fossi single e che donne mi piacessero. Poi mi ha detto: ieri sono stato con un’asiatica, da urlo, amico. Però io voglio divertirmi e fare esperienze – ha proseguito – Oggi voglio proprio cosare un coso.


Ho provato a pensare a molte metafore per riportare la cosa senza essere troppo sfacciato o scollacciato, ma mi venivano sempre esempi che si riferivano all’ingerire ortaggi o prodotti di origine suina oblunghi, quindi ho lasciato perdere.


Mettere un riferimento nelle note potrebbe essere stata la soluzione, in quanto la nota è più discreta e timida.


E poi mi ha chiesto: dove posso andare stasera per cosare un coso? Io gli ho risposto che non ho idea perché non mi sono mai preoccupato di simili interessi. E lui ha replicato:
– Dovresti provare.
– No amico (ridendo), preferisco le donne.
– Certo, anche io. Ma poi ho scoperto che provando cambia tutto. Un uomo sa meglio di una donna cosa piace a un altro uomo (abbassa gli occhi verso la mia cintura).
– Sarà anche così, ma
– Non vorresti provare? (mi interrompe)…Sai, io ho proprio voglia di cosare un coso (abbassa di nuovo gli occhi).
– Mi dispiace, senti ho l’autobus che mi parte.
– Ok amico, bye, grazie di tutto (saluta stringendomi calorosamente la mano).

L’unico dubbio che mi è rimasto è se mi avesse fermato perché mi aveva notato o perché ero il primo che capitava: no perché cambia tutto tra l’una e l’altra cosa, è comunque una questione di orgoglio. La mia eleganza (ben evidenziata da un giubbetto comprato in saldo in una nota catena di moda giuovine, una pashmina a quadretti e quadrotti, un jeans sdrucito e un paio di scarpe simil Converse consumate) e il mio nobile portamento (le mani perennemente nelle tasche e l’incedere di uno che sta andando a fare una rapina ed è nervoso perché non l’ha mai fatto prima) devono essere apprezzate per quel che sono, perbacco!

Se il mago non riesce a usare la bacchetta, è ansia da prestidigitazione

Mi fanno notare che cammino come un robot. Avanzo muovendo le gambe a scatti e calcando il piede sul suolo. Sarà per questo che consumo le suole delle scarpe più di un podista.

Eppure non sono pesante.
Porto in giro 73 kg scarsi di uomo fatti di ossa e pelle e tanti nervi infasciati o intrecciati. Non ho gangli nervosi: soltanti (soltanto tanti) nodi che nel complesso mi rendono rigido come una tavola di legno di abete.

Sembro la scopa animata da Topolino in Fantasia.

Sarà a causa di questa costituzione lignea che ho sempre dei tarli in testa. Il lato positivo di avere dei buchi nel cervello, però, è una mente sempre arieggiata dove poter stagionare pensieri.

Da bambino avevo la scatola gioco de L’Apprendista Stregone.

Passavo più tempo a fingere di giocare con le palline e il foulard e la bacchetta che a imparare i trucchi. Anche perché alcuni erano davvero ingenui, come la scatola magica (quella rossa con la picca nera) col doppio fondo:  quando la giravi il doppio fondo cascava e faceva rumore, svelando il trucco. Anzi, non c’era neanche necessità di svelarlo, lo spettatore lo intuiva da prima. Il brutto di voler mostrare i propri giochi agli adulti: devono rovinare sempre la magia (è il caso di dirlo) di tutto.

Eppure per un breve periodo sono stato convinto che nella vita avrei fatto il mago (tra le altre 1000 cose che avrei voluto fare). Ma non un mago da strapazzo di quelli che leggono le carte (sì…le carte da centomila che si facevano dare dai clienti…), ma un grande illusionista. E sottolineo grande, perché non ha senso immaginare di diventare qualcuno se questo qualcuno non è grande, no?

Comunque delle magie le so fare. Ad esempio:

  • far sparire velocemente del cibo dal piatto come un pitone fa con la preda
  • far morire una discussione e riportarla in vita
  • far calare il gelo
  • cambiare colore dall’imbarazzo
  • parlare con i gatti, infatti quando imito il loro miagolìo loro mi rispondono (magari dicendo Che gatto sfotti, imbecille?)
  • faccio spegnere i lampioni quando ci passo sotto

Mica male, no? E voi che magie fate?

Me lo direte dopo. Adesso sparisco: