Ci sono una serie di aneddoti o curiosità che tutti ritengono veri ma che in realtà non lo sono. Pochi sanno che nel non-vero c’è in realtà del vero ma non ve l’hanno mai raccontato bene.
Con questo post spero quindi di far luce una volta per tutto su quel che i poteri forti non vogliono sappiate.
– Usiamo soltanto il 10% del nostro cervello perché il restante 90% non serve: è design.
– In Giappone gli insegnanti non si inchinano all’Imperatore perché sono gli unici ad aver capito che lui è un gran burlone e ama fare lo scherzo della saponetta a chi si piega.
– I tori sono innervositi dal rosso perché sono automobilisti indisciplinati e vanno sempre di fretta.
– Non tutti i girasoli seguono il percorso del Sole nel cielo. Alcuni hanno scoperto le lampade abbronzanti.
– Le unghie continuano a crescere dopo morti perché ancora non ci sono estetisti che offrono servizio funebre.
– Svegliare un sonnambulo è pericoloso per la salute. Di chi lo sveglia.
– Il pesce fa bene alla memoria perché con quel che costa è difficile scordarsene.
– La memoria dei pesci rossi dura tre secondi, perciò non prestategli denaro.
– I pipistrelli sono ciechi ma solo per truffare l’INPS.
– Il camaleonte cambia colore per farsi gli autoscatti da mettere su Instagram coi filtri anticati.
– Buddha non era grasso ma un falso magro.
– Lady Godiva girò nuda a cavallo. Il cavallo non ne fu felice perché lei aveva le mestruazioni.
– Che nel Medioevo si indossassero cinture di castità e un’invenzione dei secoli successivi. In realtà si utilizzavano le bretelle di castità.
– Maria Antonietta invitò il popolo a mangiare brioche perché aveva un’industria dolciaria. Questo i politici non lo dicono???????
– D’Annunzio non si fece asportare due costole per praticare l’autofellatio ma per avere più spazio per il pranzo di Natale.
– Einstein andava male in matematica. In particolare quando doveva pagare la sua parte di conto al ristorante.
Non ho mai ricevuto un’educazione sessuale, se si esclude una precoce iniziazione con Postalmarket proseguita poi con l’anime di Lamù.
Senza andare poi a scomodare le pagine della finta posta del Cioè rubato alle compagne di classe.
Fin dal primo episodio evidenziava il proprio potenziale formativo.
Quel che ho poi imparato in maniera più seria l’ho appreso di mia iniziativa sui libri. Un po’ per desiderio di conoscenza, un po’ per quella pruriginosa curiosità che può avere un ragazzino.
La prima reazione fu quella di pentirmi del prurito. Insomma, uno dovrebbe poi infilarsi in un posto umido, a volte maleodorante, dalla dubbia estetica e pieno di batteri? In pratica è come entrare in un ristorante cinese.
Beata ingenuità infantile.
Gli insegnanti non hanno mai offerto molto supporto, seppur i vari testi scolastici trattassero l’argomento, con differenti modalità.
Il sussidiario di scienze delle scuole elementari spiegava in un paio di pagine la riproduzione, anche se senza alcun riferimento anatomico: ricordo i disegni di una cellula uovo (stilizzata) e di uno spermatozoo che vi si appropinquava. Quest’ultimo era raffigurato come fosse un biscione nero.
In pratica sul libro avevo il logo dei Queens of The Stone Age:
Il libro di educazione fisica delle scuole medie era molto più dettagliato e completo.
Peccato che un libro di educazione fisica in una classe sia cosa più inutile di un frigorifero in Groenlandia.
Le due ore scarse – il professore aveva divorziato dalla puntualità – di lezione a settimana erano dedicate soltanto a calcio (i maschi) e pallavolo (le femmine). E se eri masculo non giocavi con le femmine: oggi dicono che ci si ammala di gender, allora ti davano del ricchione.
E qui che si capisce che non serve alcuna educazione sessuale: non si deve inculcare ai ragazzi l’idea che non sia normale dare del ricchione a qualcuno.
Qualche volta, quando si era in pochi in classe, abbiamo permesso alle femmine di giocare a calcio con noi. Loro potevano fare cose riservate all’altro sesso ma solo per gentile e temporanea concessione da parte nostra, revocabile in qualsiasi momento.
In genere la partita finiva quando una ragazza rimaneva acciaccata da una pallonata sul petto o sul basso ventre. Quella fu un’altra lezione di anatomia: le parti intime femminili sono delicate e sensibili anche al Super Santos.
Ricordo una sola occasione in cui aprimmo il libro di educazione fisica, in un giorno di pioggia e con le palestre inagibili.
Il professore lesse un capitolo riguardante la pubertà. Finita la lezione chiuse il libro senza aggiungere una parola di spiegazione, della serie Questo è, il mio dovere l’ho fatto.
Quella si potrebbe avvicinare a essere stata una lezione di educazione sessuale avuta a scuola.
A casa invece l’unico insegnamento ricevuto fu quando Madre mi disse “Non portarci nessun dispiacere a casa, capisci a me“, alludendo al prestare attenzione a non impollinare improvvidamente qualche fiore.
Mi sono tornati in mente questi ricordi dopo aver visto un video su Internazionale in cui una giornalista e una regista si interrogano su quanto le persone, in particolare le donne, conoscano la struttura dei genitali.
I risultati sono un po’ sconfortanti. Saranno magari casi estremi ed estrapolati da un contesto, anche se a volte mi chiedo quanta educazione intorno certi temi ci sia tra la gente.
Se molti devono istruirsi da sé – e io almeno avevo l’interesse verso libri di divulgazione – non posso allora considerare inusitato che ci sia chi confonde vagina e vulva o che pensi che l’uretra sia una cantante soul.
La famosa Urethra Franklin.
In realtà tutto il post era teso ad arrivare a questa battuta.
La compagnia sta finanziariamente naufragando, però ora tutti noi dipendenti abbiamo dei biglietti da visita per mostrare che siamo pronti per il mondo del business. È come quando mi dissero – non so se sia vero – che una banca per cui avevo fatto un colloquio teneva ciclicamente sessioni di recruitment senza poi assumere quasi mai nessuno: serviva per mostrare all’esterno che il gruppo fosse in fase di crescita.
Considerando come se la passano oggi alcuni istituti bancari credo che questo trucco non reggerebbe più.
Avere un biglietto da visita personale mi fa sentire finalmente adulto.
Può sembrare una cosa da poco. Oggigiorno ormai chiunque può stampare un biglietto da visita alle macchinette del centro commerciale e scriverci su Hardware Customer Engineer, cioè che in pratica modifica le console dei videogiochi.
Dove è noto che il biglietto da visita sia un qualcosa che rasenta la sacralità, è in Giappone. Esiste infatti un insieme di rituali intorno al pezzetto di carta, che ha un grande valore: difatti si dice in Giappone che senza il pezzetto di carta non vai da nessuna parte.
La cosa non dovrebbe sorprendere, la vita intera di un giapponese è costellata di rituali. Dategli un’azione comune come mondare una cipolla e un giapponese la trasformerà in un rituale, perché magari mondare la cipolla è una metafora sul ripulire l’anima dalle impurità eccetera. In Giappone tale arte si chiama Soffuritto. Il Soffuritto è la base di partenza per il Ra Gu, altro sacro rituale di cui parlerò un’altra volta.
Il biglietto da visita in Giappone va consegnato tenendolo con due mani, rivolto verso il ricevente, in modo che gli sia immediatamente leggibile. Il gesto va accompagnato con un leggero inchino. Anche sugli inchini c’è tutto un galateo di rituali che eviterei di spiegare.
Per cortesia, comunque, non raccontate più in giro la storia che in Giappone gli insegnanti sono gli unici che non devono inchinarsi davanti all’imperatore. È suggestiva, ma è prima di alcun fondamento.
Chi lo riceve lo prenderà con entrambe le mani e lo leggerà con attenzione. Leggere con attenzione vuol dire che non basta notare che sopra c’è scritto Gintoki il Gatto – Esperto felino, ma bisogna soffermarvisi e ponderare la cosa, come a dire “Caspita, costui è Gintoki il Gatto – Esperto felino!”.
Un po’ come quando qualcuno appena conosciuto vi parla con trasporto ed entusiasmo delle sue occupazioni e voi annuite fingendo sorpresa e ammirazione: Ma non mi dire, collezioni statuine di cercopitechi in scala 1:10!.
La prossima volta che, quindi, qualcuno vi darà un biglietto da visita, ricordatevi queste indicazioni. Potrei essere io, magari!
Non ho idea di chi sia Lana Del Rey, o meglio, so che esiste una tizia che si chiama così che di professione fa la cantante ma non ho mai ascoltato nulla di sua produzione. Quindi voglio chiederle scusa per burlarmi con uno scontato gioco di parole del suo nome senza neanche essermi sforzato di conoscerla. Spero che questo non chiuda le porte a una possibile amicizia tra me e lei.
Madre è, come tutte le Madre di specie Mater italica, apprensiva. Anche più delle altre ma io ho sempre faticato a farlo capire all’esterno, perché ognuno con cui parlavo portava come esperienza quella della propria Madre e quindi alla fine si finiva a fare una gara a chi era più apprensiva e io mi sentivo incompreso nel mio disagio.
Anche se avrei gradito capire se fosse normale o meno che alle elementari affinché io potessi andare in visita guidata con la scuola, visita che si sarebbe estesa anche oltre l’orario scolastico, sarebbe dovuta venire anche lei.
Una volta riuscì ad aggregarsi in qualità di rappresentante di classe. L’anno successivo, invece, sorsero dei problemi nell’ammettere la presenza di un altro adulto oltre alle insegnanti. Forse mancanza di posto sul pullman, non ricordo con precisione.
Si aprì quindi una trattativa triangolare tra me e Madre a casa e me e le insegnanti a scuola. Altro che Chruščëv e Kennedy nel ’62.
Finché un giorno ricordo in classe si alzò un mio compagno che mi puntò il dito contro dicendo No Gintò, questa è una gita dei bambini, che c’entra tua madre?.
Sì, hai pienamente ragione.
Pensai.
Ma ricordami lo stesso che debbo darti un pugno nello stomaco a tradimento. Oppure ti ruberò una MicroMachine per poi fartela ricomparire dopo qualche giorno mandandoti in confusione e facendoti credere di essere perseguitato da un fantasma.
Alla fine, un po’ per tedio per il protrarsi della situazione, un po’ per dignità, dissi che rinunciavo alla gita. Che, ironia della sorte, fu poi anche annullata.
È in quell’occasione che venni per la prima volta a conoscenza del tremendo potere insito nelle maledizioni. Potere che, non so se per fortuna o meno, non sono in grado di controllare in maniera volontaria.
Non so se Madre sia stata sempre così o se ci sia stato un momento fondativo della sua apprensione. In quel caso lo ricollegherei a un episodio che ho già raccontato, cioè a quando all’età di 3 anni sono caduto faccia a terra dal divano, mentre lei si era allontanata un attimo, rompendomi i denti davanti.
Così sono stato un tipo poco incisivo fino ai 6 anni circa.
Mi chiedo se quel momento mi abbia reso ancor più vulnerabile agli occhi suoi. Magari mi sarei risparmiato qualche premura eccessiva.
La maglia di lana, ad esempio.
Tutti ne sono stati costretti.
Io però della mia infanzia ricordo di aver sempre avuto una maglia di lana addosso. Fino ai 10-11 anni non rammento di aver visto il mio torace.
Il passaggio dalla maglia alla canottiera fu una conquista successiva, una rivoluzione estetica come quando Mary Quant lanciò la minigonna.
Secondo me le madri considerano la maglia di lana come un oggetto di fattura elfica, in grado di assicurare protezione dagli agenti atmosferici e dagli spiriti maligni. Prova è che le maglie che non mettevo più venivano riciclate per foderare la cesta dei gattini e che quindi anche loro necessitassero dell’aura protettiva della mitica maglia.
“Frodo…mettiti la maglia di lana prima di uscire, da bravo”
“Madò, di nuovo…sai come mi piglieranno per il culo giù in Contea”
Si dirà che la maglia della salute aiuti ad assorbire il sudore evitando che ristagni e si raffreddi sulla pelle.
È completamente giusto.
Ma se è la maglia stessa a portar troppo caldo e a far sudare c’è qualcosa che non mi torna.
Legge del contrappasso ha voluto che, per aver odiato tanto la maglia della salute, con lo sviluppo il mio torace sia diventato un po’ villoso e, ora, è come se girassi sempre con una maglia di lana indosso!
È con questa splendida immagine mentale auguro un buon inizio settimana!
Solo un aggiornamento perché ormai diventerà a breve di dominio pubblico il vero motivo per il quale io mi sono trasferito a Budapest!
Ungheria, camicia a scacchi nuovo simbolo di opposizione
Università, deputati contro politica educativa di Orban
(ANSA) – BUDAPEST – Nell’ambito del dibattito pubblico contro un sistema educativo troppo centralizzato e gli stipendi bassi, l’opposizione ungherese sembra aver trovato un nuovo simbolo comune nella camicia a scacchi. Secondo quanto riportato dal portale Hungary Today, in seguito alla battuta dell’ex sottosegretario per l’alta educazione, István Klinghammer, contro i “docenti non rasati, trasandati che camminano in giro con le loro camicie a quadretti”, centinaia di insegnanti e studenti ungheresi si sono presentati vestiti così in segno di solidarietà con i protestanti.
Nei scorsi giorni su Facebook sono apparse numerose foto di intere classi in camicia a scacchi, mentre i rappresentanti di due partiti di opposizione, i socialisti MSZP e i nazionalisti radicali Jobbik, si sono presentati in aula indossando lo stesso vestiario. (ANSA).
Nella primavera del 1994 la mia scuola elementare venne invasa dalle zecche. Dato che non c’erano immigrati extracomunitari contro cui puntare il dito, sotto accusa per aver portato alla sgradevole presenza finirono:
– il circo che aveva occupato uno spiazzale* a ovest dell’area dell’edificio scolastico;
– il mercato rionale che si tiene ogni giovedì, in un parcheggio a est della suddetta area;
– il terreno incolto sul retro dell’edificio, caratterizzato da un’alta vegetazione infestante;
DIDASCALIA PERPLESSA
In che modo un mercato rionale possa far da veicolo alle zecche mi sfugge: primo perché si tiene una volta alla settimana per mezza giornata, un tempo a mio avviso non sufficiente per una migrazione di parassiti. Secondo, perché è un mercato di frutta, verdura e vestiario e non una fiera di bestiame. Terzo, perché se fosse stato così le massaie della città sarebbero state le prime a essere vittima dei fastidiosi acari.
Il circo sarebbe più indiziabile, per la presenza di animali. Ma prima di dare la colpa agli estranei forse sarebbe stato il caso di considerare di mantenere puliti i dintorni della scuola e disboscare la giungla di gramigna che la attorniava: cosa che, guarda il caso, fu fatta dopo la disinfestazione. Con buona pace dei circhi che negli anni hanno continuato a far tappa nella nostra città e occupare il medesimo spiazzale*.
* NOTA LINGUISTICA
Nello scrivere sono stato colto dal dubbio se ‘spiazzale’ fosse un termine diffuso in italiano o meno. Mi sono reso conto che si tratta di un meridionalismo, derivato dal più noto ‘piazzale’ che a sua volta, com’è ovvio, deriva da piazza. Ero quindi tentato di correggere, ma considerato che questo è un post dall’argomento local, l’utilizzo del meridionalismo lo considero una nota di colore.
– infine i cani di Italia, la custode della scuola, due pastori tedeschi cui la padrona era solito dar ricovero di notte nel sottoscala.
Italia – il cui nome era realmente questo, probabilmente i genitori erano particolarmente patriottici, oppure la nonna doveva essere nata quando fu proclamata l’unità d’Italia* – era una donna sulla 60ina, dai capelli tagliati come Bowie negli anni ’70, con un ciuffo bianco centrale e un contorno grigio che virava sul nero verso la nuca, il volto arcigno e severo come Toro Seduto e due sopracciglia nere folte che sembravano due bruchi pelosi che si incontravano.
* BREVE DIGRESSIONE SULLA ‘SUPPONTA’ Supponta in napoletano vuol dire puntello, appoggio, rinforzo. Potrebbe derivare da un latino volgare sub + punctam, ma non mi addentrerei in queste ipotesi. Il termine oltre al significato letterale ne ha anche uno figurato: per supponta si intende l’usanza di mettere a un bambino il nome del nonno o della nonna. In questo caso, quindi, si dà un “rinforzo” al/alla nonno/a assicurando la sopravvivenza del suo nome.
La custode negava che i proprio animali fossero infestati, difendendone la cura e la pulizia. Con un’uscita poco felice una volta disse che era più probabile potesse essere qualche bambino a portare le zecche a scuola e infettare i suoi cani. Una frase che oggigiorno finirebbe su facebook nel giro di qualche ora e poi al tg1, prima di tornare su facebook pubblicata su “Ah ma non è Lercio”.
La scuola venne chiusa e noi studenti costretti a frequentare, nel turno pomeridiano, un altro plesso: quello di Fratelli Bandiera.
Fratelli Bandiera era una zona considerata di serie C: erano quelli di là del cavalcavia, quasi considerati non concittadini perché residenti a ridosso del Comune vicino.
Non so come si accese la situazione, credo qualche bambino dei nostri avesse fatto a botte con uno degli altri, fatto sta che si aprì un velato conflitto tra gli autoctoni e noi studenti sfollati. I genitori degli studenti di FB non vedevano di buon occhio la nostra presenza. Qualcuno addirittura mise in giro la voce che potessimo portare le zecche nella loro scuola.
Non ne sono sicuro, ma magari qualcuno potrebbe aver detto che invece di darci ospitalità avrebbero dovuto aiutarci nella scuola nostra.
Ricordo una vivace riunione di emergenza genitori-insegnanti per discutere della questione.
Com’è come non è, le settimane passarono e a FB restammo sino alla fine dell’anno scolastico. Di zecche non sentimmo più parlare sino a settembre, quando in autunno ritornarono a visitarci.
Nonostante pareva avessimo risolto le nostre divergenze con quelli di Fratelli Bandiera, il plesso scelto per ospitarci questa volta fu un altro. Pare che al di là cavalcavia la frontiera fosse stata chiusa.
Prima di passare al turno pomeridiano, la mia classe per un paio di settimane fu parcheggiata nella zona mensa della scuola che ci ospitava. Facevamo lezione su panche e tavoli e, visto che era una zona open space, eravamo sempre accompagnati dal via vai dei bambini delle altre classi che andavano al bagno e che ci fissavano con curiosità mista a quell’irriverenza infantile che ti fa tanto voglia di umiliare il pargolo per vendetta come Giovanni Storti in “Tre uomini e una gamba”.
In quel periodo i miei contatti con gli autoctoni non furono molti, a parte:
– una conversazione nei bagni con uno che si riteneva un esperto di calcio e che sosteneva che Ariel Ortega, di cui all’epoca si diceva stesse facendo meraviglie al River Plate, l’anno successivo sarebbe stato acquistato dal Napoli;
DIDASCALIA SPORTIVA
Ariel Ortega, detto El Burrito (l’asinello) – sapete che in Argentina c’è la moda di dare soprannomi ai calciatori, ad esempio io probabilmente sarei stato El Gatito – è un ex calciatore che resta uno dei grandi misteri del calcio anni ’90: bidone o genio incompreso? Etichettato come nuovo Maradona, al suo sbarco in Europa (mai al Napoli, per la cronaca), ha collezionato prestazioni intermittenti che lo hanno messo in luce per essere più fumoso che incisivo.
– uno scherzo che mi fecero tre compagni che fecero circolare la voce che mi interessasse una della classe che dava sulla nostra sala open-space: fecero arrivare alla suddetta una mia presunta dichiarazione d’amore nei suoi confronti. Due emissarie della tizia vennero poi a comunicarmi il suo rifiuto, al quale io risposi con una frase poco elegante. Il dubbio che mi tormenta da 10 anni a questa parte, cioè da quando un mio amico si è fidanzato con una ragazza, è che proprio questa ragazza possa essere la bambina di quella volta: perché se è pur vero che crescendo si cambia è anche vero che la somiglianza resta.
Il secondo dubbio che mi è venuto in mente è che il bambino presunto esperto sportivo che incontrai in quinta elementare fosse quel ragazzo che al liceo era noto per essere un noto sbruffone contaballe, oltre che convinto di essere dotato di grandi doti pedatorie: così noioso e arrogante che nessuno voleva invitarlo mai a giocare a calcetto.
E tutto questo per colpa delle zecche, che, voglio togliermi il sassolino dalla scarpa, furono portate nella scuola dai cani della custode dopo aver scorrazzato nei terreni erbosi.
La morale della favola è che prima di puntare il dito all’esterno, bisognerebbe guardare l’Italia.
Al liceo era alquanto sbruffone e arrogante.
Non era un bulletto, ma amava far battute stupide e scherzi. Si riteneva molto simpatico. La sua simpatia a volte poteva danneggiare l’intera classe, come quelle volte che ci si beccava note sul registro o interrogazioni a sorpresa a raffica a causa delle bravate sue e dei suoi due sodali durante il cambio degli insegnanti.
Nonostante una simpatia discutibile, con il nucleo consistente della classe era in confidenza, tanto da partecipare alle loro feste. Feste dalle quali noialtri eravamo esclusi in quanto personaggi poco interessanti. Comprendo che fosse più interessante chi dimostrava di poter produrre eruttazioni senza coca cola o altra sostanza ruttodopante, sono abilità che fanno invidia. Io però so arrotolare la lingua a U, solo che non me ne sono mai vantato, mannaggia.
Ricordo quando al terzo anno si mise con una della stessa sezione ma di un anno avanti.
Al quarto anno fu sospeso tre giorni per aver abbandonato l’edificio scolastico un’ora prima, solo per saltare l’ora di religione. L’aveva fatto altre volte ma in quell’occasione fu, come si suol dire, sgamato. Cambiò scuola, o meglio, la famiglia gli impose di andarsene in un paritario.
Non mi dispiacque affatto. Chi è causa del suo mal….
Capita oggi che, per conoscenze comuni, ci si ritrovi a frequentare lo stesso giro e quindi ci si incontri per strada o a casa di un amico di entrambi. Sta ancora insieme a quella ragazza, si sono sposati e ora hanno anche un bambino.
Tutte le volte che l’ho visto non ho potuto far a meno di notare una cosa. Parla poco e niente e ha sempre lo sguardo da cane bastonato. A volte lo vedi seduto con la testa leggermente bassa e il busto curvo. Non è l’anima del gruppo, non fa battute, non socializza. Ad una festa si presenta giusto per presenziare, sta in disparte e poi scappa via molto presto. È chiaro che, essendo un padre di famiglia, non possa a 29 anni mettersi a fare la vita di un 18enne e stare fuori tutte le sere sino alle 4 del mattino. Ma la vita non è fatta di estremi.
Una persona che conosco, amica della sua famiglia, ha incontrato di recente lui e la moglie. Per tutto il tempo ha parlato solo lei, seppur tra la mia conoscente e la suddetta non ci sia confidenza, anzi non si conoscono affatto.
“Stiamo parlando di tuo figlio, di’ qualcosa anche tu!” pensava la persona che li ha incontrati. Invece nulla.
Mi hanno detto che a casa porta lei i pantaloni.
Non fatico a crederlo, dato che è lei a mantenere la famiglia mentre lui è ancora all’università.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.