Non è che nella staffetta tra religiosi ci sia il passaggio del Testimone di Geova

Conosco un tale, il quale – tale e quale – è un convinto meridionalista. Di più: è un Borbonico. Di più: fa parte di un movimento che mira a riportare a galla la verità storica, ridare dignità al Sud, denunciare l’oppressione nordista e assicurare ricchi premi e cotillon per il giorno del Ritorno del Re.


Che non è Aragorn.


Questo tale diceva “Siamo tanti e il potere ci temono” prima che diventasse mainstream e appannaggio di altri movimenti.


Però non ho mai sentito il potere dire “Siamo il potere e ci caghiamo sotto”.


Questo tale da quando lo conosco non fa che parlare solo di questo argomento: la questione meridionale, per l’appunto.  Né io né altre persone che lo incontrano per strada l’hanno mai visto o ascoltato intavolare un discorso che vertesse su altri temi. A volte sembra un venditore di Bibbie.

Sono convinto anche io sia necessario rivedere l’analisi storica sul Meridione e combattere i pregiudizi su di esso. Mi sono reso conto, ad esempio, che altrove c’è a volte una visione distorta sul Sud. Alcuni secondo me pensano che viviamo tutti nel set di Gomorra.


È un’opinione difficile da contrastare. All’ultima persona che parlava così ho dovuto sparare nelle gambe per fargli cambiare idea.


Per riportare a galla la verità storica, ridare dignità al Sud eccetera, insieme ad altri movimentisti borbonici, organizza dei piccoli dibattiti – dove nel 90% dei casi l’ospite è sempre il Marco Travaglio borbonico, Pino Aprile -, va in pellegrinaggio sui luoghi dei massacri tra esercito piemontese e esercito reale, scrive a volte degli articoli su qualche giornale locale. Un giorno, a tal proposito, venne da me  – condividevamo lo stesso ambiente di lavoro, purtroppo – sventolando, trionfante, una fotocopia di un articolo di giornale. “Ho risposto a Paolo Villaggio”, disse. Il Villaggio, in quel frangente, in uno dei vari deliri arteriosclerotici della sua epoca senile aveva detto qualcosa contro il Sud. Il nostro, dovendo vendicare l’onore meridionale, aveva replicato indignato.

Chissà se Paolo Villaggio ha mai saputo di ciò.

Il tale l’ho rivisto quest’estate dopo esser tornato dall’Ungheria.


O meglio, me lo son ritrovato davanti girato l’angolo come un Testimone di Geova che ti sorprende mentre sei sovrappensiero e non hai fatto in tempo a schivarlo cambiando direzione.


– Ma te ne vai sempre girando all’estero, ma che vai facendo
– Eh sai com’è, il lavoro
– Sì ma guarda ma se vai sempre fuori poi non combinerai mai niente qua, cioè per me chi non realizza niente nel posto dove è cresciuto e se ne va fuori ha fallito. Ha fallito
– Quindi io sarei un fallito?
– No che c’entra il mio è un discorso generale, sei un guaglione intelligente, ma se vai fuori nessuno ti conosce qua
– Quelli che conosco credo mi bastino e avanzino…
– Come?
– No, dico non conosco abbastanza gente, è vero…

Il tale non crede al vecchio adagio secondo cui Nemo (il Capitano o il pesce?) propheta in patria.

Il discorso sul conoscere diventa chiaro quando ti informa che lui sta lavorando, grazie a un amico di famiglia che l’ha preso con sé. “Se non era per lui”.

Sono sicuro sia bravo nel proprio lavoro, ma mi domando quanta gente brava ci sia in giro. E lui, il tale, sarà il più bravo in quel che fa, non dico dell’universo, ma almeno di un campione rappresentativo di potenziali impiegati in quel ruolo? Non lo sapremo mai, perché il suo amico non ha fatto alcuna selezione.

Allora a volte penso che per ridare dignità al Meridione, oltre a discutere, puntuali ogni anno in occasione della strage di Bronte, su chi fosse realmente Nino Bixio – abbreviazione di Nino Biperio, secondo una leggenda metropolitana su un ignorante studente maturando – a volte sarebbe anche utile valorizzare gli individui sulla base delle loro capacità, e non sulla base dei propri rapporti amicali e/o familiari.

I canali informali per il lavoro potrebbero sembrare pratiche innocenti: non c’è nulla di male a rivolgersi a chi si conosce già o a fare un favore a qualcuno. Ma se il sistema diventa la normalità o quasi, i canali lavorativi formali si ingolfano. Inoltre, utilizzando come criterio selettivo quello della conoscenza, si apre la gara ovviamente a chi ce l’ha più forte.


Beninteso, è una pratica diffusa non solo a Sud di Roma. In realtà esiste ovunque – anche all’estero – ma diciamo che in certi luoghi esiste più che in altri.


Il dizionario delle cose perdute – La Biribiro

Più comunemente nota come la penna multicolore, era un costoso e inutile strumento a disposizione dello studente, che la sfoggiava di fronte ai compagni di classe come uno status symbol. Se poi però ce l’avevano tutti mi chiedo cosa ci fosse mai da sfoggiare.

Era poco utile per scopi didattici ma molto apprezzata per colorare il diario con disegni, scritte e ghirigori.

I colori erano profumati con essenze che richiamavano odori naturali ma che erano frutto di qualche intruglio chimico di cui oggi forse subiamo gli effetti a lungo termine.

Non ricordo quando cominciò a esplodere la mania di questa penna nella mia classe, alle elementari. Fatto che sta che cominciarono ad apparire questi enormi siluri nelle mani dei miei coetanei. Siluri scomodissimi. Provate a immaginare la manina di un bimbo che stringe a lungo un simile affare. Tendinite del polso e inibizione del pollice opponibile garantite.

A ciò aggiungiamo che le molle per far scendere le mine sovente si incastrassero.

Alle maestre non piaceva, tanto da arrivare a interdirne l’uso durante le ore di lezione pena il sequestro. Non ho ben capito per quale motivo fossero da vietare. Va tenuto però conto che la mia era ancora una scuola vecchio stampo, con maestre nate durante la Grande Guerra che non si tiravano indietro se c’era da darti uno scappellotto, senza che arrivassero le telecamere di Barbara d’Urso a parlare della “scuola degli orrori & della violenza”, probabilmente perché sarebbe giunto un ceffone anche a lei.

Un sistema formativo abbastanza doloroso, seppur efficace.

Io non ebbi mai una penna multicolor come quella dei miei compagni. I miei genitori erano contrari a sprecare denaro in costosi e inutili oggetti di moda.

Posso dire che io non ero mainstream prima che il non essere mainstream diventasse mainstream.

Per venirmi incontro, comunque, ricevetti una volta una penna a quattro colori (blu, nero, rosso e verde). Esistevano penne di questo tipo anch’esse di marca. Ricordo ad esempio la Bic ne produsse alcune.

Ovviamente la mia era invece una cinesata.

La sua anonimicità fu tale da consentirle di passare inosservata agli occhi della censura delle maestre, cosicché continuai a utilizzarla anche a lezione, soprattutto durante i noiosi esercizi di matematica.

La maestra infatti aveva introdotto la regola che le unità andassero scritte in nero (chiudendo un occhio se qualche reazionario utilizzava il blu), le decine in rosso e, quando arrivò la scoperta delle tre cifre, le centinaia in verde.

Durante gli esercizi di scrittura numerica era un continuo cambio penna. Il conformismo di stato introdotto in classe dalla nomenklatura volle che tutti finissero così:

Ma non io.

Io, l’anarchico, il Pëtr Alekseevič Kropotkin della sezione A, con la mia grigia e anonima 4 colori cambiavo colore senza dover posare e cambiare penna.

Finché un compagno bolscevico, probabilmente per ingraziarsi l’Apparato, non mi denunziò per uso improprio di colori, ponendo fine alla mia libertà.

Continuai a usare a casa in privato la mia 4 colori, che però divenne inutile quando il blu si scaricò prima degli altri, seguito poi dal nero. Non sapendo che farmene del colore rimasto, persi di vista la penna finché non sarà finita forse in una discarica, dove tra 5000 anni quel verde color vomito di fumetto sarà ancora lì.

Alle scuole medie era ancora in voga l’uso della Multicolor da parte dei miei nuovi compagni. Non era vietato dai professori, anche se restava un oggetto ovviamente più utile per cazzeggiare e disegnare che per altro.

Non ho mai capito cosa ci fosse di bello in quella penna e perché poi piacesse così tanto alle ragazze. Vero è che, le donne non me ne vogliano, le femmine sono più inclini ad appassionarsi a qualsiasi minchiata (non fatemi parlare dei ciucciotti di plastica colorati. C’è un limite al trash in questa rubrica).

Non voglio pensare che fosse la forma simil-dildo di quell’affare a piacere tanto, come colorata iniziazione sentimentale con sé stesse alle soglie dell’età puberale.

Non è che serva l’Aulin per i dolori del giovane Werther

Avverto una certa stanchezza nello scrivere sul blog.
Più che altro non so cosa scrivere. Non ho ben chiaro di cosa io possa parlare, ammesso che ci sia qualcosa di cui io sia in grado di parlare.

Non è un mistero che io sia abbastanza chiuso e, pur raccontando a volte cose personali – che, tra l’altro, sono una parte molto piccola di tutte le mie cose personali -, non ne trasmetto alcuna componente emotiva.

Ma io non so affatto come si parli delle proprie emozioni.
Non mi è mai stato chiaro come si comunichino e a scuola nessuno me lo ha insegnato.

I temi in classe dal contenuto emotivo venivano da me costantemente evasi. Ho già citato quella volta in cui, in risposta alla traccia Racconta di come è stato chiedere l’aiuto di qualcuno io ho risposto Non ho mai chiesto l’aiuto di nessuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo.

Per non parlare di quando la traccia chiedeva di raccontare del rapporto con il proprio padre e io ho narrato di quando mi ha riparato la mia console Atari 2600. Avendo cura, però, di sottolineare che fu fatto con tanto amore.

Come si parla di emozioni?

Prendiamo una ragazza. Una che vi interessa. Se siete donne, fingete di essere amiche di Saffo.

Cosa dovrei dire al riguardo? Come è bello riuscire a captare almeno di sfuggita il profumo dei suoi capelli? Non stiamo parlando dei capelli appena lavati, perché quello è il profumo dello shampoo: è un po’ ridicolo instaurare una corrispondenza di amorosi sensi col Pantene.

Io parlo dei capelli uno-due giorni dopo lo shampoo, che non sono sporchi né sanno di Federica Pellegrini a una sfilata: ovviamente non si tratta di una ragazza che ha appena fatto la maratona di New York, sennò i capelli al massimo ricorderanno l’olio di semi di girasole.

Ecco, chiamatemi feticista, ma il capello uno-due giorni dopo ha un odore particolare. Quello mi piace molto.

E la bocca?
Senza rossetto, perché quello è una maschera. Il labbro non deve essere coperto: voglio coglierne i movimenti al naturale. Prima sottile, poi gonfio, poi teso, poi stretto, poi largo.

Sì, certo: noi maschi siamo più interessati alle grandi labbra, meglio dire le cose come stanno e non essere ipocriti.
Ma i movimenti della bocca non ci sfuggono, comunque.

Il seno è un caso a parte. Ci sono diverse scuole di pensiero che non ho mai frequentato perché sono autodidatta. Negli ultimi anni mi sono soffermato ad analizzare la forma del reggiseno, perché rivela molte cose sulla persona che lo indossa. C’è quello che spinge, quello che costringe, quello che riempie, quello che dà una forma.
Amo la donna che ha bisogno di una forma. Cerca una identità, forse insicura di quella che è in possesso e io, che ho il complesso musicale del supereroe, vorrei tanto infondere sicurezza.

Mi accorgo di essere già sceso in basso.
In tutti i sensi. Purtroppo le distrazioni capitano, anche quando si è intenti a contemplare il viso.

Finisco sempre per dimenticare quanti muscoli facciali abbiamo. Cerco di ricordarmene ogni volta che osservo le espressioni sul volto di una ragazza, anche quelle involontarie. Mi son sentito dire che “faccio paura”, per la mia perspicacia nel cogliere gli stati d’animo.
No no, non voglio millantare doti che non ho. Non ho perspicacia. Ti guardo e colgo le cose perché ti voglio, forse non è ben chiaro.

Fino a qui stiamo parlando di dettagli estetici e si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Non ho parlato del culo, ad esempio.
Il culo non è mai da sottovalutare: è come un’opinione, ognuno ha la propria. E, come disse Voltaire, morirei affinché ognuno abbia il proprio culo.

Purtroppo io solo di dettagli estetici posso parlare. Non sono in grado di essere profondo.

Come si fa a descrivere la gelosia quando lei parla, ride, scherza, tocca qualcun altro e nel frattempo voi state pensando Ehi, parla, ridi, scherza, tocca me! e la cosa vi rode come un criceto?

Come si racconta la sofferenza che si prova quando vi dice Ieri sono uscita con Piercarolambo, e voi rimanete zitti, mica potete rispondere Ma che membro virile ci vai a fare con un Piercarolambo?. Magari si offende pure di fronte al vostro taciturnismo, perché si aspettava diceste Ah, sono contento che hai un Piercarolambo, mica si trovano tutti i giorni.

Come descrivere quella sensazione nel petto che si verifica quando ci si sente dire qualcosa che colpisce?
Forse, per dare l’idea, potremmo paragonarla all’effetto che si prova quando si ingerisce del peperoncino. Ma di quello piccante per davvero, non le schifezze da supermercato.

Io, per esempio, sono sensibile a certe cose.

A me una che mi dice che scrive poesie mi fa l’effetto del peperoncino nell’esofago e zone limitrofe. È un cliché? Certo. Il peperoncino è come le poesie: ormai è mainstream. Provate il wasabi, e poi mi direte. Quello vi prende in testa, non nel petto.

Io una volta mi son sentito dire che le donne le prendo di testa.
E certo. Mi chiamano Zidane.

Non è tanto bello. Insomma, non sono mica John Dorian*: ho pure un corpo. Non vorrei sembrare volgare, infatti non è mia intenzione esserlo, ma ci sono tante altre parti con cui prendere una donna.


* Mi riferisco al “Dottor Testa Volante”.


Insomma, come si parla di emozioni?

Fortuna che non ho più temi in classe da scrivere e nessuno me lo chiederà.