Non è che serva un telo per coprire la puzza

Avevo accennato al mio difficile inserimento nell’habitat dei ricercatori alla Sgranocchia&Sottrai Inc.. Essendo io presenza nuova ed estranea al loro mondo, è normale che fossero diffidenti e impauriti nei miei confronti.

A distanza di 3 mesi posso dire che le cose sono mutate.

Noto adesso un senso di maggior fiducia in mia presenza, credo non mi vedano più come una minaccia o un animale predatore.

Addirittura qualcuno si azzarda a pormi delle questioni. Ecco, andrebbe certo risolto un equivoco di fondo: il fatto che io condivida la stanza con uno che si occupa delle loro questioni amministrative non implica per forza di cose che io svolga lo stesso lavoro. Ma loro forse sperano io possa essergli d’aiuto e mi raccontano le loro problematiche burocratiche senza che io abbia chiesto niente.

La soluzione che do spesso, essendo spesso assente il loro riferimento amministrativo, è lapidaria e rassicurante: Scrivigli una mail.

Credo anche questo possa contribuire a un avvicinamento.

Addirittura una si è premurata che io mi fossi approvvigionato a del cibo rituale che aveva messo in comune per la sua tribù. Hanno loro questa usanza, un equivalente del nostro genetliaco (probabilmente una forma di assimilazione culturale), in cui si portano nel nostro Centro delle paste di pasticceria per quell’occasione.

Ma c’è un altro episodio che mi ha fatto comprendere di essere entrato in una nuova fase dei nostri rapporti.

L’altro giorno ero nei bagni, nella zona comune dei lavandini. Sento uno sciacquone alla mia destra, provenire dal bagno delle donne. Esce una ricercatrice, mi vede, lascia la porta spalancata, si sciacqua le mani e se ne va. Io, che ero ancora lì, vengo raggiunto nelle mie narici da…diciamo non fiori di campo, provenire dal bagno da cui era uscita.

Ora, che le donne (anche quelle che ricercano) puzzino è una verità che che l’umanità può affrontare nel 2020 – e che diamine! -, insieme al discorso dell’acqua nel sottosuolo di Marte e di Europa e le possibili forme di vita aliene che essa contiene. E forme di vita aliene di sicuro spesso abitano nei nostri corpi, visti poi certi risultati.


Ma mi rendo conto che per menti più umili siano ancora cose difficili da accettare. Ma questo non è un blog umile.


Il discorso è che la ricercatrice pur avendomi visto non si è preoccupata di socchiudere la porta, per celare il puzzo.


C’è un ampio finestrone in alto all’interno, quindi non serve tenere la porta spalancata per arieggiare.


Questa allora familiarità che si è creata, tanto da condividere anche le puzze – forse una qualche forma di comunicazione, come strusciare il perineo su alberi e porte o alzare la coda e innaffiare tutto ciò che capita a tiro – mi lascia molto soddisfatto di me.

Il mio atteggiamento antropologico, infatti, non è mai stato invasivo né indiscreto tanto da farli sentire osservati; è vero che mi esibivo in radiosi Ciao! quando li incontravo per farli sobbalzare, ma anche a questo, dopo un po’, si sono abituati.

Ecco allora che se è vero che qualunque osservazione inquina o altera un po’ il contesto in cui questa si svolge, non è comunque esentato l’osservatore scrupoloso dal cercare di apportare meno rumore (nel senso di fastidio e invasione) possibile all’habitat in cui si muove.

Posso appieno quindi considerarmi un provetto ricercatore di ricercatori.

Non è che l’imprenditore si serva di un giardiniere per il proprio ramo d’affari

C’è una nota a piè di pagina de La camicia di ghiaccio di Vollman che inizia così: «Il nostro habitat di questo mondo è il punto di congiunzione tra aria e terra».

L’analisi presenta secondo me un errore: il nostro habitat non è realmente il punto di congiunzione ma insiste dove aria e terra confinano: potrebbe sembrare la stessa cosa ma non è così. Il vero punto di congiunzione tra aria e terra è rappresentato dalle piante.

Forte di questa riflessione, in questi giorni mi sto occupando del verde di casa, giacché qualcuno deve pur prendersi cura della congiunzione. Già vedo troppi scollamenti, il giorno in cui ci strapperemo del tutto sarebbe il caso di almeno far trovare il giardino in ordine.


Senza doppi sensi, anche se l’altro giorno in una conversazione di gruppo ci si domandava se l’isolamento farà tornare di moda gli anni ’70, a livello di stile. Ci sarebbe quindi tutta una serie di riferimenti possibili a canzoni su aiuole o spot pubblicitari sui pratini:  ci ritroveremo tutti/e un po’ hippy, secondo me.


Ho potato la siepe che fa da confine. Pensavo che stesse venendo dritta poi a uno sguardo d’insieme mi sono accorto non era così. Ho sempre avuto un problema a far venire le cose belle diritte.

Ho sfrondato il nocciòlo di tutti i polloni spuntati intorno la base.

Ho tolto un po’ di rami secchi al limone. Fomentato da un documentario sul krautrock che ho visto ieri, l’ho fatto con gli Amon Düül nelle cuffie.

Ho deciso che vorrei far una margotta del limone.

Pollone, margotta: l’uso di questi tecnicismi mi fa stupir di me. Sta a vedere che quando si potrà uscire mi darò al giardinaggio. Se prima non avrò deciso di piantarla.

La camicia di ghiaccio di Vollman mi ha fatto tornare voglia di Islanda e ricordato che il mio prossimo viaggio vorrebbe essere la Groenlandia. Un’idea che mi frullava in testa erano anche le Isole Svalbard: le terre abitate più a Nord del pianeta.

A prescindere dal periodo storico che viviamo, sussistono comunque tutta una serie di ostacoli organizzativi da tener presenti. Chissà quindi quando sarà.

Mi pento un po’ di non essermi goduto forse appieno il mio viaggio islandese. L’Islanda è una terra che respira, letteralmente. La geologia dei suoi luoghi porta a relativizzare i concetti di tempo e spazio. Mò non voglio mettermi a fare il filosofo, penso solo che all’epoca sarà stata l’eccitazione di voler fare, vedere, ma credo di non aver relativizzato molto bene. Ricordo ad esempio quando ho fatto il bagno alle terme di Mývatn: penso una delle cose più rilassanti che esistano nella vita. Ti servono pure la birra direttamente in acqua, di che stiamo parlando.

Ebbene, mentre tutta la gente lì se ne stava a macerare nell’acqua calda come quando fai sciogliere il cioccolato a bagnomaria, io stavo lì che mi tuffavo da una laghetto a un altro (i due specchi sono separati da una strisciolina scavalcabile; per i più pigri c’è il ponticello), cambiavo posizione, mi sedevo tra le rocce, poi andavo a provare altre rocce, avevo insomma l’adrenalina in circolo che penso avrei potuto correre i 100 metri piani come Filippo Tortu.

Direi che adesso modo per relativizzare tempo e spazio ce l’abbiamo un po’ tutti. Purché con le piante in ordine.