Recensire mutande e reggiseni non fa di te uno scrittore intimista

Lulu mi ha chiesto di scrivere qualcosa da farle leggere. Non una fiaba o un racconto, la richiesta è stata molto più specifica: “qualcosa che ti viene in mente”.

Ho sempre timore del qualcosa: qualcosa da dire, qualcosa da pensare, qualcosa di personale.

Qualcosa deve venire da dentro, qualcosa è qualcosa che in genere non si mostra. Come una canottiera, non la si fa certo vedere agli altri.


DIDASCALIA ESTETICA
Anche se ricordo qualche tempo fa la moda della canottiera bianca per uscire il sabato sera e io pensavo ogni volta agli americani che hanno in mente lo stereotipo dell’italiano canottiera e baffoni.


Ho sempre problemi a raccontare qualcosa di mio. Sul blog può essere più semplice perché io non conosco chi mi legge e chi mi legge non conosce me, quindi tra non conoscenti ci si può sentire più a proprio agio. E comunque non è detto, perché non scrivo tutto e se per caso lo scrivessi lo camufferei in modo che chi legge non possa avere idea alcuna di cosa io stia parlando.


A volte mi è riuscito così bene che anche io non capivo più di cosa stessi parlando.


Questa stipsi espressiva l’ho sempre avuta. A scuola non amavo le tracce dei temi troppo intimiste: “Parla del valore che ha per te l’amicizia raccontando un episodio in cui un amico è stato per te importante”.

Cosa dovevo dire dell’amicizia? Al massimo, essendo gatto, potevo scrivere della micizia.

Per questo sceglievo sempre il saggio breve, l’articolo o il tema di attualità. Purtroppo, tutti gli insegnanti assegnavano come compiti per casa per le settimane successive le altre tracce. E quando non c’erano compiti in classe in quel periodo, un tema personale come lavoro a casa finiva sempre nell’assegno.

In genere evadevo sempre il tema in maniera molto impersonale e distaccata. Nel caso citato come esempio, dopo qualche frase retorica e ridondante (e anche verbosa e prolissa per riempire la pagina) sull’amicizia, concludevo brevemente con un esempio freddo e materialista: un amico è stato per me importante quando mi ha ceduto la figurina di Roberto Policano.


DIDASCALIA CALCISTICA
Roberto Policano, classe ’64, è un ex calciatore che ha vestito, tra le altre, le maglie di Roma, Torino e Napoli a cavallo di ’80 e ’90. Era detto Rambo per la grinta che metteva in campo. Per dare un’idea del personaggio, consiglio di guardare questo video storico della purtroppo sfortunata finale di Coppa Uefa del 1992 del Toro. Minuto 4:44, lo svedese Pettersson perde tempo vicino la bandierina per far trascorrere i secondi, Rambo irrompe e fa giustizia. Lo svedese tornerà a casa con un braccio rotto…


Il clou lo raggiunsi una volta, alle scuole medie. Compito a casa (non ricordo la traccia per filo e per segno ma il senso era questo): “Parla dell’importanza del ricevere aiuto e di quando tu ne hai avuto bisogno”.

Svolgimento:
Non ho mai chiesto l’aiuto di qualcuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo.

La professoressa, che mi aveva chiesto di leggere il mio tema, ascoltando queste parole esclamò: Eccolo! Il solito Gintoki, arrogante e irriverente. Bah, vai avanti, su.

Prof, guardi che è finito qui, dissi.

Scoppio di risa della classe. La professoressa sgranò gli occhi, poi riprese lucidità e mi mise una nota sul registro.

Suonò la campanella in quel momento. Ero stato beffato a pochi minuti dal fischio finale!

Alla luce di queste premesse, come mi si può chiedere di essere intimo? E poi intimo come? Di seta, di cotone, di lycra, di microfibra?

Se non c’è più religione assumeranno un supplente?

Una vignetta di Natangelo sul suo vecchio prof di religione mi ha ispirato dei ricordi sui miei trascorsi scolastici e i professori di “dottrina” (come ho sentito dire da persone di una certa età).

Ho avuto un solo professore di sesso maschile, che assunse la cattedra per gli ultimi due anni di liceo. Il percorso dalle elementari in su è stato invece accompagnato da maestre e professoresse. Mi sono sempre chiesto se in generale l’insegnante di religione fosse un ruolo più maschile o più femminile, non trovando mai una risposta esauriente.

Il prof del liceo era un insegnante non convenzionale, di quelli che religione la divulgano a modo loro. Preferiva far lezione con gli studenti tutti raccolti attorno la cattedra, chi seduto sul banco, chi in braccio a qualcun altro, chi in piedi. Si dialogava a ruota libera su qualsiasi tema ed era un modo produttivo per impiegare un’ora che altrimenti sarebbe stata sprecata.

Fu un cambiamento di impostazione rispetto alla precedente insegnante, che lasciava dialogare ma non offriva molto spazio a interpretazioni personali. Se la Genesi afferma che l’uomo è stato fatto con la polvere e la donna con una costola – diceva – allora è accaduto tutto letteralmente così e non va considerata come una metafora o un’allegoria.
Ciò che all’epoca mi pento di non averle chiesto è cosa pensasse delle edizioni della Bibbia e dei cambiamenti nel testo che sono stati effettuati di volta in volta dai traduttori: se il libro è la parola letterale di Dio, quale sia il bisogno di modificarla non si comprende. Certo, se la scrittura è opera di Dio forse lo saranno anche le richieste di modifica? È alquanto strano: non è che Umberto Eco dopo aver pubblicato un romanzo telefona di tanto in tanto alla Bompiani per chiedere di cambiare il testo. Ma Eco non è Dio, quindi forse il vantaggio di essere una divinità è quello di poter contattare il proprio editore quando più aggrada.

La professoressa delle medie è stata l’unica tra tutti gli insegnanti di religione che ho avuto a interrogare e distribuire anche voti negativi. Amava le storie dell’Antico Testamento, difatti un giorno mi salvai durante una raffica di interrogazioni a sorpresa raccontando la storia di Esaù e Giacobbe, che ricordavo perché mi aveva colpito per il puzzolente inganno perpetrato da Giacobbe ai danni del padre e del fratello.
Si racconta infatti che Giacobbe, per avere la benedizione del padre morente al posto del fratello, si presentò da lui sotto mentite spoglie. Il vecchio Isacco, cieco, riconosceva i figli al tatto. Esaù era molto peloso, così Giacobbe si ricoprì di pelli di capra – che non credo avessero un buon odore, ma forse non lo aveva neanche il buon Esaù – per ingannare il padre. Mi lasciava sempre perplesso come un uomo potesse essere villoso quanto una capra e mi chiedo cosa ne avrebbe pensato Vittorio Sgarbi a proposito di un tal individuo caprino.

Della maestra delle elementari ricordo la tinta di capelli rosso mogano, sempre la stessa per tutti i 5 anni. Una decina di anni dopo la incontrai per strada e sfoggiava la medesima tinta: non ho mai visto una simile coerenza di stile, encomiabile.
La maestra Pina (così la chiamavano) oltre per il capello, era nota per fare da coordinatrice per le recite scolastiche, soprattutto per ciò che concerneva i cori. In quelle recite ho sempre avuto un ruolo marginale o insignificante. come quella recita di Natale dove a me e altri due tapini fu affidato il compito di fare da intermezzo pubblicitario tra primo e secondo tempo, parodiando uno spot della Melegatti. Avevo imparato a memoria la mia battuta, se non che due giorni prima della recita le maestre la cambiarono. Provammo e riprovammo il nuovo sketch ma sul palco la mia sicumera mi tradì e feci confusione tra le battute, tra l’ilarità del pubblico formato dalle altre classi.
Non era colpa mia se non avevo esperienza di recitazione perché qualcuno aveva voluto così. Non era neanche colpa della maestra Pina che con me fu sempre buona. Una volta mi difese quando, durante le prove del coro che sarebbe stato inserito in una recita, fui sbattuto fuori dall’aula dalla maestra di matematica (che chiamavo “la maestra a quadretti”, mentre la “maestra a righe” era quella di italiano) con l’accusa di aver fatto lo spiritoso e aver cantato urlando.
Resto ancora convinto di essere stato vittima di un errore giudiziario.

Comunque a parte la maestra Pina e il buon samaritano del liceo, spero che le altre due siano andate in pensione e non esercitino più, perché non mi piacevano affatto.

E a pensarci non ho mai amato neanche l’ora di religione, ma questa è un’altra storia.