Il motivo è che sono stato un po’ preso. Lavoro, studio – a proposito, settimana scorsa un altro esame in meno. Ne mancano 3 più la tesi – vita privata, non mi consentono di ritagliare un momento in cui mi dico, come facevo di solito, adesso mi isolo (mentalmente) e metto giù qualcosa.
In realtà il tempo, volendo, lo si trova. Diffido sempre delle affermazioni “Vorrei…ma non trovo il tempo”. Se una persona analizzasse il modo in cui spende il tempo durante una giornata sono certo che, nella maggior parte dei casi, troverebbe spazi in cui avrebbe potuto dedicarsi a quel che dice di voler fare.
È una questione di volontà.
È un po’ quella che mi manca ultimamente.
La colpa è del mio rapporto con internet.
O nostro Signore della Rete, dacci oggi la polemica quotidiana per aver di cui parlare.
Mi sono reso conto che tutto ciò che mi viene in mente da scrivere è legato a qualcosa che ho letto o di cui mi hanno raccontato (e che hanno letto su internet) o sulla quale hanno un parere e che è legata a vicende che non si svolgono nella mia vita quotidiana né hanno attinenza con essa né in/con quella della persona che eventualmente me l’ha raccontato.
Considerato che, allora, cerco di orientare la mia vita secondo 3 regole:
1) Non sei obbligato ad avere un’opinione su tutto;
2) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto, ma non sei obbligato a rendere partecipi gli altri a tutti i costi;
3) Puoi provare ad avere un’opinione su tutto e rendere partecipi gli altri: assumiti la responsabilità delle stronzate che dirai;
cerco di disintossicarmi dall’invasione non richiesta di informazione ed evitare di applicarmici troppo.
Viva la desistenza.
Per rinfrescarmi le idee ho messo i piedi a mollo perché ragiono con i medesimi.
Comunque la cosa sembra aver funzionato e mi sento pronto a scrivere più regolarmente.
Si è visto, sentito, letto delle imprese di quello che, alla chiamata in Senato per votare, è arrivato in ritardo tal da obbligare a controllare anche il VAR per delle verifiche.
Non voglio parlare di ciò ma di quelle volte che ci si è trovati assenti quando si doveva rispondere invece Presente.
Tipico era, ricordo ai tempi dell’università, durante gli esami assentarsi un attimo per andare in bagno dopo ore di attesa per il proprio turno e, proprio in quel momento, veder chiamato il proprio nome dal docente.
Una volta, invece, al liceo ero assente a una chiamata ma in modo intenzionale. Volevo saltare l’ora di chimica, così insieme ad altri due perdigiorno mi rifugiai in bagno prima dell’arrivo del professore. Lui non controllava mai il registro di classe ma faceva semplicemente l’appello dal suo registro docente. Tranne quella volta dove invece tenne una reale conta. Ci vennero a chiamare in bagno e, visto scoperto il nostro gioco, pensai bene di entrare in classe in modo teatrale, fingendo un grave malessere interiore, interno, intestino per la precisione, che mi obbligava a malincuore a non stare in classe.
Purtroppo le mie doti attoriali non vennero né riconosciute né apprezzate.
Qualche anno fa ero assente a una visita prenotata alla cupola del Reichstag. Mi presentai alla stessa ora ma del giorno dopo. All’ingresso però la guardia fu gentile a lasciarmi entrare lo stesso.
È stato un episodio più unico che raro, perché in genere quando si tratta di viaggi sono sempre preciso e puntuale. Uno dei pochi vantaggi di avere l’ansia è di godere di ottime doti organizzative.
Meno fortuna hanno avuto varie persone che conosco, che potrebbero raccontare storie di voli persi per essersi presentati alla stessa ora del giorno sbagliato. Dopo la data del volo, ovviamente.
L’importanza di farsi trovare pronti si riverbera in vari aspetti della vita.
Rammento quella volta, diversi anni fa, in cui ero in un locale di cui conoscevo di vista una delle bariste. Andai al bancone a prendere per me un bicchiere di veleno o di benzina – quando si è negli anni ’20 della propria vita non si va molto per il sottile su cosa si beve – da portare al tavolo dove ero con degli amici. La barista, quella che conoscevo, dopo avermi servito e avuto i soldi, mi fa:
– Bevi solo?
– No no mi aspettano al tavolo
dico mentre me ne sto andando
– Ah…sennò bevevo io con te…
ha fatto lei
Ma io me ne ero già andato.
Arrivato al tavolo, a tempo ormai scaduto, ho realizzato: sono tornato indietro ma era impegnata e non ho avuto più modo di riparlarci quella sera.
Meno male che non lavoro al Senato sennò quante occasioni mi perderei!
Coltivavo ancora una speranza che dalla Federazione Autisti Operai potessero farmi sapere qualcosa nelle settimane a venire (puntata precedente). Ma lo stare così parcheggiato come un panchinaro mi gettava un po’ nello sconforto.
Percepivo di nuovo quella sensazione di spegnimento che accuso in alcuni periodi della mia vita e che necessita di un riavvio a spinta. O a calci.
L’anno scorso, in un periodo simile, venni a sapere che una ragazza che conoscevo si era uccisa. Avvenne il giorno della sua laurea o presunta tale: in realtà aveva mentito sugli esami ad amici e parenti fino a quel giorno.
Non la vedevo dalle scuole elementari, ma la cosa mi sconvolse gettandomi in una profonda inquietudine. Continuavo a chiedermi, nei giorni successivi, cosa pensasse, come si sentisse in una vita che probabilmente le era sfuggita di mano.
Qualche giorno dopo andai dalla mia ex (ora ex al quadrato) a dirle che pensavo ancora a lei. Pur sapendo che non ne avrei ricavato niente. Ma ero terrorizzato dall’idea di morire da un momento all’altro senza togliermi un peso.
Non so perché pensassi di morire da un momento all’altro ma lo pensavo.
Settimane dopo, mandai il cv a una ong che cercava qualcuno per un lavoro in Albania. Non era così campato in aria, anzi sarebbe stata la cosa più attinente alla mia laurea che avrei fatto sino a quel momento.
Ovviamente non mi presero, perché ero senza esperienza.
Quando raccontai questa cosa a due ex colleghi di università, loro si scambiarono un’occhiata sorniona e sarcastica come se avessi detto che da quel giorno avrei cominciato a girare in gonna e autoreggenti.
Mi resi conto che gli ignoranti cominciavo a non tollerarli più. Ma non ignoranti nel senso di persone senza cultura o conoscenze: ognuno di noi è ferrato su alcune cose e su altre no, quindi l’ignoranza è sempre relativa. Per la serie “Lei è ignorante nel senso che ignora e lei è imbecille nel senso che imbelle”.
Poi non ho più riprovato questa strada sino a quest’anno: nel frattempo ho fatto un lavoro che mi teneva impegnato 45 ore a settimana sino alle 22 di sera per poche centinaia di euro e che mi ha procurato una gastrite, un incidente stradale e l’avvicinamento all’ignoranza forse assoluta.
Se qualcuno mi scrive “via Leonardo d’Avinci” io comincio a dubitare seriamente del sistema scolastico.
Venendo al sodo o all’occhio di bue, dalla Federazione Autisti Operai non ho ancora saputo nulla e a questo punto credo mai lo saprò: oggi ho sostenuto un colloquio per andare a Budapest. Mi vogliono lì dal 1° dicembre.
Quando venerdì mi hanno detto di quest’opportunità, le prime cose che ho pensato sono state:
Oddio lì non c’è l’euro.
Oddio hanno una lingua non indoeuropea.
Oddio come farò a vedere il nuovo Star Wars al cinema?
Ora sto lentamente cominciando a fregarmene. Della partenza improvvisa, delle difficoltà, di tutto.
Anche se la cosa di Star Wars è difficile da digerire.
Perché sono stanco. Forse lo spiegherò in un altro post.
Mi dispiace lasciare Roma. Mi ha fornito tanti spunti interessanti.
Quest’oggi l’ultimo: mi siedo nell’autobus. Di fronte a me si siede un tale che sembrava Edward Nygma 10 anni più vecchio. Anche gli atteggiamenti ansiogeni sembravano quelli del personaggio.
Mi fa, a un certo punto:
– Scusi, sa…se questo autobus ferma in qualche posto…
– Come?
– Se si ferma in un qualche posto…un deposito…cioè un posto…
– Al capolinea?
– Sì! Al capolinea.
– Certo, arriva sino a xyz.
– Ok, grazie.
– Però non è un deposito di autobus, cioè è uno spiazzale e basta, eh.
– Sì sì, sta comunque fermo 2-3 minuti e poi riparte, vero?
– Sì, certo.
– Grazie.
Giuro sulle mie 7 vite che è tutto vero. E per questo vi prego.
Vi scongiuro.
Spiegatemi il significato di questa conversazione.
Forse ho incontrato davvero l’Enigmista?
Un Enigmista dall’accento barese, tra l’altro.
Poi dopo mi ha detto altre cose, che cerca casa a Roma ma è difficile. Cerca lavoro a Roma, ma è difficile. Io mi son limitato a commentare “Sì, è difficile”.
Martedì ho il colloquio con la Serbellons Mazzant Comesfromthesea. È una roba grossa, anche se poi tecnicamente lì dentro sarei rilevante quanto Jar Jar Binks nella seconda (in ordine di produzione)/prima (in ordine cronologico) trilogia di Star Wars.
Se non avete capito il mio esempio da una parte è un bene perché vi posso assicurare che l’idea che uno come George Lucas abbia pensato a un personaggio così ridicolo è difficile da accettare, dall’altra è un male perché vuol dire che non siete cultori di Star Wars e ciò mi spinge a guardarvi con sospetto.
Da sempre (probabilmente già da quando ero nell’utero materno, al pensiero di dover nascere), quando devo affrontare un evento importante (esami/colloqui/appuntamenti) tendo ad attraversare 5 fasi come quelle del dolore, applicate però all’ansia anticipatoria.
1. Sfiducia. La Sindrome di Charlie Brown.
2. Preoccupazione. Questa è la fase ossessivo-compulsiva, in cui la mente prova a pensare-pianificare tutte le cose da sapere/fare per prepararsi all’evento.
3. Ottimismo. A un certo punto, in maniera del tutto improvvisa e immotivata, come se fosse una scarica di endorfine arriva un picco di ottimismo.
4. Terrore. Quando si scarica l’ottimismo, arriva la voglia di fuga. Sarebbe bello se qui ci fosse un errore di vocale, ma purtroppo l’unico bisogno che avverto in questa fase è quello di fuggire e sottrarmi alla prova.
5. Menefreghismo. In un arco di tempo che può variare dalle 24 ore sino al minuto precedente l’evento ansiogeno, subentra il menefreghismo totale. Mi ucciderà questa cosa? No? E allora chi se ne frega.
Realizzare che le cose che facciamo non ci uccideranno né metteranno a repentaglio la nostra incolumità è un grande passo. È probabile che mi uccida un’auto mentre attraverso la strada per andare alla sede del colloquio, ma non certo il colloquio in sé: eppure la mente umana ha uno strano modo per scegliere le proprie priorità e preoccupazioni e sembra che la mia vita invece dipenda da ciò che avverrà mentre sarà seduto su una sedia a farmi valutare da una sconosciuta.
Il tizio (perché il mondo ruota tutto intorno a tizi e tizie) che fa da consulente che è riuscito a trovarmi questa opportunità, non è stato molto utile riguardo i dettagli. Non ha saputo dirmi a) chi fosse la tizia che mi fa il colloquio (una cosa risolvibile per lui con una telefonata o con un minuto su Google, come ho fatto io); b) a quale settore/dipartimento facesse capo; c) che figura nello specifico stesse cercando.
Lui, inoltre, le ha scritto in italiano; io le ho scritto in inglese visto il suo nome e cognome e considerato che è di oltre-oltreoceano (bisogna scavalcare due oceani per raggiungere casa sua, insomma): quando l’ho detto al tizio, lui ha fatto “Ah bravo, hai fatto bene, infatti volevo dirtelo”.
E perché non me l’hai detto? Pare che stai a fare un altro mestiere.
E quindi ho capito che se mai riuscirò a vincere le mie 5 fasi dell’ansia, da grande voglio essere un tizio. Uno che fa qualcosa ma che non si sa che cosa faccia.
Sono a corto di eventi curiosi da narrare, la cosa più interessante che ho fatto in questi due giorni è la visita di idoneità agonistica.
Non sono in genere ansioso durante le visite mediche ma ero preoccupato che uscisse fuori qualcosa che non andava. Può capitare quando l’ultimo ECG l’hai fatto 15 anni fa.
E dire che sono un sostenitore della medicina preventiva. Dal mio punto di vista il medico non è uno specialista da cui farsi visitare solo quando si sta male: beninteso, fare esami inutili non serve a niente ed è controproducente, ma ci sono alcune cose – come cuore, colesterolo, organi riproduttivi – che a mio avviso ogni tanto andrebbero controllate in via preventiva.
Da bambino, situazione abbastanza comune, avevo un soffio al cuore, sparito con la crescita.
Non avevo idea di cosa fosse: il cuore soffiava? Tipo i gatti? O c’era qualcuno che soffiava sul cuore (sembra il titolo di un romanzetto: Qualcuno soffiava sul suo cuore, il nuovo libro di Favio Bolo)?
Finché un giorno una dottoressa gentile non mi ha spiegato che cosa fosse.
Anche se quella del medico è una figura ‘neutra’, non collegata quindi a un sesso, nella mia vita ho riscontrato che i medici donna sono in genere più gentili e simpatici dei colleghi uomini.
L’altra caratteristica è che il mio muscolo cardiaco è un po’ più spostato a sinistra del normale. E non è una metafora politica per darmi del comunista.
Lo studio dove ho svolto la visita era alquanto lontano da dove abito, praticamente la parte opposta di Roma (non conoscendo nessuno avevo chiesto in Federazione di indicarmene uno. Ho chiesto alla persona sbagliata perché il coach invece ha poi indicato altri studi più vicini, con delle dottoresse, tra l’altro!). Ho trovato buffo attraversare la città con un vasetto della mia urina – mi era stato chiesto il campione – nella borsa. Ho temuto per tutto il tempo che si aprisse e si spargesse o che oppure a me venisse un colpo all’improvviso e le ultime cose che avrei avuto con me sarebbero state un libro di Michael Chabon (bellissimo) e un campione di urina.
Ho smesso di pensare al mio campione – campionissimo! – quando due signore hanno iniziato a battibeccare sull’autobus.
All’improvviso, infatti, si era diffuso sul mezzo un odore simile a quello dello spray insetticida per mosche, abbastanza fastidioso. Una delle due signore ha accusato un gruppo di turisti – tedeschi, credo – saliti in quel momento di aver sparso tale puzzo. Forse era una specie di amuchina o forse loro non c’entravano nulla.
Signora 1: Guarda questi, vengono in Italia e pensano che c’abbiamo le malattie, je facciamo schifo, si dovrebbero vergognare, che schifo
A essere sincero pure io ho paura di prendere malattie sui mezzi pubblici: credo vengano lavati all’interno solo quando piove approfittando del fatto che le guarnizioni dei finestrini perdono acqua.
Signora 2: eh ma Roma fa schifo, guardi, io me ne sono andata…
Signora 1: ma che cazzo c’azzecca Roma, c’avete sempre in bocca Roma Roma Roma, se non je piace se ne vada e non rompa i cojoni
Signora 2: ma non ce l’ho con Roma o i romani, ma lei è una stronza, dico è colpa di chi l’ha ridotta così, è colpa loro
Signora 1: macché loro, questi non so del Terzo Mondo, sono bianchi, parlano inglese, ma che cazzo dice
Veramente anche nel “Terzo Mondo” si parla inglese, Signora 1 forse lo ignora.
Signora 2: ma che cazzo ha capito, io parlo dei politici
Signora 1: eh e chi li ha votati, io no di certo, forse lei
Signora 2: e manco io, ma guarda questa
Insomma sono andate avanti così e io pensato che le città fanno schifo perché la gente è sempre rissosa e irascibile come delle bertucce.
Chiedo scusa alle bertucce per la battuta poco felice su di loro.
Allo studio sono arrivato in largo anticipo e ho potuto dare un’occhiata all’arredamento. In un post di qualche tempo fa mi sono soffermato a analizzare la bruttezza dei quadri delle sale d’aspetto degli studi dei medici generici.
Una categoria a parte è invece rappresentata dagli studi di dottori specializzati in chirurgia estetica: rimango sempre colpito dalla loro pacchianeria.
Non frequento studi di chirurgia estetica; capita, come in questo caso, che lo specialista che debbo vedere sia ospitato in tali ambienti.
Questa qui è la reception, molto sobria:
Ma nulla in confronto alla beltà e alla leggiadria di questa imitazione in plastica di una scultura di un torso di donna dalla tonalità rosso cremisi variegato, posta accanto al divanetto della sala d’attesa:
La visita è stata breve ma intensa. Il mio cuore è a posto. Almeno fisicamente. Quasi speravo vi trovasse qualche stranezza e la spiegasse. Ad esempio il perché diventi così rumoroso quando si tratta di donne.
Ricordo un episodio, quando feci preoccupare una ragazza. La stavo abbracciando da dietro – niente scene erotiche, era un abbraccio puro e Castro (essendo come detto il cuore spostato a sinistra); ci piacevamo ma era ancora quella fase di attesa della prima mossa. All’improvviso il mio cuore iniziò a martellare come un muratore bergamasco. Lei si staccò e si girò dicendo: Ma hai il batterista dei Nile nella giacca o sei solo contento di abbracciarmi?
Dato che forse li abbiamo presente solo io e Zeus, allego un file esemplificativo delle virtù musicali dei suddetti Nile:
Io credo di aver balbettato qualcosa e poi aver indicato un piccione morto per distrarla. Quando la riabbracciai lei poi mi disse: Ma mi fai preoccupare, non è che ti faccio venire un infarto?
Il cuore è strano. E poi ha questo vizio di fare scherzetti al cervello: sempre quando si tratta di ragazze, si diverte a premere sull’arteria che va verso il cranio cosicché la testa comincia a comportarsi in modo poco lucido per la mancanza di ossigeno.
Come si suol dire sempre: il cuore ha le sue minchiate che la ragione poi se ne sbatte.
Chiusa la parentesi cardiovascolare, sull’autobus del ritorno mi è capitato di cedere il posto a una signora e lei, facendo l’espressione che di solito si fa quando si guarda un neonato o un gattino in una cesta, ha esclamato: Ma che carino!
E allora ho pensato che le città non facciano proprio tanto schifo.
Un mio amico di recente è stato bocciato credo per la decima volta all’ultimo esame. È un anno che gli sta dietro. Non si appiglia a scuse del tipo “È tutta colpa dei professori”, anche se, stando a quanto mi racconta, docente e assistenti sono dei bei tipetti.
Questi discorsi mi hanno ricordato i tempi universitari e i professori incontrati da me. Ce ne erano di esemplari interessanti.
La gerarca SS – Già dal nome era un programma, doppio cognome di cui il secondo tedesco, tipo Hohenzollern. Insegnava diritto internazionale, ma secondo me insegnava l’arte dell’insulto di Schopenhauer. La lezione era fatta di mezz’ora di spiegazione e mezz’ora di abbassamento dell’autostima degli studenti. L’esame prevedeva un discorso preliminare da parte sua in cui invitava ad abbandonare l’aula perché secondo lei l’esame si doveva preparare un paio di volte prima di presentarsi. Il colloquio era di tre quarti d’ora, minimo, di cui mezz’ora in cui parlava lei e faceva dell’autostima del malcapitato un sacchetto da punching ball. Volte minime in cui andava tentato prima di superarlo: tre. A meno che il proprio turno non capitasse durante la sua pausa pranzo alle 11:30, in cui l’assistente cominciava magicamente a dare esami in 10 minuti. A me è successo al primo colpo. Ho temuto che per riequilibrare quella botta di culo come minimo m’avrebbe investito una mietitrebbia uscito dalla facoltà.
Kevin Costner – Tra l’altro professore della mia tesi alla magistrale, un uomo dallo spropositato culto dell’aspetto fisico. La sua lezione: lui che, con la camicia con i primi bottoni sbottonati, parla in piedi, mettendosi in posa. Non scherzo. Si appoggiava alla cattedra con la mano, poi vi si appoggiava all’indietro, poi una volta addirittura mise il piede su una sedia e parlava in posa come un cacciatore che aveva appena sconfitto una belva feroce, pronto per essere immortalato. E aveva il tic di Sgarbi di sistemarsi il ciuffo fluente ogni trenta secondi.
Il Santo – Il professore più amato dagli studenti, docente di storia delle relazioni internazionali. Per chiedergli la tesi c’era più fila che alla posta, per poterne prendere di più lui a volte non so con che magheggi occultava le tesi che aveva in corso. Le sue lezioni erano uno show teatrale. A volte portava le caramelle o i biscotti e se qualcuno rispondeva bene a una domanda gliene dava una. Una volta invece accadde questo: prof. che fa una domanda all’aula, tra l’altro una semplice; uno risponde ma in modo completamente sbagliato. Il professore va verso la borsa, ne estrae un cartellino giallo e lo mostra allo studente che aveva risposto: “Ammonito! Alla prossima scatta la squalifica!”. L’assistente del professore, che in realtà era un professore associato, era un vecchietto che sembrava stesse lì perché non aveva altro da fare. Tipo gli anziani che guardano gli scavi. Se gli davi a parlare, era finita: cominciava a raccontarti di tutto. Uscivi dallo studio e lui ti seguiva continuando a parlare. Una volta continuò a parlarmi lungo le scale raccontandomi della Grande Guerra. Il tutto perché gli avevo solo fatto una domanda riguardante tutt’altra cosa.
La mummia – Doveva già essere vecchio quando c’era la Montessori. Non si capiva quanti anni avesse, ma di sicuro molti. Pensavo fosse prossimo alla pensione, il primo anno. Dopo 5 anni di università, quale mia sorpresa nel trovarlo ancora al suo posto. Anno 2014, vado a un seminario di politica e amministrazione. Tra gli invitati, c’era lui! In qualità di docente (ancora operativo)!
Il lettore – Professore di diritto pubblico, durante la lezione si poteva portare il segno sul libro perché per due ore non faceva altro che leggere i propri appunti copiati pari pari (perché non leggere direttamente dal libro?!). Se la Noia fosse stata personificata, lui l’avrebbe fatta scappare per quanto era noioso.
Il vaticanista – Esperto dei piccoli Stati, in particolare della Città del Vaticano. Teneva infatti lezioni su questi argomenti nell’ambito del corso di Diritto Costituzionale Americano e Comparato (cosa c’entrassero in tutto ciò i piccoli Stati, è un mistero! Non abbiamo mai comparato nulla!). Non si capiva ciò che dicesse, pur stando in prima fila (eravamo 10 persone), perché lui si ostinava a non voler usare il microfono. Dopo ripetuti solleciti, cominciò a usarlo. Lo teneva ad altezza stomaco. Dopo altri ripetuti inviti, lo alzava ad altezza bocca dello stomaco. Quando finalmente lo mise a portata di voce, non si capiva niente lo stesso perché lui parlava così:
“È nell’anno mijuejuentoshin’anta che l’arcivdva Jojjj Secondo decide di… (continua con ronzii e borbotti a caso)”
Il Boss – Il preside della facoltà. Un uomo che una volta, alludendo alla propria prominente rotondità addominale, disse: “Non è pancia, è il potere”. La sua squadra era ben assortita: c’era il suo delfino, un uomo che stava plasmando a propria immagine e somiglianza tranne che per la forma fisica, per fortuna. C’era un ricercatore, un uomo con l’aria da secchione cui credo venissero affidati i compiti ad alto contenuto intellettivo più ingrati. Conosceva i testi d’esame a memoria, virgole comprese. Capitare infatti all’esame col delfino, voleva dire ragionare e ricevere domande complesse e articolate. Capitare con lo sgobbone, voleva dire doversi ricordare una nota a piè di pagina 346 contenente una citazione. E poi c’era il terzo, l’uomo di fatica, un individuo che sembrava un incrocio tra Paolo di Canio (qui sotto nella diapositiva) e un bonobo. Nessuno ha mai capito bene a cosa servisse e che ruolo svolgesse. Durante lezioni ed esami sedeva accanto al Boss, ascoltava e annuiva e basta, forse perché non gli era concessa la parola. Una sola volta osò aprire bocca: il Boss stava spiegando una cosa, lui intervenne con un esempio e il Boss, accompagnando le parole con un cenno della mano per bloccarlo, lo spense dicendo “Sì sì ma questo non c’entra”. Credo non abbia più parlato da allora. Quando il Boss dopo il secondo mandato non è stato più eletto preside, ha dovuto rinunciare alla squadra. Il delfino ha avuto una cattedra, lo sgobbone continua a sgobbare per il delfino, mentre il povero servo è sparito dalla circolazione.
E poi ce ne sarebbero altri ancora, magari ne parlerò in una seconda parte.
Comunque io avrei preferito incontrare il Professor Bellavista
Oh, io sono pieno di dubbi, preferisco fare il bagno e per me vince sempre il presepe. Ah, e sono meridionale, ovviamente.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.