ATTENZIONE. Da qui in poi il post potrebbe farvi schifo.
Ho scoperto oggi l’esistenza di questa etichetta di birra: https://orderyoni.com/beer/. Il prodotto biondo ha una particolarità molto particolare. Cito testualmente dal sito “The composition is enhanced with the use of lactic acid from vaginal bacteria”.
Anche chi non mastica l’inglese avrà intuito con cosa è prodotta la birra.
In effetti, avranno pensato costoro, se lì sotto ci sono, tra i vari batteri, anche quelli responsabili della fermentazione (lactobacillus) per gli alimenti, perché non usarli per farne birra?
L’idea non è nuova. Tempo fa lessi di una matta che ha pensato di raccogliere un campione delle proprie secrezioni vaginali per produrre uno yogurt. Inutile dire che non è proprio una grande idea: perché nella vagina non c’è solo il lactobacillus ma decine di altri batteri, alcuni dei quali possono rivelarsi dannosi. Quindi andarli a scomodare a cucchiaiate e farli crescere e fermentare per ingerirli non è forse qualcosa che consiglierebbe il tuo nutrizionista.
Ma non è questa cosa a destare in me dello stupore.
Quel che mi chiedo è perché nessuno pensi ai batteri penieni.
Non sarebbero degni di farci una birra? Uno yogurt? Un formaggio a pasta filante?
Cos’è questa, una discriminazione? Il fatto di essere nati e cresciuti in un posto meno blasonato di una vagina (diciamo pure che sono nati in un posto del cazzo) priva i batteri di dignità e diritti?
Credo che le sperimentazioni enogastronomiche non possano prescindere dalle possibilità offerte dalla flora batterica del pene, se non altro per garantire una parità di trattamento.
Stasera mi trovavo a riflettere e condividere opinioni sulla condizione di difficoltà che vive il Mondo. Virus, crisi economica, conflitti, peli incarniti.
Guardavo il fondo di un bicchiere vuoto in attesa di un qualcosa che neanche io comprendevo.
Una guida, un faro, un gps, un’Alexa.
Un nuovo partito? No, è banale e troppo locale.
Poi ho ricevuto l’illuminazione.
La rivelazione si mesceva in me come il vino che prodigiosamente, per Grazia (la proprietaria dell’enoteca), colmava il calice. Su un tovagliolo ho trascritto le cose che ora vado a condividere di quello che è il vero e unico credo cui dovremo votarci per uscire dalla crisi.
Ho deciso di chiamarla Religione Pecorina, in omaggio al bianco Pecorino di cui mi son abbeverato.
I caratteri della Pecorina sono i seguenti:
– Esiste un’unica divinità. Ma ha migliaia di sessi: è parente alla lontana dello Schizophyllum commune, un fungo – fatto vero (come tutti quelli che scrivo qui, diamine!) che ha 23.328 “sessi” diversi. Può quindi accoppiarsi con altre migliaia di sessi. Ma essendo unico al mondo non fa mai sesso, se non a pagamento.
– Dalla verità di cui sopra deriva la sua non-binarietà. Si fa chiamare quindi Di*.
– Di* ha concesso agli umani due vite: se in entrambe ci si comporta bene, l’anima è salva. Se in entrambe ci si comporta male, è maledetta. Se in una ci si comporta bene e nell’altra male, si avrà a disposizione una vita supplementare (di durata ridotta) per definire il risultato. In caso di parità, si va ai calci di rigor mortis.
– Di* esiste ma solo nei giorni feriali e comunque raggiungibile solo dalle 8:30 alle 17:30.
– A Di* fa arrabbiare l’odore di ascella dei mezzi pubblici.
– A Di* piacciono i gatti ma anche i cagnoni gioconi simpaticoni.
– A domande quali: Ma perché esistono le malattie?, Ma perché ci sono le zanzare?, e altre simili, Di* risponde che è colpa dei governi precedenti.
– Di* è amore ma non sempre: delle volte solo sesso. Delle altre restiamo amici che è meglio.
– Di* non si arrabbia se non credi in lui e non ti giudicherà per questo. Però avrà un calo di autostima.
– Di* non fa miracoli. Però concede botte di culo per trovare parcheggio.
– A Di* non piace che lo stai a pregare. Piuttosto, mandagli un modulo con un elenco di richieste. Lo ignorerà, però è più pratico.
– Festeggia le festività che ti pare oppure non festeggiarle. Però comunque niente regali brutti o riciclati.
– Di* ti vede se commetti atti impuri. Ma non gliene frega niente. Al massimo si ecciterà.
Il motivo per cui ho iniziato a fare nuoto è perché, per quelle 2 volte a estate che andavo al mare, ero stufo di dovermi muovere col passo dello Zoidberg e quindi desideravo imparare a nuotare, smettendo di fare la figura del totano.
La cosa poi mi ha preso la mano – e anche tutto il resto del corpo – e quindi non ne ho potuto più farne a meno.
Il nuoto in vasca in sé non ha molto senso a mio avviso. Non c’è una palla da buttare in/oltre una rete (a meno che tu non ti dia alla pallanuoto, perbacco!). Non c’è neanche un traguardo fisico. È vero che ci sono le distanze ma le fai avanti e indietro in 25/50 metri.
C’è però un grande vantaggio: non ti accorgi di sudare.
Sudare è una delle cose che odio di più in qualsiasi altro sport. In particolare odio quella goccia salata che si forma sulla fronte e che ti entra improvvidamente nell’occhio accecandoti mentre ti sta venendo addosso uno che si crede CR7 e tu a occhi chiusi allunghi la gamba ciccando il pallone e prendendolo in pieno dove non batte il sole scatenando una rissa che poi però alla fine finisce a pacche sulle spalle da Amaro Montenegro che non fanno altro che sollevare sudore nebulizzato.
C’è un altro motivo per cui ho detto sì al nuoto e no a Valsoia: è che posso prendere il mondo e farcelo entrare in quei 25 metri di vasca. Tenerlo con la testa giù, fagli provare il soffocamento e metterlo a tacere per un po’.
Perché io non ce la faccio.
Sento che la mia vita se ne sta andando un po’ a puttane, sotto al mio naso.
Forse l’avrò un po’ trascurata. Avrò ignorato i suoi messaggi non verbali di insoddisfazione. Perché succede sempre così: ci aspettiamo che ci dica chiaro e tondo fin dal primo momento che qualcosa non va, mentre invece quando ciò avviene è già ormai troppo tardi. E non vediamo o sottovalutiamo tutti i segnali critici nel percorso di avvicinamento a questa rottura. “Mah sarà un periodo”, “Mah oggi la vita avrà la luna storta” e così via.
Così un bel giorno la sorprendi che va a puttane e lei ti guarda anche con quell’aria di sfida dicendoti “Beh, che ti aspettavi?”.
Avrò speso in un anno 400 euro di piscina, senza contare costumi e accessori. Penso sia comunque più economico di un anno da uno psicanalista. Sono andato a nuotare perché sono esaurito.
E perché odio sudare.
Quelli del deodorante Borotalco saranno degli esauriti?
Ho fatto l’esame di maturità quando “Dopo l’11 settembre” era un refrain sempre presente in qualsiasi discorso.
Gli aeroporti non sono più sicuri, dopo l’11 settembre.
L’economia è in flessione, dopo l’11 settembre.
Le ragazze non vogliono uscire con te, dopo l’11 settembre.
No, l’ultima cosa era vera anche prima.
Michael Schumacher era il signore assoluto della Formula 1, Lance Armstrong col suo cocktail di steroidi andava in bici come sulla motocicletta, nel mondo ancora si pensava che con un paio di bombardamenti a caso sarebbe regnata la pace, internet per molti andava ancora a 56k e quindi per scaricare la foto di una donna nuda si spendeva l’equivalente di una telefonata in Nicaragua, la tamarrodance italiana dominava ancora la scena musicale tamarra.
Chi dimentica è complice di ciò:
Insomma, a parte la Ferrari era proprio un’epoca del cazzo.
I telefonini – tra i quali regnava il Nokia 3310 – erano proibiti in aula e furono messi sotto sequestro.
Il mio compagno di banco ne aveva due, consegnò il telefono farlocco e utilizzò l’altro per inviare via sms la prima riga della versione di latino a un amico a casa. Storia vera, il complice divenne famoso su Studenti.it per essere stato il primo ad aver diffuso la traccia.
Fu un accorgimento inutile, in quanto il nostro professore – buonanima – dopo un paio d’ore ci dettò la traduzione.
La cosa strana è che pur avendo traduzioni tutte uguali i voti alla fine furono diversi.
In realtà io me l’aspettavo, immaginavo che tutta la faccenda della maturità fosse una farsa e che, con una commissione interna – fatta eccezione per il presidente – il risultato finale fosse né più né meno che una fotografia del rendimento durante gli anni di liceo.
Il primo giorno, alla prova di italiano mi presentai con tutta calma, con soltanto una penna in tasca – che decise di non scrivere più – e nient’altro. Non ho mai sentito l’esigenza di portarmi dietro un vocabolario di italiano. Conosco le coniugazioni e sono in possesso di un decente numero di vocaboli. Se per caso il significato di uno mi fosse stato ignoto – poniamo, zeotropo – la mia regola era “Non utilizzarlo!”.
Dicesi zeotropo una miscela chimica.
Anche all’esame orale mi presentai molto tranquillo e fu poco più che una chiacchierata piacevole. Fino a che non mi chiesero cosa volessi fare in futuro. Balbettai che non avevo le idee molto chiare. La professoressa di matematica mi disse, solenne come in un film d’azione anni ottanta dove c’era sempre un momento in cui qualcuno diceva qualche frase epica per galvanizzare l’eroe: “Tu puoi fare tutto”.
Questo fu molto scorretto.
Fino al giorno prima un ragazzo si sente ripetere che non può fare questo, che non deve fare quest’altro, che è un imbecille e via dicendo.
La definizione specifica data dal professore era Maccarone di semmenta, che potremmo tradurre con roba da poco, inetto.
Poi dopo ti dicono che sei speciale, che rispetto a chi ti ha preceduto hai tante nuove possibilità. Come il porno online e i deodoranti che non bucano l’ozono.
È questo il problema della mia generazione: ci è stato detto di essere speciali, il che riflettendoci è una cosa che non ha senso: “speciale” è chi si differenzia dagli altri. Se tutti sono speciali, la differenziazione non c’è, ergo nessuno è speciale.
La realtà è che non siamo speciali e sarebbe stato meglio se avessero continuato a trattarci da maccaroni, forse.
Vorrei scriverti per chiederti se sto bene.
Qui, nella mia enorme stanza che vorrei riempire di immaginazione. Ho poche cose con me nonostante io non sia qui in vacanza. Parto dal principio che il mondo deve comodamente – o al limite un po’ compresso sedendocisi sopra – entrare in una valigia. Quella che mi regalasti tu e che ringrazio sempre per la robustezza e praticità e per le esperienze che ha visto con me.
Comincio a vedere questa stanza troppo grande per me.
Il fatto che ci sia il parquet, il soffitto alto e una lunghezza adeguata mi spinge a desiderare di montare un canestro da basket su una parete e fare qualche tiro libero.
Ma non so se la padrona di casa sarebbe d’accordo e più che libero sarebbe un tiro mancino farle una cosa simile. Non ho ancora poi capito se ci sia qualcuno che abita nell’appartamento di fianco. In ogni caso non credo lo sentirei o lui sentirebbe me, il muro sembra spesso. E volentieri.
A volte non mi sento neanche io ma solo perché mi sono chiuso fuori di me.
Di solito quindi mi sveglio alle 6:30 e faccio addominali e piegamenti, sport che non sporca e non distrugge l’arredamento.
Sono dimagrito e diventato più asciutto. Al prossimo Comicon che ne diresti se io facessi un cosplay di Fassino?
Probabilmente entrerò di nuovo in quella maglia stile Halloween che mi regalasti. Ma prima di entrarci dovrei forse bussare e chiedere il permesso ai ricordi?
Non sono stato un buono esempio lo sappiamo, è inutile che io mi racconti bugie anche se poi mi credo sempre.
Eppure non posso fare a meno di pensarci che a volte avrei dovuto dire qualche volta in più scusami e per avermi conosciuto e per ciò che non ho dato. O forse sarebbe bastato anche parlar di meno ma meglio senza agitarsi a voler dire chissà cosa.
Ho visto una coppia l’altro giorno. Lui si sbracciava indicando cose. Ecco, in un Capitan Ovvio mi ci son visto io.
Le andai incontro con una rosa dietro la schiena, celandola come le migliori intenzioni che spesso non vengono mostrate.
In realtà la rosa non era nascosta molto bene. Credo il gambo fosse troppo lungo e lei facesse capolino impertinente dalla mia testa, come le idee malsane nella mente che spesso sono identificabili dall’esterno.
Era un omaggio per il suo onomastico.
La rosa, intendo, non la mia testa. Anche se qualcuna oggi forse preferirebbe quest’ultima, servita con una mela nella bocca.
Non regalo rose, di solito.
Credo però nel fatto che ogni tanto una rosa andrebbe regalata.
Tutti pensano a chi riceve le rose, come se l’azione risiedesse sono nell’atto di ricevere. Dovremmo soffermarci di più invece anche sull’atto di chi la regala la rosa invece che sulla sensazione del destinatario.
Forse il mondo sarebbe migliore se pensassimo di più all’energia potenziale del donare un qualcosa di simbolico.
Mentre mi avvicinavo a lei, un giovane passante che mi vide porgere questa rosa a una ragazza disse qualcosa di canzonatorio.
Da quand’è che le rose non fan più parte delle canzoni ma sono canzonabili? Avrei voluto fermarlo e chiedergli: “Scusa, che problema c’è? Ho le mie rose, oggi, ti disturba?”.
Mi è tornato in mente quest’episodio l’altro giorno, quando le ho inviato un sms di auguri per l’onomastico. Ho questi flashback di tanto in tanto, come se fossero onde di ritorno di un brutto trip causato da una torta all’hashish. Non ho idea di come sia una simile torta, me lo ha raccontato mio cugino che prova cose e non più rose.
Mio cugino si pungeva da piccolo con le rose, quando doveva recuperare il pallone finito nei cespugli. Mio cugino si ciucciava il sangue dalla ferita e aspettava che il taglio si cicatrizzasse all’aria.
Mio cugino poi forse è cresciuto, io invece mi ciuccio ancora le dita quando mi ferisco e a volte non so se ciucciare il dito sia più un atto infantile per provare conforto o semplicemente mi piaccia il mio sangue, nel qual caso spero di non diventare un vampiro perché mi cannibalizzerei.
Non regalo più rose, oggi.
Eppur mi punge vaghezza di esse e me ne sento ferito.
Lo ignoravo ma Collega Capelli Ribes ha avuto un prolungamento, spero abbia acceso un cero a San Precario, perché continuerà a essere devota alla sua chiesa, quindi. Ma qui funziona tutto così, l’importante è concorrere sempre per il Premio Stachanov e poi qualcosa di buono arriva, un paio di cornicioni di pizza dal retro del ristorante per noi cani da slitta.
Se i russi non piacciono, potete sempre immedesimarvi in un giapponese: sapete come funziona lì? Due ore per raggiungere il posto di lavoro, un’intera giornata in ufficio e sempre spegnere il pc 5 minuti dopo e mai prima e poi di nuovo due ore nei mezzi per tornare a casa, ma almeno potete dormire nei vagoni, diventate dei professionisti del pisolino urbano.
Io di giapponese volevo farmi dei kanji sul braccio, attendevo il momento giusto ma non so bene quale sarebbe stato, forse quando avrei imparato a disegnarli per bene. Poi mi guardo e penso starebbero meglio sul bracciolo della sedia, tanto lavoro, casa, casa, lavoro, vedo più sedie che altri posti e forse dovrei uscire di più, a cominciare dall’uscire più da me stesso.
Avevo un piano per l’anno prossimo, non da suonare ma comunque ora mi sento trombato: il piano non c’è più, non per responsabilità mia ma perché puff è andato. Allora ho pensato a un piano B, bisogna sempre averne uno o quanto meno un piano ammezzato, una mansardina. Ma dovendo un attimo (e non un attico) fare due conti non so più bene come vada. Ho scelto il momento buono per rompere l’auto.
E quindi al massimo poi potrei rimanere con dell’inchiostro sul braccio, lo volevo per ispirarmi a una filosofia di vita ma io non so illuminarmi, Siddharta rimase 7 settimane sotto un albero di fico, sinceramente io dopo 7 minuti che sto con le ginocchia piegate sento male dappertutto perché il loto non fa per me, quindi mi sa che non se ne fa nulla.
Ma non sono russo né giapponese per quanto a volte imiti le abitudini di quest’ultimi: sono sempre più figlio di uno schermo, vorrei disintossicarmi e interagire con chi è al massimo a due metri da me, dal terzo in poi cessa di esistere perché voglio un raggio d’azione limitato, chi ne è al di fuori non esiste più. Un po’ come quando da bambino, guardando il telegiornale, mi chiedevo se esistessero davvero certi posti. Ricordo Sarajevo. Ma Sarajevo esisteva o era tutto finto? Se chiudevo gli occhi Sarajevo c’era ancora o il mondo scompariva?
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.