La settimana scorsa sono stato in trasferta a Genova. Come preve-temevo qui, è stato un vero sequestro di persona. Addirittura durante la riunione (8 ore) non si faceva neanche pausa caffè. Certo, dopo avere assaggiato quello che servivano al bar della mensa aziendale, capisco anche perché non si abbia voglia di fermarsi per un caffè.
Il barista ci teneva a dire che lui è nato a Napoli e quindi lo sa bene come si fa il caffè.
Immagino che a seconda di dove nasci ti carichino il software con le capacità basiche tipiche del luogo: a Napoli il caffè, a Livorno il caciucco, a Bologna i tortellini, eccetera, così anche se ti trasferisci per i successivi 50 anni ti resterà la conoscenza. Ecco cosa fanno quando si portano via il neonato appena partorito!
L’altra cosa che ho notato è che le mie colleghe sono tutte iper-accelerate. Delle volte, questo l’avevo già notato interagendoci a distanza su Teams, devo dire loro Rallenta. Si comportano così anche dal vivo. Apprensina a volte ha la testa così piena di monologhi accelerati che parla anche da sola. Anche io lo faccio, ma quando son da solo veramente. Se sono in macchina con uno di fianco magari evito!
Io non so se il lavoro le abbia ridotte così o se, causa il lavoro, devono assumere anfetamine e quindi accelerarsi. Non hanno condiviso con me questo segreto e me ne dispiace.
Io so che – ma è il mio punto di vista dall’alto di un gatto – delle volte bisogna magari tirare il freno.
Oggi ad esempio, in riunione online, si parlava del telelavoro; sinora abbiamo usufruito di quello illimitato, da Novembre sarà limitato. Su questo tema, è nata poi la questione dello straordinario: con il telelavoro non viene mai computato e in quest’anno e mezzo o poco più di lavoro a distanza tanto straordinario svolto sarà andato perso.
Apprensina però ha osservato:
«Ok, ma senza telelavoro lavorando in sede avreste fatto quegli straordinari? Io no, soprattutto quando ero vincolata ai mezzi pubblici alle 18:00 max 18:30 me ne andavo»
Risponde Performina:
«Io sì, invece. Quando era il turno del padre di tenere mia figlia io restavo anche fino alle 20:30 in ufficio. Tanto visto non c’è nessuno a casa che mi aspetta, tanto vale che resti».
Premesso che ognuno fa quel che gli pare e se si trova bene con quel che fa, tante care cose e non sono affari miei. Però non ho potuto fare a meno di trovare tutto ciò un po’ triste.
Va bene che se quella sera sei senza figlia non hai urgenza di tornare. Va bene anche che magari tornare e trovare la casa vuota sia un po’ deprimente e quindi non forse non ti vien molta voglia.
È una mia speculazione, beninteso. Magari invece quando ci torna alle 21 è contenta di stravaccarsi sul divano con una busta di Chipster a fare le puzze in libertà fino a che non è ora di dormire.
Ma diogatto, fa’ qualcos’altro, passeggia, corri, salta, nuota, qualunque altra cosa che non comporti il chiudersi 12 ore in ufficio!
Che non vuol dire Maria Elena Boschi. Sta per Maschio Etero Bianco.
Non ho mai avuto problemi per l’appartenenza a queste tre categorie. Al massimo sono stato oggetto di scherno per l’insinuazione di non appartenervi abbastanza. Si sa come sono i ragazzi: coglioncelli.
Al liceo se non mostravi di posseder figa – perché non ci si accompagna, il vero MEB ce l’ha come proprietà – potevi esser accusato di non soddisfare appieno la voce E. Oppure di indugiar soltanto nelle attività manuali. A me è andata bene, capitò appunto di esser accusato della seconda. Meglio onanista che ricchione, si diceva.
Alle scuole medie l’esser M lo si dimostrava righello alla mano. Mi sono sempre sottratto a queste discipline geometriche. Non perché avessi dubbi su di me. All’inizio. Poi alcuni compagni iniziarono a vantare virtù elefantiache e allora smisi persino di andare a orinare a scuola per non sottopormi a imbarazzanti rivelazioni. Suppongo quei compagni ora siano tutti dediti al cinema d’intrattenimento adulto professionale viste le loro presunte dimensioni artistiche.
Durante le scuole elementari, invece, ero più scuro di adesso. Poi negli anni mi son sbiancato: effetto Michael Jackson, probabilmente. Non ho avuto particolari criticità a parte quando nel club degli Acchiappafantasmi dissero che io al massimo potevo fare “quello nero”.
Accantonati questi patetici trascorsi scolastici, oggi vivo l’età della consapevolezza, conscio del mio esser MEB e certo che nessuno mi fischierà, additerà, guarderà con sospetto in strada perché io in quanto MEB ho pieno diritto di fare e disfare quel che mi pare.
Il MEB è socialmente intoccabile.
A parte qualche giorno fa.
Non ho mai fatto mistero di esser del Napoletano (tra l’altro non vedo perché dovrei). L’altro giorno ero per lavoro nel Salernitano, insieme ad altri colleghi. Una signora di una cittadina di quelle parti, sentendo delle origini, fa, accigliandosi (giuro):
– Ah…siete di Napoli…
Cambiando discorso, mi metto a parlare con lei del più e del meno. Lei non so perché ci tiene a raccontarmi della figlia che vive a Reggio Emilia:
– Lei sta da sola là…come si deve fare…Che poi, pure là…ci sono un sacco di napoletani…
E di nuovo si acciglia.
E io avrei voluto dirle: “Signora, cos’ha da dire? Insinua che non siamo anche noi dei MEB?”.
Poi mi son ricordato di tutte le battute sui napoletani che ho sentito. Di tutte le volte che da gente di fuori Napoli ho sentito dire, nello stesso tono preoccupato e rassegnato della signora di cui sopra, che “Qua si stanno trasferendo un sacco di napoletani…”
Mi sono ricordato di tutte le volte che qualcuno mi ha detto “Però! Non sembri di Napoli”. Come se si aspettassero forse che io parlassi urlando, saltassi all’improvviso sulla sedia per intonare Abbiamo un sogno nel cuore Napoli torna Campione e mangiassi solo pizza e sfogliatelle.
Com’è possibile? Io sono un MEB. Riconoscetemi in quanto tale!
Per carità, queste son sciocchezze. Sono aneddoti per strappar una piccola risata perché, in sostanza, qui sopra scrivo per rider di tutto e niente. Puttanate, stronzate, per dirla in francese.
Però che la gente sia cogliona, questa non è una stronzata. Che ami etichettare, aver pregiudizi, offendere, insinuare, questa non è una puttanata. Lo vedo fare ogni giorno su chiunque essere umano non si trovi in una condizione di privilegio. E allora per costoro ho coniato una nuova etichetta: BEM.
Ci ho riflettuto sul pubblicare o meno questo post, perché, delle volte, mi rendo conto di essere molto aspro nei confronti delle persone, come un gatto appollaiato su un muretto che osserva e giudica tutti dall’alto in basso.
Ci sarebbero in realtà da fare delle precisazioni sul comportamento felino. Il gatto non è affatto un essere superbo e altezzoso, anzi, è un animale molto riservato e introverso. Predilige i posti alti perché si sente al sicuro e può controllare il territorio, si rannicchia in scatole, scatoline, pertugi e quant’altro per sentirsi protetto, dà le spalle non per spocchia ma per imbarazzo.
Ma, essendo io un gatto, è esattamente questo che faccio e mi sento autorizzato a fare!
In alcune situazioni gli esseri umani non danno spesso il meglio di sé, il più delle volte ovviamente in buona fede o perché non sanno cosa dire.
Un lutto è una situazione del genere.
I parenti di mia nonna non li conosco bene, alcuni non li conosco del tutto essendo certo di non averli mai visti in vita mia. Eccezion fatta per quando ero un neonato, cosa che non posso ricordare, com’è ovvio.
La cosa non mi creava problemi, anche perché, data la situazione, avevo altro cui pensare.
La cosa forse creava problemi a loro, visto che mi hanno scrutato e osservato manco avessi avuto la patta aperta. E mi sono anche controllato per accertarmi di non avere la patta aperta.
Quando, appena entrati, passavano a dar le condoglianze a Madre, le porgevano anche a me in automatico, salvo poi osservarmi curiosi con lo sguardo da “Ma avrò fatto bene a dargliele? Chi cazzo sarà?”.
Una pro-bis-cugizia ha deciso di attaccar di contropiede, chiedendomi in modo diretto:
– Ma tu chi sei?
– Io veramente sarei il figlio di …Madre
– Ah, bravo!
Ha detto proprio così, Bravo!. Avrei voluto replicare “Eh, lo so, due lauree e un master per ottenere questo posto!” ma mi sembrava troppo.
Altri esordivano presentandosi con formule del tipo “Io sono Carmelinda da Casalbubbolo”, ammiccando leggermente come a dire “Ti ricordi?”, che a me rammentava invece “Lo nome mio est Brancaleone da Norcia”. E ovviamente non sapevo chi diavolo fosse la tal Carmelinda di Casalbubbolo, per quel solito discorso che non ci si è mai visti una vita intera.
Una collega di Madre ha iniziato a fare un elenco di decessi. Ogni tanto tendevo l’orecchio per ascoltare cosa stesse dicendo, visto che parlava di continuo, e la sentivo sempre dire cose del tipo “59 anni, ha lasciato moglie e due figli…” e io mi chiedevo se fosse venuta per portar conforto o tenere una pagina di necrologi.
Un’altra bis-pro-zigina si è congratulata con Padre per la bella figlia che aveva, riferendosi a mia cugina.
Quest’ultima, in mezzo a tanti pesaturi lì presenti, mi ha rallegrato con qualche motto di spirito.
Dicesi pesaturo, in lingua napoletana, di persona pesante ed egocentrica.
La cosa ha attirato qualche sguardo di riprovazione da parte di quelli che mi osservavano la patta, perché non si ride mai in questi frangenti.
Al massimo, come li ho sentiti fare, si sparla degli assenti, mantenendo una espressione seria e contrita.
Tutti gli eroi hanno il proprio antagonista e io non faccio eccezione.
Da vent’anni sono perseguitato da una persona. Trattasi della figlia di un’amica di Madre.
Per esigenze narrative, da ora in avanti costei sarà impersonata da Lisa Simpson.
Tutto cominciò alle scuole medie, quando le nostre madri decisero che io e Lisa saremmo dovuti andare e tornare insieme da scuola per quei 200 metri di tratto in comune verso le rispettive case.
La cosa mi attirò commenti ironici, risate e allusioni da parte dei miei compagni.
Si sa che noi maschi siamo idioti alle scuole medie.
Anche alle superiori.
E anche a trent’anni a dire il vero. Ma alle scuole medie lo siamo ancor più.
Può essere comprensibile la mia frustrazione per le prese in giro.
Un paio di volte finsi di dimenticarmi di lei per strada.
La cosa più grave è che, oltre ad attirarmi lo scherno altrui, costei faceva sistematicamente saltare le mie coperture nei miei diabolici piani.
Come quando una mattina, davanti alle rispettive madri, ebbe la geniale idea di dire
– Certo che quei polinomi da fare a casa, proprio difficili, eh?
Al che intervenne Madre, fulminandomi con lo sguardo mentre si rivolgeva a me:
– Io non ti ho visto fare algebra, ieri.
E così il mio geniale piano che sarebbe consistito, nel caso, nel fingere di aver dimenticato il quaderno perché il giorno precedente ero troppo impegnato a completare un livello di Super Mario World per pensare ai polinomi, saltò.
Oppure quando una volta venne a prendersi un libro a casa, alle 15. Mai successo, tranne quel giorno in cui un gruppo di noi (io e lei compresi), sarebbe dovuto andare più tardi a casa della professoressa di lettere per una riunione del giornalino di classe. Io ovviamente avevo un altro livello di Super Mario World da completare e non ne avevo l’intenzione né lo avevo detto a casa.
Mentre se ne stava andando, sulle scale si girò e fece (sempre davanti alle rispettive madri):
– Allora ci vediamo dalla professoressa più tardi!
– Che devi fare dalla professoressa?, chiese Madre
– No io non devo andarci alla riunione
– Sì che devi, lo ha detto lei
– No, sono sicuro di no, non ho sentito, insistei sperando che mollasse la presa
– Sì sì io ho sentito, ci sei anche tu
– Ah ok, deve essermi sfuggito…sai ho questo problema dei tappi di cerume, me ne stavo cavando via uno con la penna Staedtler e non ho sentito…
Finite le scuole medie non vi ebbi più a che fare, fino alla vigilia del mio 18esimo compleanno.
Quel giorno decisi di spaccarmi la testa sul cemento della villa comunale, esibendomi in un placcaggio rugbistico di un amico.
Tamponata la ferita e medicata da mia zia all’ASL (dove per trovare un cerotto dovettero farsi 5 piani su e giù e lì capii che forse non fosse esagerato parlare di voragine finanziaria della Sanità campana), a casa, per mascherare la mia idiozia, riferii di un incidente meno stupido e sconclusionato occorsomi fuori scuola, al posto di dire come fossero andare in realtà le cose.
Quella sera stessa, Madre incontrò poi la sua amica, con Lisa Simpson al seguito. Raccontò loro del mio incidente – non comprendo perché farlo – e Lisa intervenne dicendo:
– Ah sì sì, l’avevo visto uscire dalla villa comunale con la mano insanguinata sulla testa.
E addio copertura.
Trascorsero altri anni senza che avessi sue notizie, fino a che, nel 2009, non la incontrai sul treno mentre tornavo a casa.
Chiacchierammo e facemmo ovviamente poi la stessa strada a piedi. All’atto di congedarsi mi chiese email, contatto MSN, telefono, LinkedIn, poco mancava anche codice fiscale e conto in banca. Mi ero in precedenza lasciato sfuggire che di lì a qualche giorno avrei avuto una pizza a pranzo a Napoli con degli amici e voleva aggregarsi a tutti i costi.
Ignorai tutto il giorno seguente le sue telefonate.
Non contenta, dato che mi ero lasciato sfuggire anche di un concerto cui sarei andato, nei giorni successivi pure lì tentò di imbucarsi. Per scoraggiarla, le parlai di una macchina strapiena, con una lunga lista d’attesa in caso di posti che si fossero liberati e gente disposta pur di venire ad aggrapparsi al paraurti sgomitando e gettando sull’asfalto i più deboli. Una situazione non certo adatta a una fanciulla.
Ovviamente, non era vero. In macchina eravamo solo due tapini più un terzo se non fosse morto di cirrosi epatica nel frattempo.
Dopo un po’, di fronte al mio essere sfuggente, desistette e sparì di nuovo.
Fino a ieri.
Suona Skype.
>>> Zio-cane, zio-cane, zio-cane <<<
Sulla suoneria di Skype si può cantare questo, fateci caso.
– Figlio, tutto bene? Hai mangiato?
– No, Madre. Sono le 19
– Mangi dopo?
– Certo, Madre. Novità da Terra Stantìa?
– Sai chi ho incontrato? La mia amica e Lisa Simpson!
– Noo
– Sìì. Mi hanno chiesto di te. Lisa sta ancora facendo il tirocinio e blablablabla
– Mh. Ah. Ok
– E ti ricordi poi quel corso di inglese che hai fatto a Londra l’anno scorso?
– Madre, era 4 anni fa
– E comunque anche Lisa ne vorrebbe fare uno e io le ho detto che tu sai dove può andare e lei ha detto ah sì mi faccia sapere e io ho pensato invece di chiedere a te e poi farmi dire e poi chiamarla mi sono fatta dare l’indirizzo email così ho detto è meglio che fate voi ragazzi vi mettete direttamente in contatto, mi fa pure piacere
– Madre, tu non sapevi neanche cosa fosse una email
– Me l’hai spiegato tu.
E quindi io non riuscirò mai a liberarmi di costei. Sospetto che da 20 anni Madre pianifichi un matrimonio combinato ai miei danni.
In modo serio, questa persona ovviamente non mi ha fatto nulla e sono io quello orribile.
Ma tanto davvero pensavate che un gatto fosse buono? Davvero? Ah ah ah.
Credo comunque la mia avversione per questa Lisa Simpson sia nata da un episodio alle scuole medie.
Si era sotto Natale, periodo di addobbi. Lei mi chiese cosa preferissi tra albero e presepe. Io risposi che mi piaceva di più fare il presepe e lei, prima che terminassi di spiegare, mi fece:
– Perché l’albero è più pagano.
Allora.
Non solo non mi hai lasciato terminare la frase ma l’hai completata con un tuo personale pensiero attribuendolo a me.
Perché mai, inoltre, la qualifica di “pagano” dovrebbe essere una discriminante negativa?
A volerla dire tutta, senza entrare in noiose dissertazioni storico-religiose, la nostra cultura affonda le radici anche nel paganesimo. E tutto ciò che viene attribuito come esclusivo al cristianesimo, il culto dei santi, le festività, le processioni eccetera, ha origini pagane cui il nuovo credo all’epoca si sovrappose.
Oggi ho conosciuto la madre di CR. È passata in ufficio da noi.
Sono rimasto sorpreso dall’incredibile somiglianza tra le due. Mi hanno sempre incuriosito quelle coppie madre-figlia dove la prima tende ad assomigliare alla seconda, accentuando la cosa imitando stile, trucco, acconciature. O forse è la figlia che tende a imitare la madre. O forse è una convergenza spontanea e naturale verso l’assottigliamento della barriera generazionale. Non ho mai capito come funzioni la cosa.
Beninteso, non è che una madre debba vestirsi come una nonna, non si parla di questo. Il discorso verte su quella che è una ricercata somiglianza estetica che enfatizza/estremizza ciò che la genetica ha posto nei tratti somatici.
Non è una cosa che sento mi debba riguardare – credo si tratti di accoppiate felici, o almeno spero – ma un’osservazione l’ho fatta lo stesso. Ho notato che le figlie con una madre amica/sorella/imitatrice tendono a essere più competitive delle altre donne. Spesso è la madre stessa che le pungola come un addestratore di dobermann da combattimento.
Non dimenticherò mai la prima volta che vidi a scuola la madre di una mia compagna di classe. A parte lo shock perché pensavo fosse la sorella maggiore, rimasi colpito da come fosse più stizzosa e nevrotica della figlia. Tratti caratteriali accentuati sicuramente dal torto subìto dalla sua epigona, che aveva ricevuto un voto inferiore a quello di una compagna, sgarbo che richiedeva una spiegazione (o forse un regolamento di conti).
La seconda cosa che ho notato, probabilmente connessa alla prima, è che questo tipo di ragazza tende a essere ipercritica ed esigente.
Che si tratti di un travaso del peso del rapporto con la madre verso gli altri rapporti?
Vorrei aver studiato psicologia per potere sparare una sentenza.
Non mi ricordo chi diceva che gli psicologi hanno una grande sfiga: non possono vedere il loro oggetto di studio. Un archeologo può vedere un reperto Maya. Un medico può vedere un corpo. Un politologo può vedere un politico anche se non sempre, dipende dalla percentuale di assenteismo. Uno psicologo non può vedere una mente.
Essendo io figlio maschio e con dei non risolti conflitti con la propria di madre, non sono in grado di comprendere questo fenomeno.
La mia cultura sull’argomento consta, oltre che di osservazioni di soggetti da me conosciuti, della visione di materiale didattico quale Gilmore Girls anni addietro.
La domanda sorge spontanea: guardavi Gilmore Girls?
La risposta è Ni. A casa i miei lo guardavano e ogni tanto buttavo un occhio anche io quando compariva il protagonista maschile, perché mi era simpatico: grezzo, scorbutico, sempre con camicie a quadri indosso e proprietario di un pick up. È il genere di 40enne che spero di diventare un giorno.
Mi manca solo il pick up e spero che per allora avrò i soldi per comprarne uno.
Chi storce il naso dovrebbe pensare alla versatile funzionalità di un pick up. Ad esempio è utile per trasportare i figli: basta metterli nel cassone dove potranno muoversi e fare casino lasciando guidatore e passeggero anteriore tranquilli.
E ora, in stile Intervallo della RAI (qui si può ascoltare il file audio), una carrellata di camicie a quadri direttamente da Gilmore Girls.
Un conoscente (che definiremo Conoscente), l’altro giorno recandosi al lavoro in una ridente città – che chiameremo Ridente Città – ha trovato un barboncino che vagava in strada. Senza segni evidenti di malesseri o maltrattamenti e con il collare al collo (in fondo un collare in che altro posto dovrebbe stare?), ma senza medaglietta.
Di sera, uscito dall’ufficio, ha saputo che il cane era stato preso in custodia da un anziano signore, che aveva anche provato a chiedere in giro se fosse di qualcuno senza ricevere alcun riscontro positivo.
Conoscente, una volta parlato con Anziano Signore, decide di portare il cagnolino a casa. Lo fa controllare dal veterinario che gli pratica anche un’iniezione preventiva non so per quale infezione.
Il giorno dopo Conoscente si reca all’Asl per identificare il microchip e tramite esso risalire al/la proprietario/a. Rintracciato il numero di telefono, chiama e risponde una donna che conferma di essere la proprietaria del cane e che sostiene che l’animale fosse scappato. Piccolo particolare: la non tanto ridente città – che chiameremo NTR Città – dove abita la donna è a 28 km da dove il cane è stato ritrovato.
Un cane di nome Forrest Gump, non c’è che dire.
La donna poi aggiunge: “Sai che ti dico, a me mi ha scocciato ‘sto cane, tienitelo”. <Clic>.
Conoscente prova a richiamarla ma lei si inalbera e riattacca.
Conoscente, ormai avendo preso a cuore e anche un po’ nel pancreas la questione barboncino, da buon cittadino si dirige dai Carabinieri, cui spiega la situazione. I CC chiedono a Conoscente di chiamare nuovamente la donna, col telefono in viva voce. La signora conferma di non volere più il cane e inizia a urlare improperi. Al che interviene il carabiniere che spiega alla signora che rischia grossi guai per abbandono dell’animale. La donna riattacca e spegne il telefono.
Il carabiniere consiglia a Conoscente di rivolgersi ai Vigili per la denuncia di ritrovamento (non è mi è chiaro il perché questo passaggio di consegne).
Il giorno dopo, i Vigili fanno un tentativo telefonando alla signora e spiegando che in quel preciso istante stavano per procedere a un verbale da 10mila euro. La signora allora si scusa per lo spiacevole malinteso, affermando che quella che aveva risposto al telefono sino a quel momento fosse sua figlia, nota in famiglia per avere un carattere fumantino e un po’ borderline.
Piccola pausa lettura per esclamare Ahhh, certo.
Fatto? Andiamo avanti.
Dice che è sua intenzione risolvere al più presto la cosa e farà avere sue notizie per concordare il recupero del cane.
Trascorrono due giorni, nei quali il barboncino – diventato tra l’altro un po’ aggressivo – resta a casa di Conoscente. Poi i Vigili ricevono una telefonata dalla signora per l’appuntamento per il ritiro. I Vigili avvisano Conoscente, che carica il cane in auto e si reca al comando.
A prendere il barboncino si sono presentati 3 gentiluomini (poi qualificatisi come il padre e due fratelli della proprietaria del cane) che dall’aspetto e dal modo di parlare si capiva che dovevano essere iscritti a qualche club letterario ospitato nella Curva A dello Stadio San Paolo, praticanti di sport come lo sputo del nocciolo di oliva e il lancio del mozzicone di sigaretta. Insomma, persone che hanno le qualità intellettuali per confutare la Critica della ragion pura di Kant, perché tanto la ragione se la prendono sempre loro e se è pura sanno come tagliarla e smerciarla.
I tre letterati prendono in consegna il cane – non senza difficoltà perché l’animale alla loro vista diventa feroce come un Vittorio Sgarbi che ha visto una capra – rassicurando che da loro starebbe stato bene, perché “hanno un intero campo dove ci sono altri cani”.
Un camposanto?
E con questo termina la storia.
Conoscente avrebbe volentieri tenuto il cane ma non poteva certo farlo.
Il segreto per una conversazione inutile è: avere sempre una frase di circostanza da inserire nel discorso che permetta di poter ricevere l’apprezzamento del vostro interlocutore.
Eravamo in treno da Wien Hauptbahnhof a Bratislava Hlavnà Stanica e, mentre mi interrogavo su quale dei due nomi fosse il più difficile da pronunciare, una signora sul sedile di fianco ci ha attaccato bottone per scucirlo soltanto all’arrivo, cioè dopo un’ora.
Dopo alcune commenti generali sul fatto che le cose sembrano funzionar meglio in Austria, si è entrati nel classico discorso che fanno gli italiani all’estero: il confronto con l’Italia.
fig. 1 “La saccenza”
Avendo io etichettato la signora come una boriosa e annoiata donna-bene con al seguito una figlia adolescente annoiata dall’aver una madre annoiata che si vanta che la figlia in estate frequenta corsi di tedesco in scuole-bene, ho provato a gettarle un amo. Con lo sguardo rivolto verso l’infinito (in realtà il mio sguardo andava sul martelletto per rompere il finestrino in caso di emergenza, chiedendomi se fuggire da una conversazione noiosa potesse essere considerata emergenza) fingendo una riflessione, e il dito da Salvatore Aranzulla sentenzioso (fig. 1), ho recitato la seguente frase: “Qui sono più bravi di noi a curar le apparenze”.
La signora ha abboccato mostrando il proprio apprezzamento di circostanza con una smorfia compiaciuta sul viso e un gesto teatrale con le mani, esclamando “Bravo, hai detto proprio la cosa giusta, guarda”.
E poi ha proseguito, dicendo: “Qui hanno più senso dell’identità, non come da noi che la stiamo perdendo, non siamo più noi, accogliamo accogliamo e l’Italia poi dov’è? Accogliamo tutti e smarriamo la nostra identità”.
Dopo questa io taciuto per tutto il resto del viaggio non reputando più la signora interessante per le mie analisi antropologiche. Lei invece ha continuato a parlare. La figlia adolescente non nascondeva la propria noia appoggiando la testa al finestrino e alzando il volume nelle cuffiette.
Alla fine ho pensato che la signora avesse ragione, perché accogliendo la conversazione con lei ho finito con lo smarrire la mia identità di aspirante operatore di conversazioni inutili o quantomeno il mio interesse per le suddette.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.