Non è che devi varcare una frontiera per entrare in uno stato di degrado

Mi concedo un’ora di evasione dal lavoro. Salgo in bici, cambio il solito tragitto e mi dirigo verso una pseudo campagna che scopro decorata di rifiuti ai due lati.

Ché io mi chiedo perché mai uno si prenda la briga di uscire di casa, caricarsi un sacchetto di immondizia in auto e portarselo dietro per abbandonarlo da qualche parte. Già solo la scocciatura di una cosa simile mi farebbe desistere. Sono forse troppo pigro anche per essere inquinatore?

Pedalando nel degrado mi incupisco sempre più. Mi tornano alla mente conversazioni, atteggiamenti tossici.

“Mò ti do una testata in bocca”.

Delle volte questo modo di scherzare non mi fa ridere.


Dando il beneficio che una persona stia scherzando. È una gran fortuna che io non mi faccia mai prendere dal dubbio che non sia uno scherzo. Non so come potrei reagire e non voglio neanche scoprirlo.


Poi però mi dicono che se non rido e me la prendo sono collerico. Si fa presto a dire collerico, gettato lì senza una contestualizzazione filosofica.


Parlo di filosofia non a caso: collera viene dal greco antico e voleva dire bile, giacché lo stato d’animo incollerito, secondo i saggi Greci, lo si faceva risalire a uno squilibrio di umori e un eccesso proprio di bile.


Scriveva Aristotele:

Gli irascibili si adirano rapidamente e con chi non si deve e per motivi per cui non si deve, e più di quanto si deve, ma la loro ira rapidamente anche cessa: e questo è il lato più bello del loro carattere. Questo, poi, accade loro perché non trattengono l’ira, ma per la loro vivacità reagiscono in modo che sia chiaro, e poi la loro ira cessa. I collerici, poi, sono eccessivamente vivaci e si adirano contro tutto ed in ogni
occasione: di qui il loro nome. I rancorosi sono difficili da riconciliare e restano adirati per molto tempo, giacché trattengono l’impulso. Ma la quiete in loro ritorna quando abbiano reso la pariglia: la vendetta, infatti, fa cessare l’ira, producendo in loro un piacere al posto del dolore precedente. Se questo, invece, non avviene, sentono il peso del loro risentimento, perché, non essendo esso manifesto, nessuno cerca di
persuaderli a calmarsi, e d’altra parte digerire l’ira in se stessi richiede tempo. Tali uomini sono molto molesti a se stessi e agli amici più stretti. Chiamiamo poi “difficili” quelli che si inquietano per motivi per cui non si deve, di più e per più tempo di quanto si deve, e non cambiano sentimento senza aver vendicato o punito l’offesa ricevuta […]


Tratto da L’Etica Nicomachea.


Visto come è complicato? Certo non so se ad Aristotele abbiano mai minacciato testate in bocca. Avrebbe magari potuto farla più semplice, a quel punto.

Arrivo a uno slargo e intravedo un palazzo storico. In una zona periferica scopro un edificio credo cinquecentesco. Una piazza riqualificata mi riporta a un’idea di civiltà che pensavo aver abbandonato in mezzo al degrado (meno male non è così: non son certo la civiltà sia biodegradabile).

Torno indietro. Una nonna che è andata a prendere la nipote a scuola. Un tizio seduto a un lato della ciclabile, di fronte la bici parcheggiata, che si tiene la testa tra le mani. Chissà che gli è successo.

Vedo corrieri in giro. Tanti. Gialli e rossi, rossi e bianchi, bianchi e gialli, neri e gialli.

I corrieri sono aristotelici. Come un sillogismo, collegano un punto e un altro verso una conclusione.

I postini invece sono poco sillogistici. Quello della mia zona invece di citofonare per lasciare le raccomandate, mette nella buca delle lettere direttamente un avviso di giacenza. Mi sembra il periodo storico migliore per mandare le persone ad affollare gli uffici postali.

Chissà se sarebbe accettabile dare al postino una testata in bocca o risulterei troppo collerico E sono certo di non stare scherzando.

Il Vocaboletano – 34 – L’uosemo

Ricordo che una sera, dopo una cena a base di pesce quando ormai la tavola era stata già ripulita, si affacciò in cucina la gatta. Miagolava con tono insistito e disperato, quello che utilizza di solito quando vuol qualcosa: si era svegliata tardi e aveva mancato il pesce, anche se ne restava nell’aria l’odore.

Madre esclamò “Ten l’uosemo”.
La guadai stranito. Ma che cacchio voleva dire?

In pratica, l’uosemo è la capacità di percepire qualcosa che non è tangibile, che si avverte nell’aria anche se non si vede. Un esempio concreto è il fiuto del cane, che segue piste invisibili all’occhio umano. Difatti uosemo vuol proprio dire fiuto.

Si tratta di un arcaismo derivato direttamente dal greco antico: ὀσμή (osmé), che vuol dire appunto odore, fiuto. Dal termine greco deriva anche l’italiano usmare, parola desueta che ha lo stesso significato: odorare.


Da cui deriva anche un gioco di parole lombardo con il nome del Comune di Usmate e cioè Usmate Milano.


Il vocabolo non ha connotazioni esclusivamente canine: sentire l’uosemo, infatti, riferito a una persona, vuol dire subodorare qualche inganno celato, avere una cattiva sensazione: “questa faccenda puzza” sarebbe in italiano.

In senso esteso, l’uosemo è l’intuito guida: È gghiuto a (è andato a) uosemo vuol dire che è andato a naso, per intuizione.

Adesso scappo che fiuto odor di croccantini.