Lei si rasa le sopracciglia a zero per esprimere la propria artisticità. Non ho capito che tipo di artista sia, comunque si definisce tale e le sopracciglia rasate fanno parte della figura da artista che si è creata. Lui è un trentenne emo, l’ultimo esemplare di emo probabilmente esistente. Un vero fossile vivente, un celacanto, guardato a vista da volontari del WWF per tenerlo al sicuro da bracconieri che vorrebbero cacciarlo ed esporne la testa in salotto.
Non era neanche la coppia più stravagante della festa dove ero presente sabato scorso, ma io mi ero focalizzato su di loro perché oggi, mentre parlavo con chi parlavo, ho avuto modo di ripensare a loro.
Lo spunto è una riflessione sul mondo dei cosiddetti normie: ora dovrei perdere tempo a spiegare chi siano a chi non sa, ma siccome credo che il futuro sia lasciare nel dubbio e nell’ignoranza – tant’è che ho intenzione di fondare un partito politico fondato su questi valori – darò spiegazioni a chi invece sa e le troverà superflue.
Il normie è in sostanza l’individuo social conformista, che non ha una opinione autonoma né uno stile che sente proprio, ma che si adegua agli standard correnti. Dovrebbe quindi essere l’antitesi di un non-conformista, in realtà oggigiorno i non-conformisti sono quelli che più si adeguano alla moda del momento. Prendiamo la sub-cultura ora dominante, quella Hipster: è composta da individui che, in modo fluido, si adeguano a degli standard ritenuti colti e non di massa. Molto probabilmente non capiscono neanche un cazzo di ciò che vedono, ascoltano, leggono, bevono, basta che però sia stato sdoganato dall’ambiente in cui nuotano.
In un mondo che si va popolando sempre più di normie, l’esemplare che ho visto alla festa è una perla rara. Un individuo che sceglie di fermare il cammino dell’evoluzione e riesce anche a sopravvivere, dribblando chi vorrebbe dargli la caccia!
Questa persona ha tutta la mia ammirazione e, anzi, in un mondo di conformisti non-conformisti che si conformano, io invito tutti a un moto di ribellione ripescando dall’armadio le cose più orrende che avete, retaggio di un passato vergognoso, e a esibirle con soddisfazione.
Dico a te, uomo col marsupio Invicta fluo che negli anni ’90 usavi per chiavi, sigarette, preservativi e quant’altro. Palesati!
Ricordo quando sbarcai a Budapest, il 26 novembre scorso.
L’aereo mi sputò in mezzo al nulla. C’erano 3 gradi di temperatura e nevischio e mezzo chilometro da fare a piedi in mezzo alla pista lungo un percorso di ferro che sembrava l’ingresso di un mattatoio.
Avevo dimenticato come fosse low cost il trattamento riservato ai viaggiatori low cost.
L’altroieri sbirciavo il tabellone dei voli, in attesa che comparisse il mio gate di partenza e, nel frattempo, mi divertivo a immaginare come fosse andare in una località a caso tra quelle in lista.
Finalmente poi viene annunciato il gate: A17.
Mi incammino fiducioso. A1…A4 (il preferito dalle stampanti)…A9…A11. Stop.
C’è qualcosa che non va. L’aeroporto è terminato.
Poi, sulla sinistra, noto un foglio stampato con una freccia che indica A12-A19. Mi incammino di nuovo fiducioso giù per delle scale.
Sono un po’ meno fiducioso quando mi trovo all’esterno. Scendo altre scalette e mi ritrovo di nuovo nel percorso-mattatoio.
Sono arrivato al gate poveracci: è un capannone di ferro. Grazie Budapest, mi hai fatto tornare alla mente il mio arrivo, come fosse una madeleine di Proust che poi sembra non fosse una madeleine.
Si dice, infatti, che nella prima stesura di Alla ricerca del tempo perduto non ci fosse alcuna madeleine ma l’equivalente di semplici fette biscottate.
Ci sono altre cose che ricorderò di questi sei mesi qui, cioè, lì.
L’odore che mi accoglieva quando entravo nel sottopassaggio di Nyugati, dalla fermata dei tram 4/6 che tagliano in due la città da Pest a Buda. Lì sotto c’è una hamburgeria che penso serva vomito di hamburger fritto, almeno a giudicare dall’odore di rancido misto a olio esausto misto ad afrore di ascella di runner con tuta di acrilico che pervade quel sottopassaggio.
Al Szimpla, locale labirintico dove se non ci si sta attenti non si esce più – i barbuti che si incontrano lì non sono hipster, è gente dispersa da anni lì dentro stile Cast Away– una cameriera ogni tanto fa il giro e distribuisce carote. Alla mia curiosità la spiegazione è stata che assorbono alcool. Io resto perplesso: se bevo, perché mai dovrei voler asciugare l’alcool?!
La rigida osservanza di alcune regole civili: ad esempio, le persone in fila alla cassa – i supermercati sono i miei luoghi preferiti per osservare il mondo – non posano la propria spesa sul nastro finché quello davanti non mette il divisorio.
Tale e quale come succede dalle mie parti, una volta avevo comprato farina, pomodori e mozzarella e poi è arrivato un tale che, senza attendere, ha riversato la sua spesa sopra la mia: alla cassa ho pagato una pizza margherita.
Una volta ho fatto una prova – la scienza non può avere remore se vuol arrivare alla conoscenza – e non ho piazzato il divisorio: se non fosse stato per la cassiera, quei poveretti dietro sarebbero ancora lì in piedi ad aspettare.
Il vero ricordo di questa esperienza è comunque lui. L’uomo-sandwich di cui avevo parlato qui.
Un eroe dei nostri tempi. Premio Stachanov. Mattina e sera, sole, pioggia o vento, lui è lui a trascinare quel cartellone. Credo, tra l’altro, che ogni tanto cambi articolo: quel che sta pubblicizzando nella foto dell’altroieri è il làngos (pronuncia làngosh), un tipo di frittella su cui sopra ci si può versare di tutto, panna acida, pollo a pezzettini, uova e prosciutto, patate e cipolla, buoi muschiati, servi della gleba e così via.
Ho censurato perché non sta bene fotografare le persone per strada. È un peccato non possiate godere del suo sguardo vivo come una monografia sul cinema muto armeno. Vorrei vedere te, sembra dire. Infatti io sarei ancor peggio.
Sullo sfondo, a destra, il pullman che produce cinesi.
Oggi il Capo ci ha comunicato che a breve la società cambierà nome. Decisione della nostra consorella di Bruxelles.
Anche se più che sorella maggiore, per potere e dimensioni sembra una suocera.
Dovremmo assumere quindi il nome del gruppo di cui facciamo parte (Pinco Pallino) + Central Europe. A meno di non avere altre proposte di denominazione.
Al che mi sono alzato (metaforicamente perché sono rimasto seduto) e ho detto che, sì, suonerebbe più internazionale ma finirebbe per far smarrire identità alla società. Sarebbe forse meglio un qualcosa come Pinco Pallino Hungary oppure Pinco Pallino Budapest.
È sempre positivo con gli ungheresi far leva su questioni come l’identità e l’orgoglio, ovviamente esaltandoli. Ad esempio, per guadagnare la loro stima puoi parlare di calcio citando la squadra storica (non è che poi il panorama calcistico nazionale offra altri esempi), l’Aranycsapat (“la Squadra d’Oro), cioè l’Ungheria degli anni ’50 che arrivò a giocarsi un Mondiale con la Germania. Acquisterai punti ai loro occhi.
Da questo punto di vista ci sarà molta attesa per i prossimi Europei di calcio, dove la squadra nazionale si è qualificata dopo anni. Vorrò essere altrove in quei giorni perché ho sempre remore a dire agli altri che non me ne importa nulla del loro entusiasmo e non me ne sento partecipe.
So fingere tante cose (tra cui anche orgasmi ma questa storia la riservo per momenti peggiori) ma l’entusiasmo non rientra tra le cose su cui riesco a recitare.
Come quella volta che arrivai a Londra il giorno della finale di Wimbledon tra Murray (idolo di casa seppur scozzese: gli inglesi storicamente si son sempre presi ciò che gli serviva) e Federer nel 2012.
La tizia che mi mostrò la stanza ci tenne a farmi presente che il televisore era funzionante e riceveva tutti i canali, in particolare quello che avrebbe trasmesso l’incontro. – Perché, sai, oggi c’è la finale di Wimbledon, alle 16 (orario inventato perché non lo ricordo). – Ah, sì, certo, la finale. Dissi io.
Il pomeriggio ovviamente me ne sono andato in giro perché non ero affatto interessato alla finale di Wimbledon.
NOTA 1
Non riesco a farmi piacere il tennis.
Ho un problema con uno sport dove è previsto il silenzio. Per me lo sport deve essere rumoroso, perché se non puoi fare rumore non so come ci si possa divertire.
NOTA 2
È lo stesso principio che seguivo per le feste alle scuole elementari. Non vedevo il perché andarci se non per fare casino.
NOTA 3
Poi arrivò la dannata festa delle medie (cit.) e cambiò tutto, ma su questo argomento c’è già una esauriente letteratura.
Insomma, col mio discorso sull’orgoglio identitario del nome li ho colpiti. O almeno ne sono convinto ma non ne sono certo perché non li guardavo in volto mentre parlavo.
Ho l’abitudine, quando dico qualcosa di serio, di fissare un punto a medio-bassa altezza davanti a me e tenerlo lì inquadrato, muovendo anche le mani come Alberto Angela intorno a qualcosa che vedo soltanto io.
È il discorso. È lì, prende forma mentre esce dalla mia bocca. Lo plasmo con le mani. Lo vedete?, penso mentre parlo. Poi alzo gli occhi e mi accorgo che gli altri non hanno visto un bel niente e credo non mi abbiano dato molto retta. Faccio discorsi invisibili seppur – credo – interessanti. È proprio vero che l’essenziale è invisibile agli occhi, come disse Galileo Galilei prima di inventare la fotocamera digitale.
Non parlo comunque sempre in questo modo. Fissando punti inesistenti davanti a me, intendo.
Ad esempio, Ti amo l’ho sempre detto guardando negli occhi.
Non è per quella convinzione che si è sinceri solo se ci si guarda negli occhi e se distogli lo sguardo allora significa che eccetera. Trappole da mentalisti.
Semplicemente, anche in quel caso sto seguendo un discorso. Negli occhi dell’altra persona. Come se ci fosse un “gobbo” che regge il cartello con scritto “Ti amo” celato nell’iride altrui.
Perché secondo me l’amore non è un qualcosa che nasce dal di dentro. Non del tutto, almeno. L’amore è lì fuori, prende corpo nelle altre persone. Lo andiamo semplicemente a cercare per riacquisirne il contatto. Come si spiegherebbe che si possa pensare a persone lontane centinaia e centinaia di chilometri se non con il fatto che hanno un qualcosa di nostro dentro di loro e che noi rivogliamo.
A volte c’è chi poi esagera e trova amori troppo facilmente e di continuo. Secondo me costui/costei o si è spezzettato/a troppo o vede amori altrui come se fossero i propri e allora lì è un problema perché non c’è mai amore per tutti.
È un discorso molto da libro di Moccia, ne convengo. “Amore è abbassare la tavoletta del water”, da venerdì in tutti gli Autogrill in promozione con “50 sfumature di Topo Gigio”.
La questione dei nomi è comunque intrigante.
Ho scoperto che nel nostro stabile al piano interrato prolifica una società hipster.
Prima scoperta è che quindi gli hipster sono qui più diffusi di quanto pensassi e si radunano insieme, seppur nei seminterrati.
La seconda scoperta è che questi hipster sono quelli di BP Shop, linea di abbigliamento marchiato Budapest: loro cavallo di battaglia è lo slogan Buda Fucking Pest.
Geniale, non c’è che dire. Avere successo è trovare il nome giusto e diffonderlo in giro.
La prima impressione che avevo di loro si ricollegava a una battuta di Bart Simpson: Guardatemi, sono un laureato, ho guadagnato 600 dollari l’anno scorso!
Poi ho scoperto che in realtà i loro affari vanno abbastanza alla grande e allora forse Bart Simpson si addice più a me.
E quindi il tutto sta nel farsi un nome ed essere visibili.
Ho forse male giudicato la CC.
Quando ci presentammo, mentre le spiegavo che lavoro io facessi credevo mi guardasse con l’aria da “Aspetta che mo me segno che nun me ne frega un cazzo”.
In realtà credo non comprendesse proprio di cosa stessi parlando.
Non per difficoltà linguistiche, per quanto in inglese io mi esprima come un libro strappato, ma per dei buchi conoscitivi che credo siano presenti in lei.
Zone buie in ambito storico-geografico-geopolitico.
Ne ho avuto la prova ieri, dopo alcuni sentori nei giorni precedenti, quando all’improvviso mi ha chiesto se io fossi mai stato in Polonia.
Mi ha spiegato dopo il motivo: le hanno proposto uno stage lì. Sulle prime pensavo fosse una domanda come convenevole. Quale è il tuo colore preferito? Ti piacciono i cani o i gatti? Sei mai stato in Polonia?
Io le ho risposto che mi piacerebbe andarci. Anche perché con i viaggi precedenti ho quasi esaurito tutta l’Europa occidentale.
Beninteso, non è che basti vedere una capitale per dire di aver visitato un Paese. Però, dato che non si viaggia all’estero spesso, non è che se un anno vado in Germania poi ci ritorno subito l’anno successivo.
E poi vorrei visitare Auschwitz, ho aggiunto.
Al che la sua reazione è stata assumere l’espressione della mucca che osserva passare il treno.
– You know…The concentration camp…
Scuote la testa
– …where the Jews were interned…
Scuote la testa e rifà l’espressione della mucca ecc ecc.
A parte questo, mi ci trovo bene. È una ragazza tranquilla e gentile. Non rompe, non lascia spazzatura in giro. Oggi mi ha chiesto addirittura il permesso per poter ascoltare musica senza le cuffie. Così ho avuto un assaggio di musica cinese, che mi ricordava quella neomelodica napoletana.
Certo, rutta dopo mangiato e tira tutto il giorno su col naso e si gratta le ascelle davanti a te come un orango, ma ognuno ha le proprie abitudini.
Forse comunque è anche troppo calma. Ho già raccontato che vive di aria, a parte qualche frugale merenda. Forse aspetta che qualche volta cucini per lei: mi ha detto più volte “Aò, so che gli uomini italiani sono bravi cuochi”. E ogni volta che accendo una pentola mi fa “Stai a cucinà? Fa’ vede’, me piace guardà la gente che spignatta a li fornelli”.
Dato che non raccolgo queste sottili allusioni, prova forse a prendermi con le buone. Mi fa spesso dei complimenti, se possiamo intenderli come tali.
Un giorno mi ha visto con gli occhiali e mi ha chiesto perché non li portassi sempre. Io ho risposto che preferisco le lenti a contatto, non mi piaccio con gli occhiali. E lei ha detto che invece sto bene, sembro uno scienziato o un professore.
Quindi non solo in Italia conoscono la formula per prenderti per il culo “Gli occhiali ti fanno sembrare più intelligente”.
Poi ieri, sentendomi commentare un capello bianco sulla mia testa che avevo notato, mi dice che è comparso perché penso troppo. Sono molto intelligente e le persone così imbiancano presto.
Non so se fosse una presa per il culo o una gufata.
Poi ha detto che con ‘sta barba ricordo un filosofo. Quello là…Mark?
Karl Marx? Sì, lui, mi dice. L’unica differenza è che fosse grigio mentre io sono scuro.
Infine, proprio parlando di colore di capelli e occhi, mi ha chiesto come fosse l’italiano tipico, esteticamente.
Io in questi casi cerco sempre di spiegare che non siamo tutti come Super Mario, anche se all’estero lo pensano.
Le ho spiegato che la nostra penisola nel corso dei secoli ha conosciuto diversi popoli, dai Vichinghi agli Arabi, quindi da noi puoi trovare una certa varietà fenotipica.
Si dirà così, varietà fenotipica? Non ne ho idea. Qualche genetista mi illumini.
Mentre parlavo annuiva ma ho rivisto in lei la mucca.
In fondo però è una visione della storia molto eurocentrica. Insomma, voi vi ricordate quando sono arrivati i Mongoli di Gengis Khan in Cina?
Ho proseguito, quindi, sottolineando che è errato pensare che siamo tutti scuri e barbuti e pelosi.
“Come te! Sembri proprio il tipico italiano!” ha esclamato.
Al che ho realizzato, con mia frustrazione, che non sono la persona ideale per fare questo tipo di discorso sulla varietà estetica italiana. Sono credibile come Pannella che parla di proibizionismo.
A proposito di villosità facciale: sto notando che qui non va per la maggiore. In più, sembra che questa città sia de-hipsterizzata. Fatico ad avvistarne esemplari dopo 3 settimane che sono qui.
L’unico che potrei definire hipster che ho incrociato sinora è un tale che ogni tanto prende il tram al mio stesso orario.
Sto pensando di segnalarlo al WWF locale affinché gli piazzi un braccialetto identificativo per tenerlo sotto controllo e preservarlo dai bracconieri di hipster.
Post-Postilla (postilla al post)
Dopo aver scritto questo post la CC mi ha detto che domani voleva che pranzassimo assieme e voleva preparare qualcosa di cinese per me.
Quindi tutto l’impianto del mio post viene a cadere, solo che avendolo già scritto non intendo cancellarlo: non sapete lo spreco di energie mentali per buttare giù tutto questo. Poi dicono che mi vengono i capelli bianchi!
Mi sono ricominciati gli spasmi allo stomaco. È da una settimana che vanno avanti.
Cause: Poco sonno. Fumo. Preparare un test e un discorso in inglese. Ansia. Quella per il colloquio inoltre era una premura inutile, perché, come ho raccontato, ha parlato per tutto il tempo la Dott.ssa Comesfromthesea. Ora l’attesa di un responso per ciò che concerne l’esito non mi aiuta a rilassarmi.
Non saprei che direzione prendere se fosse andato male. Le alternative che ho non sono a una portata logistica accettabile. Ho il terrore di aver imboccato un percorso di vita non percorribile. Ora non potrei permettermi di andare 6 mesi in Perù per un progetto sulla foresta amazzonica e abbandonare qui la famiglia.
Ogni volta che, mentre sono a Roma, sento Madre al telefono, sembra che a casa stia andando tutto a rotoli. Poi torno giù e sembra tutto a posto. Stanno tutti meglio di me che invece ho perso altri due kg e ora ballo sui 70.
Forse sto facendo una dieta troppo povera. Pezzente, direi.
In verità non va proprio tutto bene: Padre è un mese che ha dei problemi articolari seri, ci sono giorni che si sveglia – ammesso che il dolore lo faccia dormire – e non può alzarsi dal letto perché non riesce. Un infortunio calcistico di trent’anni fa non curato come si deve oggi lo ha praticamente portato ad avere le cartilagini di ginocchio e bacino distrutte. Si riempie di antidolorifici come Dr. House. Padre ha sempre un rapporto un po’ insano coi medicinali: li assume come caramelle. Se l’eroina fosse legale penso utilizzerebbe anche quella.
In virtù di ciò Madre si alza alle 6 di mattina, prepara il pranzo, deve badare ai gatti, va al lavoro, torna e deve badare a gatti, genitori anziani, Padre e a volte pure una zia cui ogni tanto viene la sindrome dell’abbandono – abita a 10 metri da casa – e quindi rompe. A ciò aggiungiamo che lei ha dolori cronici alla schiena.
Come si fa a pensare in queste condizioni di abbandonare tutto sulle spalle degli altri?
Poi succede che torno a casa, devo aiutarli a fare la spesa e Padre arzillo e scattante viene con me, si mette anche alla guida e nel supermercato debbo essere più lesto di lui a sottrargli le casse dell’acqua prima che le raccolga.
Salvo poi la sera stessa lamentarsi perché dolorante.
Secondo Tutor non dovrei farmi tutti questi problemi: devo vivere la mia vita, gli altri hanno la loro. Forse ha ragione. O forse no.
Vorrei discuterne meglio con lei, avendo i miei stessi problemi, e non farlo solo in quelle brevi pause che mi prendo per nascondermi nel suo ufficio. Penso alla fine di essermi convinto a chiederle di uscire. O almeno credo. Non ho ancora capito se in questo periodo ho voglia realmente di uscire con qualcuna oppure ho voglia di starmene completamente da solo a macerare immerso nei miei pensieri. Oppure a Macerata immerso nei miei pensieri.
L’altro ieri, in una sera di sconforto e stordimento psicotropo, ho cercato su Google il nickname che la mia ex ex (ex al quadrato) utilizzava anni fa su un forum. Ho scoperto che lo utilizza ancora o almeno lo ha utilizzato di recente e che è sparsa in vari posti: ha un blog fotografico su tublrm, tumlrb, trublm, brumtl, insomma quella cosa hipster; poi recensisce trucchi, pubblica ricette. Mi sembra così diversa. In realtà è sempre la stessa con più o meno gli stessi interessi, ma mi sembra di non conoscerla più. In effetti, tre anni sono tanti. Si può cambiare.
Anche io, del resto, sono cambiato.
Sono diventato completamente intollerante al latte, ad esempio. Anche quello ad alta digeribilità ora mi dà fastidio. Sono passato a quelli vegetali, ma non ne sono molto soddisfatto. Quelli di riso e avena li trovo stucchevoli, mentre quello di soia, dopo alcuni mesi di tolleranza, oggi lo trovo nauseante. Sa di fagiolino (che scoperta: la soia è un legume) e puzza. Anche il frigorifero puzza di fagiolino una volta aperta la confezione, pure i rigurgiti esofagei sanno di fagiolino e io non ce la faccio più: mortacci soia e dei fagiolini.
Non digerisco più, inoltre, la gente che parla di politica con quell’irritante qualunquismo traboccante della saccenza di chi ha una cultura fatta di Wikipedia e Le Iene e che non vede l’ora di lamentarsi con te, come se un essere umano non avesse altro da fare che stare lì ad ascoltare i loro comizi. Pur potendo anche concordare con alcune considerazioni, ciò che fatico ad accettare è il sentir parlare dei politici come se fossero un popolo di alieni che un giorno all’improvviso è apparso e ci ha invaso, rovinando un Paese onesto, lavoratore e incorruttibile (!).
Immagino il film: Election Day, con il Will Smith italiano, Carlo Conti, che dopo il televoto del pubblico a casa verrà inviato in missione sull’astronave-madre dei Politici.
Anche se osservando alcuni esemplari Buonanno fatico a credere facciano parte della specie umana.
Ci riflettevo giusto l’altro giorno in treno, quando accanto a me un giuovine dall’aria Ibiza-sole-figa e sei in pole position!* raccontava a un suo anziano collega come aveva fregato dei perfidi inglesi. Diceva che, mentre era in vacanza a Londra, una sera in un locale un cameriere distratto gli aveva versato addosso un cocktail rovinandogli una camicia. Lui prontamente aveva scattato una foto a testimonianza del fattaccio, e, il giorno dopo, aveva scritto una mail ai gestori del locale. Nel testo diceva che era un loro affezionatissimo cliente (falso) e che la goffaggine di un loro cameriere gli aveva rovinato un capo di alta sartoria italiana (una camicia OVS…), del valore di 400 euro (90), cui era anche legato affettivamente (falso anche questo, come si vantava di precisare al collega).
I proprietari gli avevano immediatamente risposto, scusandosi e chiedendogli gli estremi per fargli avere un rimborso. Dopo tre giorni sul conto lui si era trovato 200 sterline.
Ecco, costui riflette bene la mentalità arraffona, volgarotta, ignorante e imbrogliona dell’italiano da dito medio. Ma forse sono stati i politici venuti dall’iperspazio ad averci dato cattivi esempi.
* Perché in questo blog non si guardano solo Tarkovskij o Truffaut: ci sono altri grandi riferimenti cinematografici:
Per concludere il riassunto di questa settimana, vorrei citare infine un episodio accaduto ieri mattina.
Mentre ero a Termini, in attesa che un ritardo partorisse un treno, osservandomi i pollici per capire se la ricrescita della pelle intorno le unghie fosse sufficiente per ricominciare a mangiarla, mi viene incontro un tizio. 60 anni circa, trascinando un carrellino di quelli che le sciure utilizzano per fare la spesa al mercato, con un sorriso inquietante mi si pianta davanti e fa: Permette? Sono un poeta fiorentino!
Io, senza una smorfia che tradisse la menzogna, rispondo: I’m sorry, I don’t speak italian. E lui si scusa e se ne va.
Dopo mi è dispiaciuto, perché chissà cosa avrebbe potuto raccontarmi un poeta fiorentino e chissà cosa mi sono perso. Ma ho deciso che di fare conversazione con persone strane mi sento un po’ saturo.
Già debbo guardare me stesso ogni giorno allo specchio, al mattino.
Premessa: Per la stesura di questo post sono stati scelti oggetti inutili provenienti da allevamenti certificati.
Succede che tu non abbia un tappeto scendidoccia. Che poi perché si chiami scendidoccia non mi è chiaro, visto che la doccia non è posizionata in alto. Sarebbe più corretto dire “escidoccia”. Fatto sta che, sia che tu scenda o che esca, ogni volta che fai una doccia ti allunghi in posizione yoga per prendere l’asciugamano, asciugare un piede, posizionarlo nella pantofola, ripetere tutta l’operazione con l’altro piede cercando di non scivolare lungo per terra.
Succede che ti ricordi di non avere uno scendidoccia mentre sei all’interno di Tiger, la catena della paccottiglia hipster (chi dice il contrario dovrebbe dare un’occhiata a quanti baffi arricciati decorativi ci sono: baffi-spugna, baffi di gomma, baffi decorativi per bicicletta, baffi per camuffarsi).
Succede che il summenzionato negozio abbia delle solette di plastica scendidoccia massaggianti al modico prezzo di 3 euro.
Mh! Meno di un tappetino, che, tra l’altro, sai quanti batteri ospita sulla sua superficie? E poi sono solette massaggianti!
Mi sono reso conto in un momento successivo che forse fossero progettate per le donne. La foto di un piede con lo smalto rosso sulla confezione doveva significar qualcosa. O anche il fatto che potessero trasformarsi in infradito con un fermaglio a cuoricino.
Dato che, inoltre, avevo un altro euro che mi pesava nella tasca, ho deciso di investirlo in questo gradevole avvolgiauricolari gommoso, che puzza come le sorpresine di plastica incluse nelle buste di patatine che compravo da bambino e che, da buon incauto acquirente, acquistavo appunto solo per il regalo in esse contenuto.
Si accettano scommesse tra quanto tempo getterò via le solette massaggianti e l’animale gommoso.
Non mi capita spesso, per fortuna, ma sono uno propenso a quello che definisco l’incauto acquisto. Cioè il comprare una cosa sostanzialmente inutile che però credi che ti serva senza provvedere prima ad accertartene.
Ho da poco realizzato di aver evitato un bel pericolo: di recente ho letto che Bologna sarebbe la città più hipster d’Italia. La notizia in realtà è vecchiotta, ma è tornata in voga ultimamente.
E cosa c’entro io con Bologna? E con gli hipster a maggior ragione?
Il fatto è questo: durante l’anno oramai trascorso, meditavo, per questo 2015, di trasferirmi proprio nella città delle torri e dei porticati. Poi, per ragioni non dipendenti da me, questa cosa non si è più potuta realizzare. Ne ero rammaricato, anche perché essendo io uno che detesta gli ombrelli, abitare in una città dove puoi sovente camminare al coperto anche quando diluvia è il mio sogno. Dopo aver letto la notizia che ho citato sopra, mi sento invece sollevato del rischio scampato.
In compenso, a meno di stravolgimenti di percorso, per il prossimo mese dovrei trasferirmi a Roma. E ciò mi dà da pensare. Se il mio rassicurante e quadrettoso aspetto a Bologna poteva generare equivoci e farmi scambiare per un tipico giuovine di quelle zone, a Roma mi chiedo quale possa essere la reazione degli autoctoni nei miei confronti.
L’idea che ho di Roma è quella di una città in cui mi sentirei continuamente fuori posto.
Che è un po’ la sensazione che ho pure a casa mia, quindi forse il problema non va ricollegato al posto in sé ma a me stesso.
La mia sensazione di disagio nei confronti del resto del Mondo si accresce da quando, verso fine dicembre, ho iniziato a lasciar crescere il baffo e ho notato che non vien su come vorrei.
Con il baffo non ho mai avuto un buon rapporto. Una volta a vent’anni mi feci un paio di baffetti stile D’Artagnan, ma non mi conferirono un aspetto più guascone. Il che forse fu un bene, perché oggigiorno si conferisce all’aggettivo guascone una connotazione se vogliamo positiva, nel senso di individuo dotato di giovanile esuberanza e sfrontatezza, ma in realtà il termine, in origine, identificava un individuo smargiasso e vanaglorioso, quindi decisi di togliere il baffetto per non correre il rischio di incappare in un esperto di etimologia che mi qualificasse con simili epiteti negativi.
Ora, con mio sommo dispiacere, mentre sono alle prese con questo tentativo di ricrescita pilifera noto che il baffo non cresce bello folto come la barba sottostante, barba che tengo appiattita perché altrimenti comincerebbe ad assumere un aspetto alquanto marxiano e dato che già mi sento un alienato, di fare il marxiano non ho alcuna intenzione.
Questa foto NON è passata attraverso Instagram
Questo post avrebbe dovuto intitolarsi diversamente, e cioè: Abbandonare bicchieri di vetro per terra per dar modo alle hipster di fotografarli e condividerli su Instagram, solo che poi mi è venuto in mente di parlare d’altro e mentre guardavo annunci immobiliari ho pensato di far quadrare il cerchio e unire due argomenti diversi.
Avevo delle idee, sparse e confuse come le foglie che continuano a cadere sulla rotonda vicino la scuola. La carreggiata si riduce negli orari di ingresso e uscita, le mamme gareggiano nel riuscire a posizionarsi con l’auto il più vicino possibile all’entrata, come bocce verso il pallino. Sigarette elettroniche cambiano la chimica atmosferica. Anche oggi non ho investito nessuno pur essendo distratto, procedendo a passo di gatto.
Avevo qualche idea, sparsa e confusa come le foglie morte. Speravo di poterle raccogliere con un bastone appuntito e chiuderle in un sacchetto, lasciandole decomporre sino a semplici molecole. Ne valuterò il peso e le assemblerò per creare nuove sostanze di cui nutrire i pensieri.
Il cibo del futuro dicono sarà calibrato a livello atomico. La mia bilancia non peserà più i miei 120 grammi di pasta giornalieri ma un tot di atomi che mi spetteranno per il mio fabbisogno energetico. Potremmo vivere sino a 120 anni, probabilmente, seguendo un tenore di vita prescritto su un foglio. Se questo mi potrà dare la felicità non ne sono certo. Forse a un tenore di vita preferirei la vita di un tenore e far rimbombare i vetri delle finestre con la voce.
Se prolungare le cose abbia un senso o meno.
Alcune cose devono spegnersi quando invece non hanno più una raison d’être.
Con la voce avvolta in un plaid, calda e ovattata, mi hai detto ciò a proposito dei rapporti umani. Le interazioni hanno un loro sviluppo, che può portare a un qualcosa, di qualunque natura sia. Nel momento in cui un’evoluzione non c’è, tale rapporto si arresta e muore di consunzione naturale.
Lo so bene io che ho visto nascere e morire molti rapporti. La socialità mi sottrae molte energie, chi non è un introverso non comprende appieno il dispendio di forze che comporta gestire molte interazioni. Forse un nutrizionista sociale potrebbe trovarmi una dieta adatta per ovviare al consumo cerebrale. Prediligo quindi il poco ma buono, mentre il resto, confinato nel Limbo della semplice conoscenza, è destinato a spegnersi presto o tardi.
In genere non rifletto mai su questo. Svicolo come il gatto cui vuoi dar a forza le pastiglie dei medicinali. Prendo tempo divagando e fingendo di celarmi, quando in realtà non ho le risposte perché non mi pongo le domande. Le cose son lì, non si muovono, non mi pongo il problema perché non me ne capacito dell’esistenza.
Ammetto di essere figlio del consumismo e amare aggirarmi tra gli scaffali di un supermercato.
Penso anche che però non sarà mai paragonabile a un mercatino rionale. Col suo vociare, il via vai di persone, le mani da poter infilare nei sacchi di legumi e sementi (sì, ho qualche vizio da Amélie). Tra l’altro, in un mercato di Belleville a Parigi ho scoperto che “banane a un euro” urlato in francese suona uguale al napoletano.
Il mercato rionale odora di verdura, pesce e olive. Nel supermercato si viene invece sempre accolti da un afrore di formaggio e detersivo. Una forma di parmigiano fatta col detersivo in polvere. E dicono pure che gli odori tra gli scaffali siano studiati a tavolino dagli scienziati del marketing.
Ora, qualcuno mi dica se si può essere mai attirati da un simile odore. Non lo so.
Insomma, io entrerei volentieri in un supermercato che invece profumasse di buon cibo (pizze, maccheroni, lasagne) o al limite di La vie est belle di Lancôme.
E poi ci sono cose che in un supermercato proprio non sopporto.
I prodotti senza prezzi.
La gente che arriva alla cassa con un prodotto senza prezzo, la cassiera che invoca l’intervento di “brvshmiliano (non si capisce mai) alla cassa 2” e la fila chilometrica che si forma dietro.
I clienti che ti scambiano per un commesso e ti chiedono cose improbabili. Per un breve periodo della mia vita tra i 20 e i 22 anni ho indossato polo colorate a tinta unita nere, blu, verdi: me ne pentivo quando scoprivo che coincidevano con la divisa ufficiale del commesso. Ora capite perché indosso solo camicie a quadri? Non è per fare l’hipster!
La signora in fila alla cassa col carrello riempito come se dovesse arrivare la guerra, che si gira, vede te che hai in mano solo una confezione di Proraso e si gira di nuovo dall’altra parte perché ha paura che tu le chieda di poter passare avanti.
La signora che bla bla di cui sopra alla quale chiedi la cortesia di poter passare e che acconsente con la faccia di una a cui hanno presentato una cartella Equitalia.
Le cose che ti servono posizionate a chilometri le une dalle altre (anche questo, studiato a tavolino).
Le cose che ti servono che sono esaurite mentre tutto il resto trabocca dagli scaffali!
L’immancabile pirata della Standa che ti sperona il fianco con lo spigolo del carrello perché chissà cosa guardava o pensava.
Un classico: il carrello con la ruota bloccata o che ha la convergenza strabica che rende lo spingerlo una fatica di Sisifo. Meno male ci sono i carrellini o le ceste in plastica. Se magari le pulissero, di tanto in tanto…
Il prodotto scaduto non rimosso dal banco che, prima o poi, finirà nelle tue buste. Controlli sempre ogni volta le confezioni, leggi le etichette in maniera critica e attenta manco fossero un saggio di Proust, ma il prodotto scaduto ti attende nascosto da qualche parte in maniera subdola per finire tra la tua spesa quando meno te lo aspetti.
La cassiera che lancia i prodotti come se fossero bombe e tu ti penti di aver comprato biscotti friabili e uova.
Beccare la cassa che non ha spiccioli per il resto.
Beccare la cassa che invece ti riempie di spiccioli, tutti in monete da 1, 2 e 5 cents di cui non vedevano l’ora di liberarsi. Esci tintinnando come la slitta di Babbo Natale.
Il panico che ti viene quando ti sembra di non ricordare dove fosse l’auto. Era U6? V6?
Questa è di Aida in risposta a un mio post; tra l’altro è stato rileggendo questo commento che mi è venuto in mente di scrivere questo articolo: “L’ebete da supermercato è quello che ti si mette davanti con un carrello stracolmo. solitamente sono due ebeti, marito e moglie. Lei spinge il carrello fuori dalla cassa, lui mette i prodotti sul banco per pagarli. attende che esce lo scontrino e paga. la moglie ebete, anzichè iniziare ad imbustare la spesa, attende che il marito ebete adempie all’increscioso lavoro, perchè lei ha il carrello in mano, con 1 euro dentro, e lasciarlo libero significa essere derubata di un euro. Intanto le due corsie della cassa sono occupate dalla spesa della coppia di ebeti. Tu aspetti un lasso di tempo di 30 secondi. loro non si sbrigano. il commesso ha fretta e inizia a passare la tua spesa lanciandotela addosso perché se la mette nelle due corsie si confonde con la spesa da ebeti. tu ovviamente spazientito ma educato accetti la sconfitta, mentre l’ebete della moglie, con aria altezzosa, si degna finalmente di infilare l’ultimo pacco di pasta nella busta della spesa. tu intanto hai già finito da un pezzo“
INFORMAZIONE DI SERVIZIO: Ho rimesso in bozze per lavorarlo un post che avevo pubblicato ieri sera ma che rileggendo non mi convinceva. Non mi sono autocensurato e i commenti di chi ha scritto sono ancora lì 😀
Ancora qualche giorno e mercoledì poi volo a Barcelona. Destinazione Primavera Sound. Cos’è il Primavera Sound? Secondo me sarà tipo il gay pride degli hipster. Non lo dico in senso dispregiativo, è bello che ci sia una manifestazione dove possano riunirsi, esternare la loro hipsteria, toccarsi la barba a vicenda. Gli hipster sono persone come noi e non vanno discriminate. Io poi penso di essere metrohipsterosessuale: non sono hipster, ma ho la barba* e le camicie a quadretti come un hipster e frequento posti da hipster. * Ci tengo a precisare che la barba la taglio stile Wolverine: meglio passare per nerd puro e semplice che per un indieman.
Io ci vado per i seguenti 5 motivi:
Queens of Stone Age Arcade Fire Pixies Slint Nine Inch Nails
Il resto, a parte qualche cosa che mi incuriosisce, fottesega, come dicono a Parigi. L’indie ha preso generalmente a darmi sui nervi. Ne ho piene le tasche di gruppi da due PLIN PLON in croce, la voce lagnosa tipica di chi ha appena scoperto che i jeans preferiti sono ancora stesi ad asciugare e una tastiera rarefatta, col delay che suoni una nota oggi e campi di rendita per 3 concerti.
Eh, però son geniali! Per cortesia, allontanati, mi provochi un rash cutaneo.
Noto che una particolarità dell’epoca in cui viviamo è la facilità con la quale si concedono le etichette di “arte” e “genialità”. A me piacerebbe premiare cotanto talento in questo modo:
L’altro motivo di interesse per me sarà rivedere Barcelona, che mi piacque quando ci son stato 2 anni fa. Mi sentivo a casa. È una città simile a Napoli, per clima (anzi, fa più caldo e piove meno), carattere delle persone e quant’altro, però più sviluppata e organizzata. Lo dico con un pizzico di mestizia.
Roarrrr…sput sput – Parc Güell 2012
Non andrò da solo, saremo in 6. Confesso che, in realtà, non mi sento tanto motivato. Provo nostalgia di un viaggio in solitaria. Sarà che mi sono abituato a viaggiare da solo e soltanto di recente ho viaggiato in compagnia. Quando non ero single non sono mai riuscito a fare un viaggio con lei. Io per sua madre ero un bravissimo ragazzo, serio, educato e bla bla. Tranne quando si trattava di fare un viaggio in coppia: lì – immagino – io perdevo tutta la mia serietà e dormire insieme era da maleducati. Tra l’altro, son discorsi che lasciano il tempo che trovano, perché tanto comunque non è che si possa impedire a due persone di passare del tempo da sole. In fondo, però, come si dice: occhio non vede…occhio non vede. Ma lasciamo perdere.
Viaggiando da solo, dicevo, ho sviluppato ritmi e abitudini non conciliabili o conciliabili solo in parte con un viaggio in comitiva:
Mi piace l’idea del distacco totale e l’immersione in un’altra realtà.
Mi piace mandare all’aria i programmi e orientarmi a sensazione. In realtà sono il tipo che scrive tutto nel dettaglio, compresi mezzi da prendere, zone, ecc., ma poi, una volta arrivato, il programma si dilata, diventa elastico, va a parare altrove.
Mi piace fermarmi a guardare un quadro in un museo per tutto il tempo che voglio.
Mi piace all’improvviso sedermi su una panchina sotto un albero semplicemente per godere dell’ombra, del vento, del profumo del mare/dei prati, senza dover rendere conto a qualcuno.
Mi piace, per una mera questione di sopravvivenza, essere “costretto” a parlare con gli sconosciuti, in un’altra lingua.
Mi piace poter osservare. Cogliere dettagli della vita di una città diversa dalla mia, senza essere distratti da qualcuno.
Mi piace fermarmi a riflettere davanti a un tramonto, una lapide, un paesaggio, una qualsiasi cosa che mi sia d’ispirazione.
Mi piace visitare i parchi cittadini, controllare se c’è uno specchio d’acqua e guardare che pesci vi nuotano dentro.
Un giorno vorrei farmi inghiottire da un posto qualsiasi nel mondo e non tornare mai più.
Questa settimana pare che, a scanso di falsi allarmi, sia arrivata la mezza stagione. Così ho colto l’occasione per rinnovare un po’ il guardaroba, cosa che rimandavo da tempo perché il mio motto è “perché spendere oggi, se puoi spendere dopo-dopo-dopomani?”
E poi succede anche che i jeans “da treno” ormai sono così consumati che mi si vedono i boxer sotto. Cosa sono i jeans “da treno”? Sono quei pantaloni ai quali non tieni poi tanto ma che sono comodi e decenti e che usi quando devi spostarti in giro. Principalmente quando prendi i mezzi pubblici, che non sono il massimo della pulizia.
Io non ho esigenze particolari di vestiario. Nel mio armadio potrebbero rifornirsi un grunge, un hipster, c’è qualcosina per un metallaro e anche per un goth. E anche per un business man, perché, come direbbe Crozza-Briatore, quando ti guardi allo specchio e vedi il riflesso dei ray-ban di Gabriel Garko nei tuoi occhi, allora capisci che sei un imprenditore dashogno*.
Compro ciò che mi piace, senza preoccuparmi che sia in armonia col resto. Quindi non dovrei avere problemi a fare acquisti. Invece ne ho.
Sono andato in un centro commerciale. A parte che vorrei dire che questi posti sono discriminatori per gli uomini, diciamolo. Voglio fare qui una denuncia sociale: su 30 negozi, 20 vendono cose per donne, 6 cose per bambino e ciò che resta è per l’uomo. E nei negozi misti, su 100 metri quadri 80 sono per donne, poi c’è un angolino ghettizzato dove è ammucchiata tutta la roba maschile.
Infine, entri nel negozio e trovi:
magliette di carta velina con il collo a depressione caspica. È d’obbligo oggi che l’uomo alla moda mostri il décolleté. Io sono all’antica e le tette le nascondo;
tute. Tante tute. Perché ora il must è andare in giro in tuta, come gli italoamericani de la 25a ora che sperano in un’audizione per I Soprano;
pantaloni che si fermano alla caviglia. Possono far sempre comodo per una gita a Venezia, in caso di acqua alta;
pantaloni con le gambe strette e il cavallo basso. Utili in caso di incontinenza per nascondere il pannolone, suppongo;
jeans cuciti alla dog’s dick, perché o non vanno bene di gamba o ti segano in due il cavallo che manco il Barone di Münchhausen. Va be’, è perché non voglio ammettere di avere il fisico strano.
Infine credo che il must della stagione sia il verde. Magari con fantasie tropicali e/o forestali. Lo prenderò in considerazione casomai dovessi andare a cercare il colonnello Kurtz a Saigon.
E quando alla fine trovi qualcosa di gradevole – che diamine, in un posto così grande si trova roba per tutti – sono rimaste solo le taglie S e le XL, mentre per i normo-fisici non c’è più nulla. Significherà che ci sono altri disperati come me che vanno alla ricerca di un abbigliamento decente?
La gente poi mi chiede perché sono 20 anni che metto camicie a quadrettoni. Minchia, sono le uniche cose che si trovano sempre.
Fa niente, addio centro commerciale, andrò di nuovo nella bottega del clochard.
* Che poi questo presunto abbigliamento rispettabile consiste nelle classiche giacche da colloquio o da primo giorno di lavoro
Sarà il Natale che ci rende tutti più buoni (ma quando mai), ma sento il bisogno di usare il mio blog per alcune comunicazioni sociali.
MESSAGGIO SOCIALE N°1
Attualmente sempre più giovani tra i 20 e 30 anni (e a volte anche oltre) contraggono una malattia diffusasi negli ultimi anni: l’hipsteria. L’hipsteria provoca immediate reazioni nell’organismo infetto, come la crescita incontrollata di peli sul volto (per gli uomini) e l’improvvisa comparsa di camicie di flanella nell’armadio. Inoltre si ha un progressivo abbassamento della vista e il ricorso a occhialoni quadrati neri che negli anni ’80 sarebbero valsi atti di bullismo indiscriminato verso la propria persona.
L’hipsteria è altamente contagiosa, ma è CURABILE. Per questo, quando vedi un hipsterico non abbandonarlo. Lui ha bisogno di te. Ma stai attento e ricorda:
MESSAGGIO SOCIALE N°2
Con l’approssimarsi delle festività natalizie centinaia di Babbi Natale vengono appesi ai balconi delle abitazioni, legati per le mani, per le gambe, per la vita e a volte anche per il collo e costretti a rimanere esposti al pubblico ludibrio e alle intemperie, come nella più crudele delle torture medioevali. È ora di dire BASTA alla violenza sui Babbi Natale. Se noti che il tuo vicino di casa compie atti di sevizie su un Babbo Natale, non esitare a chiamarci: gli riserveremo lo stesso trattamento.
MESSAGGIO SOCIALE N°3
Ogni giorno la nobile livrea di un leopardo viene ricopiata per decorare scarpe, borsette, leggings, cappottini e altri indumenti usati da donne dai dubbi canoni estetici.
Giovane donna che sei in ascolto, non compiere anche tu lo stesso errore. Ogni volta che indossi tessuto leopardato, l’eleganza si avvicina sempre più all’estinzione. Nel mondo restano oramai pochi esemplari femminili eleganti, sottoposti al continuo rischio di venire risucchiati nel vortice della pacchianeria. Se hai un cuore, un fegato, un pancreas e altre viscere, condividi.
MESSAGGIO SOCIALE N°4
Ciao, sono un telefono cellulare e sono qui per dire una cosa molto importante: la Vigilia di Natale e l’Ultimo dell’anno io vengo usato per inviare sms in blocco di auguri preconfezionati . Utilizzando la funzione di invio a più destinatari e sfruttando le tariffe speciali delle compagnie telefoniche, intaso l’etere con messaggi a persone di cui al mio proprietario non frega una mazza e che hanno come unico peccato quello di essere presenti nella rubrica telefonica. Quest’anno usa la testa: non inviare sms con il solito stucchevole aforisma che sembra scritto da un Fabio Volo sotto effetto di Xanax. Se hai qualcosa di tuo di importante da dire a qualcuno a cui tieni, scrivilo. Altrimenti, taci per sempre.
ps, se avete altri messaggi di utilità sociale da condividere, suggerite 😀
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.