Non è che metti la camicia di forza a un burattino perché è un pu-pazzo da legare

Le grandi domande vengono sempre in momenti in cui la mente è libera di vagare. Mi succede mentre lavo i piatti, mentre mi trovo sotto la doccia, mentre guido in auto verso casa lungo la strada che avrò percorso migliaia di volte.

Oggi durante una lunga minzione, stanco di fissare le piastrelle e ancor più di contemplare l’organo deputato all’atto – già contemplato forse troppo durante l’adolescenza costandomi qualche diottria – mi sono come assentato e lì mi è venuta questa curiosità: ma il pupazzo Uan, che fine avrà fatto?

Avevo già sentito parlare del suo destino ma non ricordavo la storia. Facendo qualche ricerca, ho scoperto che Uan, insieme ai suoi colleghi Four (un orso col naso rosso che io chiamavo sempre Ciao invece, visto che era presente nella trasmissione Ciao-Ciao) e Five (un drago giallo di cui invece non ho memoria), è sparito più di 10 anni or sono.

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I fatti. Giunta l’ora di andare in pensione, a inizio anni 2000 i tre pupazzi sono finiti ospiti della Scuola di Teatro di Milano Paolo Grassi. Me li immagino lì a raccontare ad annoiati studenti dei loro trascorsi televisivi e di quando hanno incontrato questo o quel personaggio famoso.

Finché una notte del 2005 il fattaccio: qualcuno irrompe nella scuola e se li porta via.

La storia, però, secondo me non finisce qui: io sono convinto che i tre abbiano semplicemente inscenato il proprio rapimento per uscire di scena e andarsi a godere una vecchiaia tranquilla su qualche isola della Grecia dove non li avrebbero trovati. In fondo sapete quante cazzo di isolacce deve averci questa merda di una Grecia? (cit.).

Chi può dar loro torto? Pensate a essere costretti a lavorare con Paolo Bonolis. E con qualcuno che ti infila una mano su per il sedere tutto il tempo, non potendo denunciare per il rischio di perdere il posto di lavoro. Facile dire: Perché non hanno detto nulla?. Sapete quanto è difficile per un pupazzo peloso rifarsi una vita?

A proposito del subire atti molesti, sabato un’amica mi ha raccontato di alcuni episodi che le son accaduti.

Ha deciso a 35 anni di prendere la patente e, ricevuto il foglio rosa, ha iniziato a far le guide con l’istruttore, un placido signore – così sembrava – over 60.

In auto costui si è rivelato abbastanza monotematico: i suoi discorsi finivano sempre su un solo argomento. Un esempio: Eh i giovani d’oggi non sanno che farci con una donna, magari vedono una bella ragazza e subito è tutto finito, non hanno l’esperienza di un adulto…

Per non parlare di quando commentava qualche passante donna per strada.

Pazienza, la mia amica non ci bada molto a queste cose. A 35 anni di persone che credono di esser simpatiche se ne sono già viste.

Ha iniziato ad accorgersi però di una sua progressiva “invasione fisica” nel corso delle guide: per darle indicazioni ha iniziato a mettere la mano sulla spalla o sul braccio. Va be’, pazienza.

Poi un paio di volte per dirle di guardare bene lo specchietto le ha girato il mento con la mano. Va be’, pazienza.

Poi per dirle di fare attenzione ha iniziato a metterle una mano sulla coscia. Va be’, pazienza.

Poi per aiutarla a sterzare ha steso il braccio sfiorando la tetta.

Al secondo sfioramento mammellare “involontario” la mia amica gli ha allontanato la mano dicendo che la distraeva.

Io ad ascoltare il racconto ho detto che per me queste son molestie.

Lei concordava con me, ha detto che il giorno dopo quest’ultimo episodio si è sentita malissimo, sia per non aver realizzato subito dei suoi atteggiamenti sia per non aver reagito prima. Le ho chiesto come mai non l’avesse fatto e ha detto che lì per lì era troppo agitata per la guida e magari poi si trattava solo di una sua impressione.

Io penso che se il giorno dopo uno ci sta male non può essere stata soltanto un’impressione. Così come un atteggiamento molesto non deve per forza implicare qualcosa di palese e violento. Molesta è qualunque intromissione – non autorizzata – nella propria sfera personale, mentale e/o fisica.

Ho consigliato alla mia amica, la prossima volta, di rompere con un pugno le “sfere personali” dell’istruttore, nel caso si ripetesse la storia.

 

Non è che se vai fuori porta devi sentirti uno zerbino

Quando mi hanno proposto una gita fuori Budapest ho accettato a scatola chiusa. Anche perché era previsto del vino, quindi occorreva conoscere altro? La risposta è sì, prima di accettare di passare un weekend con cinque uomini scorreggioni e privi di senso organizzativo.

La meta era Szekszárd, una delle tante città piene di consonanti inutili.
Difatti, molto semplicemente, si legge Secsard.
Che suona tanto come Sexhard, particolare che si rivelerà fondamentale.

In auto:
– Allora, ma alla fine sapete di preciso cosa andremo a vedere?
– No
– Come?
– Noi l’abbiamo scelta per il nome: appena saputo di Sexhard abbiamo detto “Bisogna andare!”
– Sul serio?
– Certo! Dai, stiamo andando a Sexhard!
Ho capito, mi stanno perculeggiando…stiamo al gioco

Invece parlavano sul serio.
Su sei persone, nessuno aveva ben chiaro cosa ci fosse in questo posto.

Szekszárd è questa:

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“Dai, carina!”
Ho sbagliato a scrivere.
Szekszárd è solo questa.

C’è più vita nelle foglie morte che nei suoi trentamila abitanti.
Che vivono tappati in casa probabilmente, visto che a qualunque ora del giorno per strada non c’è nessuno. I negozi durante la settimana chiudono alle 17:30. Il sabato alle 12:30.

Esistono due locali di “movida”, che si rubano i clienti a vicenda, visto che quando uno è pieno (per pieno intendo 50 persone) l’altro è vuoto.

L’ultimo turista si è estinto prima della Caduta del Muro, come testimonia questo cartello indicante un ufficio turistico (che non esiste più), rimasto a imperitura testimonianza dell’esistenza, in un’aurea epoca passata, di una vita turistica a Szekszárd:

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O forse è un fake di un cartello invecchiato ed è stato posto in epoca recente per inventare un passato che non è mai esistito.


In un sottoscala di uno dei palazzi sulla sinistra della piazza del paese c’è un pubettino.

Appena entrati, la giovane fauna maschile presente ci ha squadrati con occhiate inquisitorie, continuando a fissarci come in un film di Sergio Leone.

La giovane fauna maschile autoctona esteticamente si presenta più o meno simile a costoro:


Che sarebbero Spitty Cash – un ex fenomeno (da baraccone) di YouTube – e un suo sodale.


Tute adidas di acetato, occhi bovini, crani enormi – inversamente proporzionali all’encefalo – pompatissimi ma solo dal petto in su cosa che conferisce loro un aspetto da lampadina a bulbo.

Sono sicuro che voi lettori, dall’alto della vostra mentalità borghese eurocentrica e anche un po’ radical chic commenterete con un Ommiodio! sarcastico e denigratorio, ignorando che, come diceva Madre Teresa, Da che punto guardi il mondo tutto dipende.

Per la giovane fauna femminile locale, esemplari simili rappresentano l’ideale di maschio dominante e appetibile.

Szekszárd comunque è nota per due cose: il vino e l’oca. In piazza, poco più avanti, sotto un tendone c’era una festa dell’oca in cui era presente anche il vino, di pregevole qualità.

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L’analisi organolettica non lascia dubbi: è rosso

Il cibo era tutto a base del simpatico volatile: cosce d’oca, soufflé ripieni di oca, paté di fegato d’oca, lángos con pezzi di oca, dolcetti ripieni di fegato d’oca, forse anche i tavoli e le sedie erano di fegato d’oca.

Qualcuno degli autoctoni, come in tutte le feste di paese, ieri sera a un certo punto ha esagerato col vino, diventando molesto. La sicurezza, composta da due omaccioni bovini – probabilmente i padri dei sex symbol che frequentano il pub di cui sopra – lo ha preso di peso, portato fuori dal tendone e abbandonato svenuto su una panchina.

Nota: c’era nevischio e 2 gradi sottozero.
Non abbiamo avuto il coraggio di tornare la mattina dopo a controllare se fosse ancora vivo o fosse morto lì.

Oppure l’avranno usato come ingrediente per il paté di fegato: per strada non si vede anima viva e di oche non ne ho viste in campagna.

Che fine hanno fatto gli abitanti di Szekszárd?

Spiegai le vele al vento, ma il vento non le capì. E il pollo disse: “Anche io non so se mi spiedo”

Ho visto al cinema il film dei Cavalieri dello Zodiaco. Tralascio ogni tentativo di recensione, limitandomi a commentare che il connubio tra operazione nostalgia e innovazione mi ha soddisfatto a metà. È stato comunque un piacere ascoltare i vecchi doppiatori, anche se:
a) hanno insistito con l’usare ancor oggi, nel XXI secolo, i nomi delle costellazioni per i personaggi (e dire che da piccolo non sapendolo mi dicevo “Toh, guarda quello lì: si chiama Pegasus e ha ottenuto l’armatura di Pegasus! Coincidenza? Io non credo”)
b) i dialoghi non erano di stampo epico-cavalleresco (una soluzione voluta dal doppiaggio italiano all’epoca) come quelli di un tempo.

Qual magniloquenza a quel tempo nel sublime eloquio di Milo di Scorpio!

Detto questo, ciò che mi ha colpito negativamente è stato l’immancabile spiegone a inizio film che, immagino per esigenze di durata, è stato barbaramente affidato a una breve conversazione in auto tra Lady Isabel e il suo maggiordomo-tutore-tuttofare.

Insomma, immaginate la scena: voi siete una ragazzina 16enne che, con lo sguardo perso verso l’esterno del finestrino, ve ne state a pensare ai saldi da Desigual e Tezenis, quando interrompono il vostro flusso di pensieri dicendovi: “Signorina, lei lo sa che è una divinità e che fin dai tempi antichi dei baldi giovani si ammazzano di botte perché a lei non piace combattere in prima persona?”.

Semplicemente assurdo.

E poi ho riflettuto sul fatto che gli spiegoni sono un grande tallone di Achille della cinematografia in generale. Sono necessari, ma non si sa mai quando e dove infilarli. Io li odio a prescindere e vorrei avere un telecomando col tasto skip per saltarli. Sono un nazista seguace del Show, don’t tell. Anche perché trovo del tutto irreale che qualcuno, di punto in bianco, si fermi a dare spiegazioni dalla A alla Z.

Riflettendo, sono invece giunto alla conclusione che alcune volte anche le persone nel mondo reale agiscono in tal guisa. Si prodigano a dare spiegoni del tutto fuori luogo, cosa che ti fa desiderare il famoso telecomando col tasto skip da puntare contro il proprio interlocutore.

In molti casi lo spiegone non è affatto richiesto e assume toni vagamente autogiustificatori (excusatio non petita, accusatio manifesta?).

In altri, lo spiegone è un insieme di panzane tese a mascherare una realtà più negativa, perché spiegando le cose a modo mio posso cercare di trovare un senso a ciò che è accaduto quando in realtà senso logico se ne fa fatica a trovarne. Stordita dallo spiegone, una persona si illude che invece una logica ci sia.

Alla luce di ciò è meglio affidarsi a ciò che si vede, piuttosto che a ciò che si ascolta.

Eppure ancor oggi lo spiegone sembra necessario al prosieguo delle trame delle nostre vite.

Guarda quanti mondi. Guarda, mondi di quanti. E tu cosa cerchi?

Dal punto di vista della meccanica dei quanti potrebbero esistere gli universi paralleli. O forse no. O forse sì. O forse esistono e non esistono contemporaneamente, perché nella mia ignoranza ciò che ho capito di fisica quantistica è che tutto è vero e tutto è falso insieme. Un po’ come la storia di Schrödinger  e dei suoi gatti.

Una volta rimasi colpito da questa frase:

La bugia, finché non la scopri come tale, è verità.

Bella vero? È Coelho.

Falso.
Ergo Proxy (sta cominciando a piacermi questo gioco. Attribuisci anche tu citazioni a caso a personaggi tra i più citati in rete).

La frase poi continuava così
Scoprire la verità che si cela nella bugia forse è giusto ma non è detto che ciò ti dia la felicità

Che un po’ quel che diceva Caterina Caselli, la verità ti fa male lo so. Sembra che molte persone siano spaventate dal venire a contatto con la verità, preferendo rimanere nello stadio precedente di non conoscenza. È anche questo un mondo parallelo, una realtà a parte in cui ci si rinchiude.

D’altro canto, una cosa può quindi essere ritenuta reale fino a quando non si interviene per appurarne la veridicità: ma nel momento in cui lo si fa, potremmo riprendere, si è compiuta una manipolazione del sistema, invalidando la verifica.

Se questo sia sempre vero, non lo so.
So che ad esempio se sono in coda e c’è la fila di fianco che sembra scorrere più veloce (il più delle volte è solo un’impressione), se mi sposto, la fila che ho lasciato sembrerà prendere a scorrere essa stessa più veloce. Lo avrebbe fatto lo stesso se fossi rimasto al mio posto? Magari sono io a rallentare il traffico?

Ecco, sarebbe bello trovare delle risposte sulla piccola realtà quotidiana con degli esperimenti di fisica. In realtà penso che già qualcuno li faccia, basti pensare al fatto che esistono i Premi Ig Nobel per premiare le ricerche scientifiche assurde o improbabili.

Io vorrei ad esempio qualcuno che studiasse il metodo migliore per entrare in auto quando piove, bagnandosi il meno possibile. Io non ho ancora capito se

1) Con l’ombrello aperto, apro la portiera, chiudo l’ombrello, entro in auto
oppure
2) Con l’ombrello aperto, apro la portiera, mi siedo tenendo con la mano sinistra l’ombrello fuori, lo chiudo, chiudo la portiera

cambi qualcosa.

Quindi in virtù di ciò, oltre all’esempio fatto sopra, avrei qui una lista di suggerimenti per ricerche scientifiche che, anche nel caso non portassero vantaggi all’umanità, almeno soddisferebbero la mia curiosità:

  • Il modo migliore per staccare lo scotch trasparente evitando che il pezzo appena tagliato si attacchi o attorcigli su sé stesso o che si pieghi attaccandosi sotto al bordo del tavolo
  • Se esiste un fondamento scientifico al fatto che una persona, di spalle, se osservata, si giri
  • Un modello matematico che spieghi la percentuale di calzini che si perdono durante il lavaggio
  • Il tasso di scomparsa tra le mura domestiche degli oggetti inutili che improvvisamente ti servono e non trovi più
  • La popolazione umana che tra 50 anni avrà la gobba da smartphone e il peso che avrà tale patologia sulla spesa sanitaria
  • Uno studio maxillo-genetico sulla popolazione maschile bianca statunitense che trovi le cause della mascella ipertrofica di cui sembrano affetti molti uomini adulti (e anche qualche donna, direi)
  • Il motivo per cui un gatto se ne sta immobile per ore davanti a una porta chiusa o una ciotola vuota e, poi, una volta aperta la porta o riempita la ciotola di cibo, se ne va voltandoti le spalle

Come sempre, sono ben accetti suggerimenti. C’è qualcosa che vorreste la scienza vi rivelasse?

Interpretazioni di geometria euclidea sui migliori mali dei nostri tempi

Da un punto passano infinite rette, ma tra due punti se ne può tracciare una e una sola.

Indi per cui, un individuo solitario posizionato in un punto dello spazio può guardare in tutte le direzioni, ma tra due persone in un dato istante di tempo N può sussistere uno e un solo tipo di interazione ben definita. A volte decisa da uno solo dei due.

Amici, nemici, indifferenti, amanti, odianti. Una e una sola.

È il nome che vogliamo dare a questo tipo di interazione che ci causa un disagio. Accade quando le aspettative son superiori (o anche inferiori) a quella che è la realtà connessa.

Viviamo di connessioni.
Ringrazierò qualche ignoto internato in un call center che me ne ha data una. Uno delle migliaia di schiavi che valgono 3/4/5 euro l’ora che riempiono tali piantagioni di cotone del XXI secolo. Prima o poi finiranno anch’esse tutte delocalizzate. Chiedo assistenza e già mi rispondono dall’Albania o dalla Polonia. Adesso resta solo che ci delocalizzino le bestemmie e poi non avremo più nulla; forse possiamo ancora resistere, perché all’estero non hanno l’inventiva e la creatività nostrana nel vilipendio alla religione. Modestamente ne so qualcosa e tu lo sai, mi hai ascoltato in auto, continuando a dire quanto buono e bravo sia io. Come tante altre cui non so come far cambiare idea. Mi darò un’aria da duro andando a spaccare lampioni con la mia fionda-stecco del Doctor Strabik della Eldorado, un gelato apparso e scomparso nel giro di poco tempo secondo me, perché non è stato capito.

Ho sempre la terribile sensazione di non essere compreso, come una X posizionata tra 0 e infinito, impressione che si amplifica quando mi si pongono determinati discorsi.

Tu hai bisogno di una donna fatta in questo modo, afferma quest’altra, passando a elencare le caratteristiche del profilo ideale: e ho sempre l’impressione che mi stia facendo uno spot elettorale con lei stessa come candidata.

Nulla di male in ciò, ma c’è un problema. È vegana.

Per carità, è una cosa bellissima e lodevole, ma io non voglio che mi mandi le foto del suo pranzo a base di pasticcio di seitan e tofu, non voglio che se usciamo e ordino una fiorentina da 1 kg mi conti i giorni che mi restano da vivere e non voglio che mi dia il buongiorno con le migliori frasi di Fabio Volo o chi per lui. Dimenticavo questa attitudine al citazionismo spicciolo, con tanto di foto di un tramonto in spiaggia con due ali di gabbiano a forma di sopracciglia nel cielo e una frase di contorno.

Anche io amo le citazioni, ho una Moleskine dove annoto quelle che mi piacciono. Però porco cane io le prendo da libri che ho letto o film che ho visto, non apro il primo link a caso su Facebook condividendo con tutti che

Là c’è una porta rossa, la vorrei tinta in nero.
Niente colori tutto dipinto di nero.
Io volterò la testa fin quando arriva il nero.
Là c’è una fila d’auto, sono tutte nere, coi fiori e col mio amore che non tornerà più.
Io se mi guardo dentro vedo il mio cuore nero.
Poi forse svanirò e non dovrò più guardare la realtà.
Come si fa… ad affrontar le cose se tutto il mondo è nero?

Bella vero? È Garcia Lorca.

Sbagliato.
Mick Jagger.

Alla fine si tratta di trovare la quadratura del cerchio.

Siamo complementi d’arredo umano, balliamo questa lampada perché ho qui una buona ikea

Periodicamente mi sento di diventare arido e dall’interpretazione dei sogni passo all’interpretazione dei soldi, anche se in quest’ultimo caso ci sono pochi margini di ragionamento. O ci sono o non ci sono.

Anche i sogni possono esserci o non esserci e ho constatato di essere una delle poche persone che li racconta. La maggior parte delle persone, anche quelle con cui ho avuto più confidenza, dice di non ricordarli. Non so se sia un’affermazione sincera oppure no, in fondo i sogni sono la cosa più intima che abbiamo e non hanno filtri, quindi ci possono essere esitazioni nel raccontarli.

Anche io a volte non ricordo i sogni, a meno che, dopo il risveglio, non li ripeschi su a galla riflettendo su una cosa particolare che c’era in una determinata sequenza onirica. A quel punto, il sogno si fissa nella mia memoria accessibile, diventando un oggetto in più nei miei pensieri.

Alle volte, invece, sono io che penso di essere un oggetto in più. In qualunque ambiente mi trovi, in qualunque contesto, sento di essere un complemento d’arredo. Che può anche avere una propria funzione, ma di cui ci si può dimenticare l’esistenza. Insomma, guardate mai gli appendiabiti? Io no, anche perché quando sono utilizzati sono coperti.

Aforisma: Gli appendiabiti, se servono, non si vedono. Se si vedono, allora è perché non servono. [Gintoki 2014]

Allora forse è per questo che racconto i sogni, per dire guardate, non faccio l’appendiabiti ma m’illumino. Sono una lampada che va per conto proprio, perché s’accende a sorpresa.

La Trenta dei Guerr’anni

Per questo post dovrei aspettare qualche mese, ma mi è venuto in mente ora e quindi nasce prematuro (ma sano e in forma).

Hai 30anni ma a calcetto riesci a reggere lo scatto di un 18enne e stargli dietro.

Hai 30anni e indossi magliette che avresti voluto a 15anni ma non avevi. Grazie internet.
Per la curiosità: la marca è Akumu Ink, non si riesce a leggere la targhetta (dlin dlon: sponsor time).
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Hai trent’anni e, ok, ammettiamolo che ora preferisci i concerti dove ci si può sedere. Però pogare non ti ha ancora stancato.

Hai 30anni e reggi l’alcool ancora bene, anzi molto meglio.
Forse non è una cosa positiva.

Hai 30anni e una barba vera e non peli sparsi arruffati.
Peccato solo sulle guance siano ancora come le zolle di un campo da calcio di periferia

Hai 30anni e ti senti più attraente di quando eri adolescente. Non era difficile, bastava togliere gli occhiali e usare meglio il sapone.
Scherzo.
Stai bene pure con gli occhiali.

Hai 30anni e letto molti più libri.

Hai 30anni e visto posti che non avevi visto e non pensavi l’avresti fatto.

Hai 30anni e continui a essere ansioso, ma ora lo gestisci meglio.

Hai 30anni e assaggiato un sacco di cucine (e anche qualche lavatrice e dei complementi d’arredo, ah ah…ah. Ok) e mangiato cibi che da adolescente non ti piacevano.

Hai 30anni ma te ne danno qualcuno di meno, mentre a 17 invece te ne davano di più.

Hai 30anni e sei fuori dal tunnel del divertimento: non ti devi giustificare se ti senti stanco o se non ti va di fare qualcosa, puoi sempre dire che hai bisogno di meditare e di riflettere, magari restando a casa con un tè e un film di Tarkovskij (fa’ niente che poi sia Playstation e Dragon Ball, è il principio!).

Hai 30anni e una minore esigenza di dormire più ore di seguito. In compenso di giorno ti addormenti in treno, sulla metro, in aereo, in auto (quando guidano gli altri). Questa si chiama ottimizzazione del sonno, è una scienza (ecco, penzate, la scienza…).

Hai 30anni e tutti dicevano che il tuo metabolismo sarebbe rallentato e avresti cominciato a ingrassare. Invece sei ancora magro come a 18.

Hai 30anni e, tutto sommato, lavori o hai lavorato. Meglio rispetto ai tempi in cui, come un piccolo scrivano fiorentino, su una piccola scrivania illuminata dalla fioca luce di una lampada a risparmio energetico comprata al Bricocenter (dlin dlon: sponsor time) rimanevi chinato fino alle 2:00 sulle 1050 pagine del libro per l’esame di Storia della blablaologia dall’Età dei Lumi all’era delle luminarie.

Hai 30anni e non ti fai prendere più in giro da una farmacista (si veda post precedente), ma magari esclami “Ehi, che dici, li andiamo a provare insieme (alzando e abbassando le sopracciglia in preda a un tic isterico)?”.
Ah. No. Questa era solo una fantasia erotica.

Oh, tutto sommato non mi sento poi così malaccio. Metterò questo post nei preferiti per rileggerlo nei momenti di sconforto.

Di recente una persona, mentre le parlavo degli esaurimenti nervosi dei miei coetanei, ha detto “No, non voglio arrivare a trent’anni così, io spero si guarisca”.
Io dico arrivaci, invece. Ci si diverte 😀

Obbligo dopo il semaforo. Doveri? Dov’eri?

In auto fermo al semaforo ieri mi si è avvicinato il lavavetri/vendi fazzoletti-arbre magique. Tra parentesi, perché i fazzoletti che vendono sono sempre della stessa marca? È un brand che ha sviluppato una strategia di marketing face to face, direttamente dal produttore al cliente?

Di lavavetri lungo la strada c’è un’intera squadra, anche se stanno diminuendo di numero perché stanno “rotondizzando” il tutto. Sarò sincero, alcuni hanno un atteggiamento fastidioso: si lanciano sul vetro prima che tu possa dire no. I più furbi, seguendo la tecnica del buscar el levante por el poniente attaccano invece il vetro posteriore cogliendoti di sorpresa prima che tu possa attivare il tergicristallo.

Altri invece sono più discreti e cauti. Ieri uno di questi si è avvicinato al finestrino e si è messo a parlare con me:
– Ciao amico. Vai al lavoro?
– Eh sì.
– Casa come va, figli come stanno?
(rido) Non ho figli e non sono nemmeno sposato.
– No, perché tu non fare matrimonio? Tu sposare, sei grande, hai trent’anni.

Il semaforo intanto si era fatto verde e son dovuto ripartire, ma prima gli ho lasciato qualche spicciolo, che tanto non avrei consumato mai. Avete notato? Le banconote subito spariscono dal portafogli mentre le monete si accumulano lì una dopo l’altra finché non ti viene un ematoma alla chiappa a forza di sedertici sopra.

Proseguendo mi son chiesto che ne sapesse mai lui che io ho trent’anni.  A parte che sono 29, vorrei precisare. Poi, di pomeriggio, davanti lo specchio ho notato una cosa: mi è spuntato un capello bianco. Ecco, ho capito: il lavavetri l’avrà notato.

Ho riflettuto su questa cosa del “doversi sposare”, come fosse una cosa indipendente dalla tua volontà: un obbligo, una tappa da raggiungere.

Certo, potrebbe essere così nelle zone di provenienza del mio simpatico interlocutore, dove ci si sposa molto giovani e, delle volte, proprio per imposizione. Ma anche dalle nostre parti sussiste una sorta di obbligo morale da dover assolvere.

Mi ha fatto tornare in mente un episodio della mia infanzia, legato a un altro sacramento. Un giorno in famiglia mi dissero che dalla settimana successiva avrei iniziato il catechismo. Io chiesi perché mai dovessi andarci per forza se non volevo farlo. La risposta che mi sentii dire fu questa:
“Un bambino alla tua età deve fare la comunione”. Tradotto: non hai capito il perché ma non ci interessa, l’importante è che tu lo faccia. Io non sono molto d’accordo su tale impostazione educativa. Comunque, ovviamente poi andai al catechismo e alla fine mi sono comunionato. E ho dato anche una festa. In realtà anche questa è stata organizzata dalla famiglia, perché anche in questo caso mi sfuggiva il senso di dover dare una festa. Però ero contento perché alla fine ho ricevuto dei regali.

Tornando all’argomento matrimonio, voglio condividere un piccolo aneddoto nuovo nuovo, fragrante come i biscotti di Antonio Banderas fatti con le sue mani (leggere con la voce di Antonio Banderas).

Stamattina Tizio si sposa. L’altra sera è andato a fare la serenata sotto la finestra della sua bella. Sì, perché vige ancora l’usanza che alla vigilia delle nozze lo sposo si improvvisi menestrello sotto la finestra di lei. Non so bene che pensare di questa tradizione, ai poster attaccati al muro l’ardua sentenza.

Se io dovessi fare una serenata canterei questa

Sì, ok, dice You’ll always be my whore, ma è un amore un po’ rock, dai.

Tornando a noi, uno potrebbe pensare che questa tradizione canora che dal milleduecentosettordici produce imbarazzi distillati sia una cosa spontanea e sentita. Se non che:
– Lui non sa cantare. In realtà due tizi che ha ingaggiato hanno cantato per lui, che accompagnava al massimo suonando il campanello di casa.
– Lui non voleva manco farla questa cosa, non era d’accordo. Ma la madre di lei ha insistito tanto, dicendo che doveva farlo .

Com’è come non è, Tizio si è quindi presentato sotto casa, con l’intera famiglia di lei ad assistere alla performance a mo’ di curva da stadio o da pubblico imbalsamato di Sanremo.

Perché è una cosa che si deve fare. Io avrei voluto chiedere a Tizio: scusa, ma alla fine, tu sposi lei o sposi sua madre?

Mi ha fatto tornare in mente una considerazione fatta sui giapponesi durante la visita al Tempio Senso-ji per assistere all’Hatsumode (la prima visita dell’anno al tempio). Si potrebbe pensare che i giapponesi ci tengano tanto a queste cose per motivi religiosi. In realtà gliene frega poco e niente della religione. Semplicemente, riguardo le loro usanze pensano: le facciamo da secoli, quindi sarà giusto continuare a farle. Non fa una piega, come dissero riferendosi al motociclista scarso.

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Lo sport nazionale giapponese è fare la fila. Si allenano tutto l’anno per il 31 dicembre. E per i saldi nei negozi di elettronica

Non so, ma io invece ho sempre un problema con gli obblighi. Sarà per questo motivo che in fondo sono un disastro nelle gestione delle incombenze sociali: il lobo del cervello che trasmette il senso del dovere deve aver interrotto le comunicazioni con il resto del corpo. Non che io non soffra di un accentuato doverismo, anzi, al contrario ho proprio una sindrome: ma si tratta di doveri interni, nel senso che sono io stesso giudice e imputato di me stesso. È per questo che poi non accetto doveri esterni, se arriva un altro giudice mi si solleva un conflitto di competenze nel lobo frontale e poi devo farmi una legge ad personam: il Lobo Alfano.

Tutto questo post era per concludere con questa battuta, quindi tu che hai letto hai sprecato minuti preziosi della tua vita per questo, sappilo. Gh gh gh (sghignazzo malefico).

“Scrivo lettere d’amore”

Lungo il vialone frequentato dalle operatrici del sesso che percorro ogni giorno in auto c’è una baracca di un pittore, o aspirante tale. Spero sia realmente l’area di lavoro di un pittore e non una copertura per lo spaccio. Il fatto è che mi chiedo sempre se riesca a vendere i propri quadri.

All’esterno della baracca sono esposte le sue opere. Non sono un critico d’arte, ma le trovo abbastanza bruttine. Magari proverò a segnalarlo ad Andrea Diprè.

Passandovi davanti stamattina, ho buttato un occhio all’esposizione: ho notato, in mezzo alle tele, un cartello: SCRIVO LETTERE D’AMORE

l-673È tutto il giorno che ci ripenso. È come se avessi letto una cosa così anacronistica, fuori dall’ordinario. Come se qualcuno mi avesse detto “riparo monocoli”. Attenzione, non sto denigrando lo scrivere lettere d’amore (e neanche i monocoli, che trovo molto fighi ma il mondo oggi non può capirlo), lungi da me: è solo che mi ha dato da pensare.

C’è qualcuno che scrive lettere d’amore, oggigiorno? Questa è la domanda che mi pongo. E chi la riceve, che impressione ne ha?

L’ultima volta che ne avrò scritta una sarà stato alle medie. Era indirizzata a una compagna di classe: com’era consuetudine, per la consegna mi affidai a un complice. Mi raccomandai che gliela consegnasse dopo la scuola. Lui disse che non aveva problemi, dato che l’avrebbe incontrata al centro culturale dove andavano entrambi il pomeriggio.

Se non che, il complice prese un’iniziativa personale. Poco dopo avergli affidato la lettera, lui andò in bagno, dove incrociò Lei nel corridoio. Le diede la lettera, dicendole che io avrei voluto mettermi con lei.

Stop
Pausa dal flashback.

Quanto è brutta l’espressione “vorrei mettermi con te”? L’ho sempre odiata da ragazzino. È quel verbo “mettere” che mi suona proprio male. È grezzo, spartano, inappropriato. Senti, metti a posto la tua stanza. E metti i piatti lavati nel ripiano superiore. Ah, già che ci sei, prendi te stessa e mettiti con me.

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Il complice tornò in classe comunicandomi l’avvenuta consegna. L’avrei picchiato. Non ci si può proprio fidare dei sottoposti. Portò con sé anche una domanda. Io ero preparato a due eventualità: che lei rispondesse “Neanche per sogno!” o che facesse i salti di gioia. Rimasi spiazzato quando invece sentii la domanda che pose a lui: “E perché vuol mettersi con me?”

Ma che domanda era? – pensai – Perché mi piace, risposi. Il complice andò a riferire alla pulzella e poi tornò a sedersi. Io, dall’altro lato della classe, la osservai poi aprire la lettera e leggerla. Fu un minuto che durò quanto un minuto di recupero quando stai vincendo con un solo gol di scarto, stai giocando con un uomo in meno e con un altro che zoppica in campo e la squadra avversaria sta attaccando. Chi ha visto anche solo di sfuggita una partita di calcio del genere capirà la sensazione.

Poi lei accartocciò la lettera e andò a gettarla nel cestino, meritandosi una menzione nella mia biografia.