Non è che gli infermieri si lavino con l’Anitra WC perché sono dei sanitari

Esco dal bagno che affaccia proprio sulla zona dei distributori. Un collega sta parlando con una nuova arrivata. Io non mi ero ancora presentato con lei e allora, cordiale, esordisco con un “Ah tu sei…scusami non mi ero ancora presentato…Sono Gintoki”. E le porgo la mano.

Mentre gliela sto porgendo mi rendo conto che sono appena uscito dal bagno (avevo ovviamente lavato le mani) ma ormai è troppo tardi per tirarmi indietro e, inoltre, mi chiedevo cosa sarebbe stato meglio: presentarsi senza porgere la mano, sembrando freddo, oppure farlo lo stesso nonostante stessi appena uscendo dal bagno?

Io ho un’idiosincrasia verso chi porge le mani o tocca gli altri appena uscito dal bagno, seppur le suddette sono state lavate per bene.


Sul fatto che le persone le lavino per bene ho però i miei dubbi.


Il mio dubbio però è: dopo quanto tempo cade in prescrizione il fatto che quelle mani hanno toccato sanitari e parti intime? Quando una mano può dirsi effettivamente ripulita dall’idea di aver frequentato il bagno e può passare a toccare gli altri?

Non ne sono venuto a capo.

Forse prima di venire a contatto con gli altri bisognerebbe toccare qualcos’altro, un oggetto ad esempio, per “riverginare” la mano.

Ciò però comporta un altro dubbio: che in giro ci siano oggetti che, per trasferimento (bagno->mano->oggetto), sono quindi venuti a contatto con le parti intime delle persone. E se moltiplichiamo su larga tutto questo, dobbiamo dedurre che la realtà che ci circonda è stata tutta, indirettamente, a contatto con i bagni e i genitali altrui!

Non è che il produttore di guanti sia un tipo alla mano

L’estate sarebbe bella se solo sapessi dove mettere le mani.

Negli altri mesi le tengo nelle tasche di cappotti e giubbotti. Cammino con questa postura e parlo in genere con le persone sempre tenendole ben riposte. Le estraggo in caso di necessità, per sottolineare un concetto, per far loro prendere aria.

Nella stagione calda, indossando nella parte superiore solo una maglietta o una camicia, non ho dove riporre le mani. Le tasche dei pantaloni sono troppo distanti: tenere le mani lì ti dà una posa troppo ingessata. Quando cammini così sembri un bulletto di quartiere. Quando parli con qualcuno sembra invece tu stia rigido perché a disagio e ciò mette a disagio l’interlocutore.

Ho anche provato a camminare a braccia conserte, come un Cosacco del Don.

Non so che farmene a volte delle mani. E dire che sono uno che le usa tanto, gesticolo, tocco, faccio cadere spesso le cose perché sono maldestro. A volte però vorrei solo un posto dove riporle e tenerle a riposo.

Quando ho una ragazza sempre approfitto per allungarle le mani.

Mi è uscita male. Mi spiego meglio: voglio dire che cerco spesso il contatto. Una spalla, una coscia, un fianco. Anche una tasca. Pensano io sia un tenerone e abbia questo bisogno di contatto affettuoso. In realtà, in modo subdolo, cerco solo di riporre le mani da qualche parte.

Dico sempre: Tienimi la mano. Intendo, tienimela tu per un po’, adesso non mi serve e non so dove metterla. Fammi questo favore.

Succede sempre invece che le donne non capiscano e pensino io voglia andare in giro come una coppietta di adolescenti.

Che in realtà non c’è nulla di male. Gli adolescenti secondo me sanno un sacco di cose rispetto agli adulti.

Io però per ora ho deciso che le mani me le tengo dietro la schiena come un anziano che guarda un cantiere.

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Una foto di mani scattata senza mani. (Impilare tazze può esser un buon metodo per scattare una foto alle mani)

Non è che Polifemo fosse spendaccione perché ci rimise un occhio della testa

Pur essendo conclusa la mia esperienza ungherese, ho mantenuto i contatti con le persone conosciute lì.

Le mie ex colleghe, ad esempio, ogni tanto mi scrivono, mi chiedono come vadano le cose, mi forniscono aggiornamenti sulla vita in ufficio.

Oggi S. mi ha scritto chiedendomi un favore. Una sua amica si sposa e le devono organizzare l’addio al nubilato. Tra gli altri giochi di gruppo da fare, ne ha trovato uno in cui ha pensato di coinvolgermi.


Lì per lì temevo volesse propormi di uscire da una scatola vestito da poliziotto. Dimenticavo che il limite massimo della trasgressione di S. è alzare il volume delle cuffie di una tacca oltre la soglia consigliata. È una che si scandalizza se legge “pene” e considera uno zotico chi ha dei tatuaggi.


Mi ha chiesto foto di alcune parti del mio corpo.


Per il discorso sopra citato, anche qui c’è il bando a pensieri osceni.


Vuole la foto di un orecchio, quella del naso, quella della barba, una di una mano e, infine, la foto di un occhio e una di un sopracciglio.

Serve per un gioco di robe di foto sparse e figure da ricostruire: credo lo scopo sia riuscire a rintracciare il futuro marito in mezzo ad altre immagini.

La cosa divertente è stato che alla fine ci ha tenuto a precisare che “Non userò le foto per altri scopi diversi da questo”. Ci mancava mi chiedesse l’autorizzazione al trattamento dei dati.

Formalismo ungherese.

Al che però mi si è accesa una lampadina: volendo pure ammettere la cosa, ma quali mai potrebbero essere scopi diversi da quello indicatomi?

  1. Costruire, insieme ad altre immagini di altre parti di ignari uomini, un volto finto da usare come profilo Tinder per adescare ragazze da ricattare;
  2. Lei e le sue amiche sono in realtà feticiste delle orecchie, delle sopracciglia ecc.
  3. Ha intenzione di mettere in vendita su internet le foto per feticist* di orecchie, sopracciglia, ecc.;
  4. Le servono per un book di presentazione per il mercato nero dei trapianti d’organo;
  5. Vuole fare soldi con gli acchiappaclick, pubblicando le foto con la didascalia +++CLICCA SULL’OCCHIO E…QUELLO CHE SI VEDE È INCREDIBILE+++ (SPOILER: SI VEDE LA PATATA):

Occhio!

Brutte Strisce #16

Alzi la mano chi non ha mai avuto problemi  di matematica!

striscia16

Questa striscia è un po’ autobiografica. Ricordo quando mi trovai male a un corso di analisi, avevo raggiunto il limite! L’ansia che ne era derivata mi aveva fatto partire per la tangente. Da lì iniziò una parabola discendente, e non è un’iperbole questa! E fui anche frainteso quando durante un compito chiesi a una tizia di mostrarmi il seno!

Non è che serva un divano per fare salotto

Anche in Magiaria è arrivata la primavera.
Improvvida per gli armadi e imbarazzante per le ascelle, inaugura la stagione dell’incertezza del vestiario. Il periodo della giacca da mezz’ora.


Si tratta infatti di quel capo utile da un quarto d’ora prima che il sole tramonti a un quarto d’ora dopo. Prima, porterà troppo caldo, dopo, sarà troppo leggero.


Con il caldo si sono svegliate le formiche. Ne ho trovate alcune nella stanza, l’altro ieri.

L’unico cibo che introduco nella mia zona notte è quello presente nel mio stomaco.
L’ambiente è pulito e tenuto in ordine con regolarità.

La mia coinquilina invece fa colazione, pranzo, merenda e cena nella sua stanza. Ha un cestino dei rifiuti personale. Per terra sparge qualsiasi cosa, insieme ai vestiti avvinghiati in un cumulo orgiastico. Credo che qualche maglione abbia figliato dei calzini.

Quando le ho chiesto se avesse formiche in camera, ha detto di no.

Capisco. Forse la sua stanza è troppo ostile, mentre con il mio ordine ho creato un ambiente confortevole.


La mia ironia è comunque fallace: la formica domestica può avere il nido da una parte ma approvvigionarsi molto lontano da esso. Come un meridionale fuori sede con i suoi pacchi di cibo spediti da giù.


Ovviamente ho subito pensando di sbarazzarmi del problema¹ con dell’esca avvelenata sull’ingresso del balcone, dopo aver constatato che rimedi naturali quali pepe, sale, limone, le rendevano adatte a un’insalatina ma non le inducevano ad allontanarsi². Ho dovuto agire prima che Salveeny venisse a scattarsi delle foto in casa mia al grido di “Fermiamo l’invasione”.


¹ Le formiche, intendo, non la coinquilina.


² Di sicuro ci sono altri rimedi naturali adatti che non ho utilizzato (come l’aceto, il cui odore mi dà fastidio), ma a me, da giacobino, interessa arrivare a far fuori la monarca.


Ammiro e invidio chi riesce a crearsi zone comfort molto estese in ambienti estranei, nuovi, con altre persone.

Non è necessario esser un gran conversatore e intrattenitore. Basta trovarsi a proprio agio nella propria pelle quando si è con gli altri e non subire il costo psicologico della relazione sociale.

Ci ripenso mentre mi trovo qui,


Non qui mentre scrivo, ma un qui di un flashback mentale.


in mezzo a delle persone sconosciute o semi-conosciute.

La mia zona comfort arriva sino alla punta del Toscanello che ho nella mano sinistra (ahimè ogni tiro manda in fumo tale area) e al fondo del bicchiere pieno di birra che stringo con la destra.


Potrei quindi confermare la tesi secondo la quale i vizi sono alimentati dal disagio.
È un’osservazione invece parziale, in quanto indugio nel vizio molto di più quando mi sento totalmente a mio agio¹.


¹ Il motivo è che se sono a mio agio non devo preoccuparmi di ciò che pensano gli altri. Anche perché probabilmente saranno troppo devastati per poter far caso a me.


Sono il genere di persona che deve avere sempre almeno una mano impegnata. Ho lasciato allungare i baffi solo per avere qualcosa da rigirare tra le dita a piacimento, in assenza di altro.

Magari improvvisando contemporaneamente un ballo country

Intanto, osservo gli altri.
Che osservano me, che osservo loro che osservano me. È come quel racconto di Paul Auster dove un investigatore sorveglia un sospettato che sta sorvegliando lui.


Fantasmi, in Trilogia di New York. Una storia che sembra un racconto hard boiled¹ ma che si trasforma in breve in una sorta di allucinazione a-temporale dove entrambi i personaggi coinvolti perdono sempre più i caratteri di protagonisti per divenire pupazzi di un inganno.


¹ Cioè il genere poliziesco impermeabile, whiskey e un detective scorbutico e sciupafemmine.


Abbandono il mio essere umano per divenire un elemento grammaticale: il complemento d’arredo.

E penso alle formiche a casa, cui la dipendenza reciproca sarà la loro rovina perché se anche una dovesse sfuggire al veleno poi morirebbe in quanto rimasta da sola.

Mentre ci rifletto, una tizia accanto a me annusa l’aria. Poi si volta.
Oh, are you fuming…eh, “fuming”, si va be’ dai  agita la mano come a dire “ma come mi viene”.
Io, imperturbabile: Yes, I’m fuming. Why are you chiedending me?
Rido.

Lurido frutto dell’amor è la sambuca

Era primavera inoltrata dell’ultimo anno di liceo e noi ci inoltravamo sempre più volentieri nei fumi dell’alcool. La seconda sbronza cattiva della mia vita fu una domenica sera dopo aver finito una bottiglia di sambuca seduti sui gradini di un condominio. Da allora, ancor oggi mi sopraggiunge la nausea a sentirne anche soltanto l’odore.

Polacco dopo aver bevuto abbastanza per quella sera si alzò a svuotare la vescica contro un muro, non avvedendosi di un uomo affacciato alla finestra che lo richiamò al suon di “ehi tu, lurido”.

La cosa mi è rimasta impressa, in quanto lo trovo più unico che raro che qualcuno si esprima così. Ci si aspetterebbe un epiteto volgare, una bestemmia, un’imprecazione in dialetto, una secchiata d’acqua. A tal proposito, vorrei segnalare ai visitatori occasionali di Napoli di non attardarsi a svuotare la vescica in una stradina di via Mezzocannone, perché gli abitanti della zona si sono organizzati in squadre d’azione che organizzano raid di secchiate d’acqua per i luridi del caso.

Quell’uomo, dicevo, disse “ehi tu, lurido”. Con fermezza e senza scomporsi in alcun modo.

Non ero abituato né a sentire l’espressione né a quella composta serietà. Anche perché le persone trovo che abbiano spesso modi più spicci e nervosi.

Oppure sono io che la penso così essendo molto collerico. C’è un proverbio spagnolo che dice “Piensa el ladrón que todos son de su misma condición”.

Sono apparentemente tranquillo e molto controllato ma vivo sul ciglio della strada dell’esplosione di nervi. Se agissi di impulso, per un nonnulla distribuirei con molta facilità delle indicazioni per raggiungere in modo breve quel famoso paese.

Come quella volta, credo fosse il terzo anno di liceo, che rivolsi tale invito a un paio di compagne di classe.
Eravamo in aula video (una stanza con un televisore e un videoregistratore comprati in saldo all’euromercato negli anni ’90) a guardare non ricordo cosa. A un certo punto comparvero degli scimpanzé nel video. Il simpatico S. dalla retrovia disse “I parenti tuoi, Gintoki!”, provocando qualche risata negli astanti. Io mi girai verso di lui a rispondergli, non ricordo di preciso cosa dissi comunque si trattava di qualcosa riguardante le scimmie e lui. Dal mezzo dell’aula un paio di compagne invitarono al silenzio. Io chiesi loro la cortesia di non defecare sugli organi genitali, accompagnando le parole con un ampio gesto della mano che invitava appunto a visitare il famoso paese.

L’invito a non attentare ai miei summenzionati organi fu preso evidentemente molto sul serio, tant’è che di quella classe nessuna ragazza mai ci si accostò, né con buone né con cattive intenzioni. Io per prudenza mantenni sempre le cose in chiaro, reagendo sempre in modo spropositato (la si potrebbe definire una massive retaliation) al minimo attacco.

Eppure delle volte un “ehi tu, lurido” (che mi ricorda “ehi tu porco levale le mani di dosso”) può esser più efficace.

Follow the butterfly (and stay with her)


Qualche notte fa ho fatto un sogno.

Ero sul balcone di casa mia quando vedo svolazzare di fianco a me, a mezza altezza, una bella farfalla. Era grossa quanto la mia mano, il corpo e il contorno delle ali interamente nere, con decorazioni esagonali qui trasparenti, qui azzurrine, qui arancio e così via.

La seguo per qualche metro finché non si posa sul muro di casa, dove batte il sole. Comincia lentamente a chiudere e riaprire le ali, come fanno di solito per riscaldarsi.

A quel punto sono combattuto. Resto lì ad ammirarla oppure corro dentro a prendere il cellulare per immortalarla? Mentre son lì preda del dubbio, lei vola via. E mi rammarico di non essermi goduto il momento.

Ne ho parlato con una persona. Mi ha detto “prova a restare con la farfalla”.

La settimana precedente, indirettamente, una farfalla era ancora protagonista di un mio sogno. Un’amica ne ha una tatuata su un fianco, non si vede perché è ovviamente coperta dai vestiti. Dice spesso che deve farselo sistemare, perché non le piace come è stato realizzato.

Ecco, io sognai te al posto della mia amica, che ti lamentavi di questo tatuaggio sul fianco e che non l’avresti mostrato a nessuno finché non sarebbe stato sistemato. Continuo a interrogarmi sul significato di tale sogno. Forse è perché abbiamo parlato di tatuaggi, forse è perché avevo riflettuto su qualche similitudine caratteriale tra te e la mia amica. Forse è perché dai l’impressione di non voler mostrare una parte interiore di te fino a quando non la sistemerai. O forse non significa nulla e sto di nuovo cercando un cellulare per scattare una foto.

Oggi arrivo al lavoro. Mi giro e vedo che una collega ha un pendaglio al collo con una grossa farfalla. Mi son detto ok basta, devo scrivere, allora.

Mi sono interrogato sulle persone. Quanta gente si perde i momenti migliori, proprio perché non resta con la farfalla? Beninteso, il discorso va oltre il senso letterale: cioè, è vero che nell’era della partecipazione e della condivisione totale siamo tutti schiavi della cattura. Ad esempio come non citare quegli imbecilli che i concerti se li guardano attraverso l’Ipad. Eh no su questo non transigo, se paghi il biglietto per stare tutto il tempo con le braccia in alto a guardarti il concerto attraverso uno schermo (perché così magari poi te lo riguardi a casa), sei un povero mentecatto.

Ma, dicevo, il senso può essere anche figurato. Può significare il non vivere i momenti perché si è troppo presi dal pensare ad altro, temere il loro essere effimeri e cercare di porvi rimedio con maldestri tentativi di fossilizzazione dell’immagine.

Qui ci starebbero bene gli Iron Butterfly