Sono il tipo di persona che a volte si sente a disagio perché non sa quale è il modo giusto di comportarsi in una situazione; ed è proprio qui il nodo del problema, il ragionare in termini di giusto o sbagliato. Come se il mondo fosse una di quelle storie a bivi dove conta solo e sempre cercare il percorso corretto.
Sono così concentrato sui miei disagi che a volte dimentico che tutti noi esseri umani possiamo anche essere il disagio di qualcun altro.
Ad esempio, credo di aver messo più di una volta involontariamente in imbarazzo una ricercatrice che bazzica nei laboratori della Spurghi&Clisteri dove lavoro.
È capitato, negli ultimi giorni, che mi trovassi a lavarmi le mani, dopo pranzo, proprio mentre lei era nel bagno delle donne credo di certo impegnata con l’opzione numero 2.
Non approfondisco il discorso, ma era intuibile dall’esterno.
E tutte e tre le volte, quando è uscita, nell’accorgersi della mia presenza, è trotterellata via a testa bassa.
Non è certo colpa mia se mi trovavo lì: adesso ho però preso l’abitudine di cambiare orario di lavaggio mani.
Ricordo, quando ero alle medie, una volta ci venne assegnato un tema come compito a casa. La consegna riguardava più o meno il parlare delle volte in cui si era reso necessario l’aiuto di qualcuno.
A quei tempi non amavo molto il tema di tipo personale. Quello in cui dovevi raccontare di fatti tuoi, emozioni, sentimenti, eccetera. Se erano fatti miei, restavano fatti miei. Avrei accettato di scriverne come fosse un diario personale, ma l’idea poi di leggerlo davanti alla classe era qualcosa che mi creava fastidio.
Preferivo di gran lunga scrivere articoli e saggi. A tal proposito, sul tema in oggetto avrei scritto più volentieri – e con successo – un saggio intitolato “La ripugnanza di dover rispondere a una consegna di questo tipo: spunti e riflessioni”.
Com’è come non è, il giorno dopo, quando ormai stava per scoccare il 90° (cioè il suono della campanella), per una mia battuta di troppo la professoressa mi richiama all’ordine e mi invita a leggere il tema.
Mi schiarisco la voce e, con riluttanza, leggo il mio svolgimento: «Non ho mai chiesto l’aiuto di qualcuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo».
La professoressa: «Eccolo, il solito Gintoki, caustico e sprezzante. Va be’ vai avanti»
«Ehm in verità ho terminato qui».
Scoppio di risa generale. Insufficienza sul registro. Campanella, sipario.
Non è che proprio avessi scritto qualcosa di lontano dalla realtà.
Chiariamo: l’aiuto di qualcuno capita sempre e io chissà quante volte l’avrò chiesto. Ma è anche vero che ho presto capito che Chi fa da sé fa per tre, che È meglio soli che male accompagnati, eccetera eccetera. Sono giunto alla conclusione e ho consolidato in me l’idea che certe cose è meglio risolversele da soli.
Anche perché, sarà incapacità mia nel comunicare i miei bisogni, delle volte non ho riscontrato una comprensione o una risposta che fosse conforme alla mia richiesta. E ciò lo ricollego sia all’incapacità mia nel comunicare sia alla presenza nel prossimo di una base pregiudiziale che inficia la risposta finale. In parole povere, se il mio interlocutore mi pone un input e nella mia testa ho già un’idea formata oppure ho la presunzione di aver compreso senza terminare di prendere in considerazione tutti gli elementi, il mio output sarà qualcosa non in linea con ciò che si aspetterebbe l’altro.
E credo che nel non capirsi sia una cosa che quotidianamente noi esseri umani ricadiamo. Allora, stando così le cose, la mia filosofia è Tranquilli, faccio da me.
Per fortuna, e sottolineo per fortuna, non è possibile far tutto da soli. Per dire, nella mia vita lavorativa mi è capitato che qualche santa in paradiso perorasse la mia causa. Il mio lavoro attuale dipende dalla mia collega, che ha insistito con chi di dovere perché trovassero il modo di assumermi in pianta stabile. Me lo sarò guadagnato perché fossi stato un incapace o un inetto mi avrebbero rispedito a casa, certo, ma resta il fatto che se a un certo punto non avesse rotto le scatole affinché prendessero una decisione, io oggi non so dove sarei.
Pertanto penso che un giorno o l’altro vorrei omaggiarla di un omaggio. E siccome è sempre fonte di spunti interessanti, frasi epiche o aneddoti divertenti, pensavo a qualcosa in linea col personaggio.
Qualche giorno fa, parlando con una collega, se ne è uscita con un’espressione che grossomodo è da intendersi come “Non siam mica qui a pettinar le bambole”. Solo che la sua frase era più colorita e, direi, icastica (anche perché chi è che oggi va in giro a pettinare bambole?):
«I peli da sopra la fessa non ce li togliamo in ufficio ce li togliamo a casa».
L’idea che mi era venuta era di farne una sorta di manifesto pop, come quelli che vanno di moda oggi (del tipo di Testi Manifesti).
È solo una bozza e va ridefinita, ma credo possa essere una buona base di partenza:
Ho un amico che si è messo in auto-isolamento per panico da panico. Nel senso che non ha il panico del contagio – gliene frega poco – ma gli è venuto il panico del panico delle persone: pur vivendo in una zona non toccata da alcuna emergenza, le persone hanno cominciato ad agitarsi, gli scaffali dei supermercati a svuotarsi, i ristoranti di sushi a chiudere per desolazione.
Il panico del panico è difficile da trattare. L’unico rimedio è appunto astenersi dal venire a contatto con impanicati.
Da piccolo credevo che i maniglioni antipanico si chiamassero così perché infondevano sicurezza: se uno cominciava ad avere un attacco d’ansia, si aggrappava alla maniglia e si sentiva meglio. Una volta quindi ci ho provato e ho fatto scattare un allarme. Mi sono spaventato assai.
Morale: la via immediata contro il panico non sempre è la soluzione giusta per il panico.
Il concetto però di aggrapparsi a qualcosa di per sé non è errato. Una persona mi aveva raccontato che quando si sente precipitare nell’ansia ha bisogno di qualcosa cui avvinghiarsi, foss’anche sentirsi raccontare un episodio dei Teletubbies.
Che a me in realtà fanno venire ansia. Sono aberranti e inquietanti. Sono inquierranti.
Ognuno di noi ha quindi una maniglia cui aggrapparsi. Anche se il più delle volte si finisce per attaccarsi ad altro.
Scartabellando tra vecchie fotografie me ne è capitata davanti una che mi ha riportato alla mente vecchi ricordi:
Questa foto risale all’epoca in cui ero domatore di alberi.
Forse voi siete abituati a pensare gli alberi come semplici vegetali fermi, tranquilli, pacifici. Oggi forse è così. Ignorate che gli alberi selvatici possono essere molto pericolosi. E anche gli alberi cittadini, prima di essere messi a dimora, necessitano di essere domati per addomesticarli e metterli in condizioni di non diventare aggressivi verso gli esseri umani.
In questa foto avevo appena avuto la meglio di un grosso esemplare in un giardino pubblico, imbizzarritosi dopo che un bambino lo aveva innaffiato con una copiosa minzione.
Fortuna che ero lì nei paraggi e sono potuto intervenire, altrimenti non so come sarebbe andata a finire.
La domatura si è rivelata lunga e sfiancante, ma soprattutto per la pianta feroce, che, come potete vedere dalla foto, si è stesa priva di energie mentre io avevo sudato giusto appena un po’.
L’albero furioso aveva provato a trarmi in inganno con un trucco fingendosi morto, ma io ho subito mangiato la foglia. Accortosi che io non ero caduto nel tranello, ha iniziato ad aggredirmi in maniera caotica. Aveva proprio le pigne in testa! Ho deciso di piantarla lì con quella storia risolvendo il problema alla radice: ho finto di darmi alla fuga, lasciandolo lì a dormire sugli allori – ce ne erano diversi nei dintorni perché era di mattina e, come si sa, il mattino alloro in bocca. Che incosciente! Ne ho approfittato per metterlo ko mentre era distratto! Tra gli applausi dei cittadini me ne sono andato, dopo che mi avevano scattato la foto, lasciando lì la pianta ormai sedata.
La domazione degli alberi è una pratica che è andata in anni recenti estinguendosi. Un po’ perché gli alberi moderni, figli e nipoti di alberi domati, sono ormai addomesticati. Un po’ perché la selezione delle specie in laboratorio ha creato esemplari sempre più docili, rendendo superflua la nostra professione.
Infine, da segnalare l’intervento di questi giovani di moda oggi, questi Greta Thunberg, che hanno iniziato a prendersela con tutti e anche con noi domatori di alberi, accusati di essere crudeli verso le piante come se fossimo dei sadici violenti. La nostra arte è diventata invisa all’opinione pubblica e così io, di fronte al cambiamento dei tempi, ho scelto di ritirarmi.
Ma ricordate, se un giorno un albero verrà a minacciarvi, chi chiamerete?
Dove lavoro io ci sono in maggioranza di donne. Divido poi l’ufficio con due colleghe. Il primo giorno che sono arrivato abbiamo fatto un giro di presentazione: c’è questa imbarazzante usanza di dover fare il giro di tutta la sede per presentarsi, creando imbarazzo nei nuovi ma anche nei “vecchi”, che si sentono obbligati a dover dire qualcosa di brillante ai nuovi arrivati. Infatti uno mi ha fatto “Ah! Condividere lo spazio con tutte queste donne sarà un bell’allenamento per una futura vita matrimoniale!”.
Anche una collega mi ha fatto “Povero te!” alludendo al mio rappresentare una minoranza. Oggi le due colleghe mi hanno detto la stessa cosa, parlando del fatto che nell’ufficio potrebbe arrivare una quarta persona, anch’essa donna.
Mi è capitato in passato, a dei colloqui, quando si passava a delle chiacchiere più o meno informali (dopo un’ora che ti tengono sulla sedia succede), parlando dell’ambiente di lavoro mi dicessero “Eh, siamo tutte donne!” con un tono misto tra “Non hai idea di cosa ti aspetterebbe” e “Qua è un casino”. Come se la cosa dovesse darmi poi da pensare, mentre invece pensavo solo che questa è una non-risposta perché non mi state dando l’informazione che cerco (beninteso, nessuno potrebbe spingersi a dire a un colloquio “Scappa da qui perché c’è un ambiente pessimo” anche se fosse così).
A me non è mai fregato nulla di dover condividere spazi lavorativi con uomini o con donne.
Mi frega e molto il non essere costretto a dividere spazi invece con gente che dà fastidio. E i fastidi possono esseri di varia natura: comportamentale, verbale, ascellare.
Credo quindi che la cosa fondamentale di cui preoccuparsi sia non rompere i testicoli o le ovaie al prossimo, sia esso dotato di testicoli o di ovaie o entrambi e indipendentemente da ciò. E purtroppo – in pochi casi per fortuna – quelli che mi hanno dato fastidio sono stati sia uomini che donne.
Quindi, sì, povero me che devo dividere spazi con gli esseri umani.
Da piccolo, quando sentivo che qualcuno si stava preparando per un concorso pensavo fosse impegnato anima e corpo nella raccolta dei bollini del Mulino Bianco o della Parmalat.
Poi crescendo ho capito che si trattasse di altro. Ho capito anche che fosse più facile vincere l’estrazione della Porsche della Melegatti che un posto messo a concorso pubblico.
Siccome a tutti capita, prima o poi nella vita, di prendere parte a un concorso, ne sto preparando uno anche io. Non si sa mai, metti che.
Tra le cose più insidiose nella preparazione c’è il riuscire ad allenare la lucidità mentale nel rispondere ai quiz. Ci sono delle volte in cui si gira e rigira intorno a un quesito che appare – errando – complesso, non riuscendo a vedere una risposta che è invece è immediata, chiara, lampante.
Questa storia mi fa venire in mente un episodio, accaduto a un mio amico. Un mio cugino. Al cugino del mio amico, che è anche un mio cugino.
Lui stava uscendo con questa ragazza. Si era agli inizi, ci si stava conoscendo. Quella sera si era creata l’atmosfera per conoscersi un po’ di più, nel senso biblico del termine.
Iniziò quindi una fase di approcci e sondaggi digitali. Dopo un po’, sempre il mio amico (o suo cugino) le chiese se le andasse di. Lei fece cenno di sì. Lui tirò su la mano e, mentre gliela passava intorno al viso, definendo con l’indice prima la appena accennata prominenza del suo zigomo destro e, poi, le vette del labbro superiore fin nella vallata dell’arco di Cupido sdraiata sotto il naso, si sistemava col corpo un po’ meglio (la comodità delle utilitarie!).
Lei in quel momento ebbe un sussulto e disse no. Poi si scostò e, risistemandosi, anche un po’ infastidita, chiese di tornare a casa. Il cugino (o il suo amico) rimase un attimo perplesso. Lei si scusò. Lui le disse che non aveva nulla di cui scusarsi. La riaccompagnò.
Prima di andare, lei si scusò ancora ma lui fermamente ribadì che non c’era nulla di cui scusarsi e che inoltre non era uscito con lei giusto solo per approfondire la conoscenza della Bibbia. Si congedarono sereni.
Sulla via solitaria del ritorno, però, il cugino di mio cugino si interrogava su cosa fosse successo. Beninteso, ci sta tutto che si possa cambiare idea o non ci si senta convinti di andar fino in fondo. La sua preoccupazione, essendo una persona molto autogiudicante, era però che avesse fatto qualcosa di sbagliato o qualche gesto inopportuno tal da impressionarla.
Mentre rifletteva e guidava, con la mano destra sulle 12 del volante, si passò la sinistra sul viso, corrucciato.
E proprio dalle dita di quella mano salì un afrore non particolarmente gradevole. Lì realizzò, facendo un rewind-stop del filmato di tutto l’accaduto, che la ragazza si era resa conto, nel momento in cui lui le aveva passato sotto il naso proprio quella mano, esploratrice digitale, di non sentirsi particolarmente a posto nella propria intimità e di aver dovuto quindi, per imbarazzo, fermarsi.
Ci sta, succede. Siamo esseri umani e capita, molte volte neanche per negligenza nostra, che non spargiamo sempre aroma di mughetto. O di mugatto, nel caso dei felini.
Questo aneddoto aiuta a comprendere che, molto spesso, la soluzione più semplice e immediata è proprio a portata di dita, sotto il nostro naso!
Visto che era citata nel titolo e, per alzare il livello del post, lascio qui la Digitale Purpurea del Pascoli
Nonostante mi piaccia nuotare, non sono proprio un tipo da mare. Forse sono un tipo da amare ma dovrei chiedere in giro. Le ragazze che sono state con me mi hanno amato, penso. Poi mi hanno odiato, penso. Ma va bene. L’odio è una cosa da rivalutare e a cui ridare dignità.
Per fortuna, viviamo in un periodo in cui sembra che alla gente piaccia tanto odiare. Sono tutti lì pronti a sputare veleno: quello deve morire, quell’altro deve fare una brutta fine, quello là deve subire all’amore (senza amore) nel didietro.
Si dirà che è sempre stato così per l’umanità. Forse è vero, ma oggi quel che c’è di nuovo è che sembra molto più amplificato. E diciamola tutta: se non odi nessuno, sembri anche un po’ uno sfigato. A parte che probabilmente ti diranno che stai fingendo di non odiare e quindi ti daranno dell’ipocrita.
Dato che ogni cosa deve però avere un bilanciamento perché sennò il troppo stroppia, serve anche esternare un po’ di amore. È per questo che esistono gattini e cagnolini.
Su questo punto però ho qualcosa da contestare. Non fraintendetemi: da gatto, che la gente ami i gattini e si intenerisca guardando gattoni ciccioni in pose buffe, non può che farmi piacere. Se però la gente ama solo i gatti e poi desidera la morte degli esseri umani, non va bene.
Se morissero gli umani, i gatti resterebbero senza servitori.
Ecco perché l’odio va anche un po’ ragionato.
Tutta questa digressione per dire che io stamattina, non essendo proprio tipo da mare, ho fatto il bagno in mare con il portafogli nel costume e ora odio il mio esser maldestro e distratto. Però amo il fatto che le nuove banconote euro siano idroresistenti.
Quando si parla di battaglie sociali e diritti, l’opinione comune da parte dell’uomo comune benaltrista è che “Esistono prima problemi più gravi cui pensare”.
Io sono d’accordo. È esattamente ciò che ho detto a un fornitore che contestava il fatto di veder la sua fattura pagata a 30 giorni. Ci sono problemi più gravi da risolvere prima del tuo diritto a essere pagato, e l’imponibile, diciamola tutta, è pure alquanto contronatura.
Mi ha menato.
Perché a parole sono tutti bravi a predicare, poi alla fine si scopre il loro buonismo e la loro ipocrisia.
Vorrei dire a tutti questi figli dei fiori amanti delle foto di gattini perché, visto che sono così caritatevoli, non si sono mai preoccupati di un tema scottante. I diritti delle macchine.
Anche se il luddismo è stato sconfitto la macchinofobia non è stata debellata, anzi, si è resa anche più crudele e violenta. Non sto esagerando. Ho raccolto qui alcuni esempi da un video come tanti altri che si trovano sull’internetto in cui pacifiche macchine vengono sottoposte a bullismo da parte di spregevoli esseri umani.
Nel fermo immagine sopra, un robot quadrupede viene fatto scivolare su delle bucce di banana. Uno scherzo che era già vecchio e crudele quando le banane ancora dovevano evolversi dai film porno.
In quest’altro esempio, un robot sta cercando di afferrare una scatola ma un energumeno, un bruto, continua a spazzargliela via e fargliela cadere.
Il video completo è questo che riporto qui sotto in cui sono presenti altri esempi. Robot che vengono costretti a saltellare su una sola gamba, a marciare nella neve o a rendersi ridicoli per il semplice diletto dell’essere umano.
ATTENZIONE: CONTIENE SCENE DI VIOLENZA CONTRO LE MACCHINE CHE POTREBBERO URTARE LA SENSIBILITÀ DEGLI SPETTATORI.
E se queste immagini non sono abbastanza scioccanti, consiglio allora di guardare questo video dove dei robot vengono costretti a combattere in una lotta all’ultimo bullone.
ATTENZIONE: CONTIENE SCENE ECC. ECC.
Magari qualcuno pensa che in fondo queste macchine hanno già troppi privilegi. Loro col wi-fi (persino le lavatrici ora si connettono) e gli umani a spasso con i giga esauriti.
Oppure che certe crudeltà non ci riguardino perché sono soltanto azioni compiute da un manipolo di sadici scienziatei al soldo delle multinazionali (e quanto soldo che gli danno!).
Invece io invito tutti a un serio esame di coscienza.
Ad esempio, chi non ha mai dato uno schiaffo o un pugno al computer sperando che si avviasse prima o si sbloccasse? Ebbene, questa non è forse violenza? Siccome i computer sinora non hanno mai denunciato allora la nostra colpa sarebbe meno grave o addirittura il computer sarebbe consenziente?
O forse magari qualcuno pensa che in fondo se la sia andata a cercare, visto che poteva evitare di interrompere il download al 99,9%? Come se poi lo facesse apposta.
e ogni 100 tappi di Peroni raccolti potremmo comprare dell’olio lubrificante per un robot che cigola.
Io quel che dovevo dire l’ho detto e vi ho avvisati.
Poi non lamentatevi se un giorno si presenta da voi un tizio dal profilo mussoliniano che spaccia pillole colorate e batterie Duracell.
Qualcuno potrebbe accusarmi di essere a mia volta bravo solo a parole. Un tizio una volta mi disse “Eh, vorrei vedere se ti nascesse un figlio Dalek!”.
Credo sia giunto il momento di presentare in maniera un po’ più chiara e approfondita il mio nuovo collega, Sam Tarly.
L’ho rinominato così innanzitutto perché tutte le persone del mondo esterno che passano per questo blog devono essere ribattezzate, come prescrive il Gattolicesimo.
In secondo luogo, l’ho fatto per la sua somiglianza estetica con il personaggio di Game of Thrones.
Avrei forse dovuto più propriamente chiamarlo Shrek, per i suoi modi. Uno Shrek poco simpatico.
Ammesso che lo Shrek cinematografico lo sia: non lo conosciamo nella vita privata, magari è una persona orribile.
Sam Tarly (o Shrek) è alquanto invadente degli spazi vitali.
Burpa di continuo. Tutto il giorno. Ogni due per tre si sente il suono di eruttazioni che muoiono nella sua bocca, con le sue guance che si gonfiano come Wile E. Coyote cui esplode un candelotto di dinamite tra le fauci.
Beninteso, è più che comprensibile e umano che una persona possa avere problemi di salute indipendenti dalla sua volontà e che magari arrechino disagio prima a lui che agli altri. Meno comprensibile che avvenga in un under 30 che potrebbe anche far qualcosa per sé stesso: sigaretta ed energy drink gassati alle 8:40 e gyros con cipolla a pranzo quasi tutti i giorni non credo possano giovare allo stomaco e ai processi digestivi.
In ogni caso, 9 ore chiuso in una stanza con Barney Gumble sono alquanto provanti.
Quando non burpa, invece, snorta come un cavallo tediato.
Quando non burpa e snorta, parla e interrompe la concentrazione.
Intendiamoci, a me piace chiacchierare in ufficio. In particolare perché questo mi permette di interrompere il lavoro e non sentirmi colpevole a farlo in quanto è l’altra persona a interrompere.
Ma quando ho bisogno di rimanere concentrato e lavorare – cosa rara ma accade anche a me – vorrei rimanere concentrato e lavorare per almeno dieci minuti consecutivi senza sentire la sua boccaccia che dà forma a parole.
Ho anche provato a tenere su le cuffie per far capire “Sono concentrato”. Non funziona. Oggi ho impiegato mezz’ora per riuscire a finire di ascoltare Fell on black days – qualcuno capirà perché – a forza di pause.
Conversazioni profonde con lui, inoltre, non è che se ne possano fare: oltre le notizie su Cicciolina, la moglie di Macron che non ha più le mestruazioni e il tizio che ha vinto il pollo fritto per un anno, la cosa più interessante che gli ho sentito raccontare riguarda uno spot di McDonald’s in cui un bambino mangia nello stesso fast food in cui era solito mangiare il padre, morto (forse a causa proprio del McQualcosa che ingurgitava: non mi sembra marketing molto intelligente!).
Quando non burpa, snorta e ciancia, deambula per le stanze mostrando il portabiciclette posteriore che sbuca dai calzoni. Ho dovuto fermare S. dal parcheggiargli il monopattino – qui si usa molto come mezzo di locomozione – nel deretano.
Quando non burpa, snorta, ciancia, deambula, mangia grufolando e spalancando le fauci come i vampiri infetti di Blade 2.
Inoltre è ignorante come una capra ignorante.
Bisogna finirla di considerare capra come sinonimo di ignorante. Le capre non sono ignoranti. Le capre ignoranti – come un famoso film di Özpetek – sono invece, sì, ignoranti. Ma solo le capre ignoranti, per l’appunto.
Beninteso, per il lavoro che facciamo non è richiesta chissà quale cultura, ma almeno un minimo di geografia potrebbe essere utile. Se arriva un progetto da Barbados non puoi contattare, in qualità di esperto da inviare lì, un tizio in Pakistan chiedendo poi “Andrà bene come costo di viaggio aereo? È lontano?”.
Detto tutto ciò, a volte penso di essere io a esagerare e di molto.
Si sa che noi gatti facciamo molte difficoltà sugli esseri umani.
Va anche considerato che ho sempre lavorato fianco a fianco solo con donne e mi sono abituato forse a un tipo diverso di relazione lavorativa e di rispetto reciproco.
A oggi, come ho raccontato qualche volta in passato, preferisco lavorare accanto a una donna. Poi c’è chi potrà dire che sia peggio, invece, che magari ha esempi più negativi di uno Shrek da ufficio o che magari ha una collega che 5 giorni al mese non si fa la doccia perché pensa che muoiano le piante o qualcosa del genere.
Ci ho riflettuto sul pubblicare o meno questo post, perché, delle volte, mi rendo conto di essere molto aspro nei confronti delle persone, come un gatto appollaiato su un muretto che osserva e giudica tutti dall’alto in basso.
Ci sarebbero in realtà da fare delle precisazioni sul comportamento felino. Il gatto non è affatto un essere superbo e altezzoso, anzi, è un animale molto riservato e introverso. Predilige i posti alti perché si sente al sicuro e può controllare il territorio, si rannicchia in scatole, scatoline, pertugi e quant’altro per sentirsi protetto, dà le spalle non per spocchia ma per imbarazzo.
Ma, essendo io un gatto, è esattamente questo che faccio e mi sento autorizzato a fare!
In alcune situazioni gli esseri umani non danno spesso il meglio di sé, il più delle volte ovviamente in buona fede o perché non sanno cosa dire.
Un lutto è una situazione del genere.
I parenti di mia nonna non li conosco bene, alcuni non li conosco del tutto essendo certo di non averli mai visti in vita mia. Eccezion fatta per quando ero un neonato, cosa che non posso ricordare, com’è ovvio.
La cosa non mi creava problemi, anche perché, data la situazione, avevo altro cui pensare.
La cosa forse creava problemi a loro, visto che mi hanno scrutato e osservato manco avessi avuto la patta aperta. E mi sono anche controllato per accertarmi di non avere la patta aperta.
Quando, appena entrati, passavano a dar le condoglianze a Madre, le porgevano anche a me in automatico, salvo poi osservarmi curiosi con lo sguardo da “Ma avrò fatto bene a dargliele? Chi cazzo sarà?”.
Una pro-bis-cugizia ha deciso di attaccar di contropiede, chiedendomi in modo diretto:
– Ma tu chi sei?
– Io veramente sarei il figlio di …Madre
– Ah, bravo!
Ha detto proprio così, Bravo!. Avrei voluto replicare “Eh, lo so, due lauree e un master per ottenere questo posto!” ma mi sembrava troppo.
Altri esordivano presentandosi con formule del tipo “Io sono Carmelinda da Casalbubbolo”, ammiccando leggermente come a dire “Ti ricordi?”, che a me rammentava invece “Lo nome mio est Brancaleone da Norcia”. E ovviamente non sapevo chi diavolo fosse la tal Carmelinda di Casalbubbolo, per quel solito discorso che non ci si è mai visti una vita intera.
Una collega di Madre ha iniziato a fare un elenco di decessi. Ogni tanto tendevo l’orecchio per ascoltare cosa stesse dicendo, visto che parlava di continuo, e la sentivo sempre dire cose del tipo “59 anni, ha lasciato moglie e due figli…” e io mi chiedevo se fosse venuta per portar conforto o tenere una pagina di necrologi.
Un’altra bis-pro-zigina si è congratulata con Padre per la bella figlia che aveva, riferendosi a mia cugina.
Quest’ultima, in mezzo a tanti pesaturi lì presenti, mi ha rallegrato con qualche motto di spirito.
Dicesi pesaturo, in lingua napoletana, di persona pesante ed egocentrica.
La cosa ha attirato qualche sguardo di riprovazione da parte di quelli che mi osservavano la patta, perché non si ride mai in questi frangenti.
Al massimo, come li ho sentiti fare, si sparla degli assenti, mantenendo una espressione seria e contrita.
Una delle cose che mi riesce più difficili è quella di interagire in modo rilassato con altri esseri umani, senza provare un senso di oppressione e fastidio e anche qualche accenno di iperidrosi. Tale sensazione si verifica in particolare in presenza di commessi petulanti, che, ahiloro, sono chiamati a svolgere la mansione per la quale sono stati assunti, cioè quella della petulanteria.
Sembrano gentili e sorridenti, ma ricordate che non sono vostri amici.
Sabato. Supermercato.
Mi dirigo al banco dei latticini per prendere della mozzarella, quando una commessa appostata lì per scopi pubblicitari si volta verso di me esclamando “Un po’ di mozzarella?”, accompagnando la frase con un cenno accondiscendente del capo e un ecumenico gesto della mano.
Al che io, fingendo di cercare altro, cambio all’istante direzione dirigendomi verso lo scaffale opposto al grido di “Oh ma dove sarà mai la Citrosodina?”.
Dopo un giro dell’intero supermercato per prendere altro, torno nella zona formaggi sperando che la commessa non sia lì.
Noto che è distante e girata di spalle, l’operazione è quindi fattibile. Il piano è
Arrivare al bancone con un giro largo fuori dal campo visivo del nemico, senza attirare l’attenzione. Tempo max: 10 secondi
Arrivato sul posto, guardare tutti i prodotti con un’occhiata veloce. Tempo max: 2 secondi
Prelevare “il pezzo”.
Controllare l’etichetta. Tempo max: 2 secondi
Abbandonare l’area.
Arrivato al punto 4 purtroppo il nemico mi è piombato come un falco addosso, e, mentre esclamava “Ci sta pure la confezione singola, vedi questa ne sono due” mi ha strappato “il pezzo” di mano.
– Invece no, questa è una sola…ci stanno pure i bocconcini se preferisci
– No questa va bene (e molla!)
– È 250 grammi, vedi tu se va bene
– Sì (ma fatti i casi tuoi)
– Tieni, ti do pure un po’ di ricotta fresca di bufala
E me l’ha buttata nella busta prima che io potessi chiedere spiegazioni. Poi si è avventata su un’altra cliente.
Non so se fosse omaggio o meno, ma arrivato al bancone dello yogurt la ricotta l’ho depositata lì.
Non si fa, non fatelo e non pensate di farlo. Posare i prodotti a caso, intendo. Ma non volevo tornare in quella zona.
Oggi invece avevo bisogno di un po’ di frutta.
In un altro supermercato.
Mentre sto prendendo la bustina, arriva il commesso del reparto ortofrutta che me la toglie dalle mani e mi fa “Che ti serve?”.
– Ehr…banane.
Dico.
E dopo che me le ha imbustate ed etichettate fuggo via.
Potrei anche accettare il fatto che siano a mia disposizione anche se io non l’ho chiesto, ma che almeno non avessero l’abitudine di togliere le cose dalle mani altrui.
Altrimenti sto pensando di pedinarli fuori dall’orario di lavoro e strappar via loro cose di mano.
Del tipo, appostato a un parchimetro: Deve parcheggiare? Dia qui le monetine, le inserisco io! Quanti minuti? 10? 20? 30? Ho fatto un’ora, che faccio lascio? Ma sì, al limite si fa una passeggiata, è tutta salute!
Non so come siano le mamme moderne, posso dire che la vita da bambino venti anni fa non era semplice.
Un giorno scoprii che fare la doccia pur avendo mangiato distrattamente un biscotto poco prima non causava la morte: non so se ero più sorpreso della rivelazione o infastidito per essermi reso conto di aver vissuto nella menzogna per anni.
Perché il “Non fare il bagno dopo mangiato” era esteso a qualsiasi tipo di lavaggio che andasse oltre mani e viso. Le ascelle pure andavano bene, bastava prestare attenzione a non bagnare petto e torace. E il divieto valeva anche per aver ingoiato solo un’oliva snocciolata.
Un altro problema era lo shampoo. I capelli andavano asciugati sempre correttamente. Che significava renderli secchi e aridi eliminando qualsiasi goccia di umido dal cuoio capelluto.
Poi ho scoperto che è una cosa tipica italiana: all’estero si danno una passata di asciugamano, scuotono la testa come farebbero dei cani e poi via verso nuove affascinanti avventure.
Va anche detto che all’estero sono sozzi quindi non fanno testo.
Forse anche considerare gli altri dei sozzi è una cosa tipicamente italiana.
Correre era un’attività pericolosa.
Ho passato la vita a sentirmi dire di non correre. A piedi, poi con la bicicletta, poi con l’auto. Perfino col treno. Una volta Madre mi accompagnò alla stazione: mentre scendevo dall’auto mi disse Non correre. Io replicai che non andavo a fare il macchinista.
Correre qualche volta era ammesso. Seppur con sibilline limitazioni: Corri piano.
L’altro problema tipico dell’infanzia era il sudore:
– Non si deve sudare, innanzitutto.
– Non si beve acqua quando si è sudati.
– Non ci si fa la doccia subito appena sudati.
– Non si suda quando si è sudati.
La cosa deve essere talmente radicata nel dna matrilineare della famiglia che ricordo un episodio illuminante di pochi anni fa: mia nonna mi vide rientrare dopo che ero andato a correre ed esclamò, allarmata, Staje tutt suràt! (Sei completamente sudato).
Come se fosse possibile muoversi senza sudare: probabilmente è vista come una malattia. Hai il sudore! Corri a curarti!.
Però piano, mi raccomando.
m3mango mi ha fatto richiamare alla mente ricordi che avevo rimosso. Il sudore, come dicevo, era una cosa terribile alla quale si doveva porre rimedio al più presto. Quindi c’erano sempre a portata di mano salviette umidificate per provvedere a nettàre la mia delicata epidermide; poi dopo compariva lui, un orrido piumino tipo quelli da cipria, che doveva esser stato ricavato da un anatroccolo sventrato, col quale mi cospargevano completamente di borotalco. Dopo ero pronto per esser gettato in padella e fritto nell’olio.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.