Non è che ti fai il tampone per capire se il tuo pensiero è positivo

Ricordo di fronte la mia scuola elementare c’era un ciabattino. Conservava una montagna di scarpe usate in un angolo, che utilizzava per i pezzi di ricambio delle calzature che gli portavano da sistemare. Aveva un camice blu e degli occhiali spessi da pentapartito, sedeva di sghimbescio sulla sedia e lavorava alla luce di una lampada da tavolo.


Forse non ha mai portato un camice blu e questo è soltanto un cosiddetto effetto Mandela.


Ho sempre invidiato chi ha abilità manuali ed è in grado di aggiustare cose. Io, purtroppo, non ho mai avuto molta praticità. A mia difesa dico che però con la teoria vado forte. Me la cavo con l’orale.


That’s what she said, direbbe Michael Scott.


Questa citazione ha senso se si comprende la citazione.


Una volta volevo riparare un omino del Subbuteo. Poraccio, si era spaccato entrambe le ginocchia. I medici parlavano di amputazione definitiva. Io invece volevo mettere alla prova le proprietà di fusione della plastica, sciogliendo con un fiammifero i due monconi e provando a tenerli insieme fino a farli solidificare. Ovviamente non avevo ben chiaro il comportamento delle plastiche, che si sarebbero semplicemente ritirate bruciando tra le mie mani ustionandomi anche i polpastrelli. Mi hanno fermato prima che incendiassi il tappeto.

La mia incapacità di riparatore si riflette anche nell’ambito relazionale. Mi piacerebbe poter aggiustare le persone, le situazioni, i contatti, semplicemente sciogliendoli un po’ con un accendino e tenendo insieme i pezzi.

Vedo persone spezzate.

Le crepe che ognuno di noi si porta appresso sono una faccenda del tutto personale, ma quando sono visibili è difficile fare finta di nulla.

Correnti del pensare positivo ritengono di dover esibire le linee di frattura con orgoglio, valorizzandole come si fa in Giappone col kintsugi.


L’arte di riparare oggetti con l’oro.


Il pensare positivo direi ha un po’ rotto il cazzo.

Pure quello è difficile da riparare.

Come disse l’illusionista che cercava antinfiammatori, “a me gli Oki”

L’altro giorno una persona ha fatto un’osservazione sul mio modo di guardare le cose. Ha detto che io ho un modo tutto mio di volgere lo sguardo su qualcuno o qualcosa. O mi lascio sfuggire tutto ciò che mi passa davanti, perché sono troppo concentrato su me stesso, o, se guardo, non è mai a caso ma per scrutare, analizzare, tentare di capire.

In effetti è vero. Per me gli occhi sono uno strumento d’indagine. Nelle sale d’attesa, in treno, in coda, in tutti i posti in cui si condivide uno spazio con degli sconosciuti per un tempo più o meno lungo, io osservo le persone. I gesti, l’abbigliamento, l’atteggiamento. La cura che hanno per le proprio mani. Credo che dalle mani si possano capire molte cose di una persona.

A volte osservo con attenzione anche le persone che conosco. Ed è sorprendente – o forse non lo è – come sia percepito invasivo uno sguardo.

Puoi raggiungere un’intimità fisica strettissima con una persona, ma poi qualche volta può capitare che questa si schermirà quando la guardi mentre ti è davanti, indifesa. Non vuole che lo sguardo si posi su quelle che ritiene siano imperfezioni.

Da questo punto di vista, le donne sono severissime con il proprio aspetto, anche in maniera sovradimensionata rispetto all’entità di ciò che giudicano come un difetto. In generale, è provato che il modo in cui gli esseri umani si vedono è distorto e non corrisponde al modo in cui gli altri li vedono.

Io, ad esempio, soffro di una distorsione casalinga. Nello specchio del bagno, mi piaccio abbastanza. Non mi ritengo bello né tantomeno belloccio, però mi garbo come Greta. Ma quando sono per strada, se mi sorprendo in un riflesso, in una vetrina, in uno specchio qualsiasi, noto molte imperfezioni. E fuggo via.

Eppure dall’imperfezione non si dovrebbe fuggire, anzi. Sarebbe il caso di farne un vanto, perché è ciò che caratterizza un essere umano. Come spiegare a una persona che è bella proprio per questo?

Tempo fa scrissi uno dei post che più mi piace: Wabi-sabi (la caducità è bella a mamma sua). Senza stare a dilungarsi troppo, il concetto base di questa visione del mondo o filosofia è che nulla dura per sempre e nulla è perfetto. Ma in fondo è proprio questo il bello. Una tazza rotta, ad esempio, non è brutta, anzi: in Giappone le riparano con l’oro, si chiama kintsugi. Invece di nascondere l’imperfezione, la si valorizza.

Quindi, in sostanza, non è “sei bella nonostante le imperfezioni”, ma “sei imperfetta ed è per questo che sei bella”. Ma è difficile da spiegare e soprattutto farlo passare per un complimento filosofico.

Per questo io non guardo mai tanto per. Con gli occhi cerco la bellezza nei difetti del mondo.

20150220_020218