Non è che ti serva un gps se ti perdi nei ricordi

In genere qui sopra parlo di rado di cose mie intime e personali. Oggi è uno di quei casi.

Settimana scorsa se ne è andato mio nonno. L’ultimo di tre che mi restava. E, come le altre volte in precedenza, mi trovo a riflettere sul fatto che un accadimento del genere rappresenta la chiusura definitiva di un’epoca: la propria infanzia.

L’infanzia l’ho superata e da parecchio, chiariamo – anche se indugio a volte in atteggiamenti infantili – ma la cesura anagrafica, il prima e il dopo, la avverto sempre in una situazione come questa.

È buffo ma in questi giorni mi erano venuti in mente solo episodi curiosi o divertenti che li riguardano o che vedono coinvolto il mio me di allora e loro tre.

Ad esempio, avevo già raccontato su questo blog della modalità con cui venivo avvisato di una telefonata per me. A casa mia non abbiamo mai avuto il telefono, per dissidenza politica contro la SIP da parte dei miei. Quindi il numero che utilizzavo era quello dei miei nonni materni, all’appartamento di fianco. Quando qualcuno chiamava cercandomi all’inizio mio nonno veniva a bussare alla porta. Poi passò a bussare sul muro divisorio. Infine, arrivò all’urlofono: i miei amici che chiamavano abitualmente avevano imparato a staccare l’orecchio dalla cornetta per non perdere l’uso del timpano.

Il look di mia nonna paterna era sempre uguale, con i capelli raccolti in una piccola crocchia. Solo una volta, che mi trovavo ad andare a casa sua, la trovai mentre li pettinava: erano lunghissimi, da seduta le arrivavano a terra. E, soprattutto, nonostante l’età erano molto più neri di quel che sembrava dalla crocchia. Roba da far invidia a un metallaro.

Grazie ai nonni materni ho imparato come si fa il pane, il vino, le conserve di pomodoro. Sono competenze che, considerando che la mia generazione dovrebbe seriamente riconsiderare la nobile vita dei campi, potrebbero tornare sempre utili.

Uno dei “drammi” nel pranzare dai nonni materni era fare i conti con la cintura. La porzione servita dalla nonna era sempre abbondante. Poi arrivava lo sguardo inquisitorio del nonno, che esaminava il piatto e, constatandolo non sufficiente, rimproverava la nonna al grido di “Ma non gli fai mangiare niente a questo ragazzo, mettine altro”. E giù altre cucchiaiate di cibo.

Mia nonna paterna era fissata con gli uccellini. Aveva una stanza della casa in cui c’erano solo gabbiette di volatili. Quando lei e mia zia si trasferirono vicino da me, ci volle un trasporto a parte solo per loro. Ogni volatile aveva poi la propria miscela di mangimi: come cacchio facesse a ricordarsele non lo so.

A tavola ogni Natale o Pasqua tutti e tre finivano a parlare di aneddoti vari su persone note in città ai loro tempi, conosciute ai più non con nome e cognome ma solo col soprannome. Uno di questi era il mitico Sette Pistole, uno che, per far capire il tipo, una volta per rispondere a un’insolenza si presentò nella fabbrica dove lavorava con un “ferro”, facendo fuggire via l’insolente che gli aveva mancato di rispetto.

Mia nonna paterna doveva sempre ricordare a tavola un episodio di quella volta che – io avrò avuto 5-6 anni – eravamo in visita a un bioparco e fummo sorpresi dalla pioggia mentre passeggiavamo in riva a uno stagno. Mentre gli adulti corsero a ripararsi io cercavo di acchiappare/calpestare coi piedi le rane che cominciarono a saltar fuori da ogni dove. Sembrava piovessero dal cielo. Ma non eravamo in Egitto e non c’erano tizi con lunga barba e bastone ricurvo nei paraggi.

Ci sarebbero tanti altri aneddoti ancora. Magari ne riporterò altri, più avanti.

Non è che l’anziano lento sia un vecchio adagio

Pomeriggio.
Sono in un negozio per animali per comprare dello scatolame per gatti che costa quanto una fetta di chianina.

Mentre la proprietaria imbusta il tutto, mi fa

– Tutti quanti con questa barba, ma che dovete fare non capisco
– È bella la barba, se curata
Dico, e nel frattempo getto un’occhiata a una cliente entrata dopo di me, intenta a esaminare una confezione di croccantini come se stesse leggendo la trama di un libro di Pinchon. Una ragazza molto giovane. Per un attimo ho il pensiero di aggiungere “E poi la barba piace alle donne”, cercando conferma e complicità nella giovane, poi qualcosa nella testa mi dice che nonostante il caldo sia meglio evitare di far calare il gelo.
– Aé, ma che dovete fare, sembrate tanti vecchi. Pure mio figlio, 26 anni, con ‘sta barba, glielo dico sempre, tagliala, e lui dice che si scoccia. Sembri un vecchio, gli ho detto. Tu quanti anni hai?
– 31
– Va be’, mio figlio però è più giovane
– Eh infatti, giustamente io invece già son vecchio, quindi posso pure tenerla…
Dico mentre prendo la busta e me ne vado.

Signora, ma se ne vada a quel Paese lei e suo figlio.

Sera.
Sono a un concerto nel giardino di una elegante villa. Suona un pianista di cui non riesco a fissare il nome pur avendolo letto una decina di volte.


Lubomyr Melnyk.


L’artista ama molto parlare e prima di ogni pezzo fa una lunga introduzione. In inglese, ma molto comprensibile.

A un certo punto si avvicina al palco un omino. Un tipo occhialuto e bassino e con la pancia a marsupio.


La pancia a marsupio è quella conformazione tipica che si sviluppa negli uomini. In pratica, stringendo i pantaloni fin sotto l’ombelico, la pancia in eccesso strasborda oltre la cintura creando questo sacchetto che grava in avanti a mo’ di marsupio.


L’omino marsupiale interrompe l’artista mentre sta presentando un pezzo, proponendosi come traduttore.

Inizia traducendo parola per parola, molto bene. Poi inizia a saltare delle frasi.
Il culmine lo raggiunge quando l’artista si produce in un’ampia metafora sulla bellezza nel mondo e il male, arrivando a citare poi l’ultimo episodio di Twin Peaks nella stanza dalle tende rosse con il nano. Il discorso viene mal riproposto dall’omino marsupiale.


Metafora di cui purtroppo ho perso il filo e che non saprei riproporre a parole mie, quindi credetemi sulla parola sul fatto che fosse un discorso interessante.


Sul finale al suddetto omino poi suona il cellulare. “Mia moglie, scusate”, esclama. Raffazzona in qualche modo il resto della traduzione e poi si allontana. Penso fosse per raggiungere la moglie che lo aspettava col battipanni.

Sono rimasto nel dubbio se fosse un intermezzo comico o ci fosse un qualcosa di lynchiano anche lì.

Sulla via del ritorno a casa ho tentato di collegare i due episodi della giornata, giungendo a delle riflessioni.

La barba in ogni caso non mi invecchia, perché mi danno sempre meno anni rispetto a quando non la avevo.
Inoltre, non potrò essere ufficialmente vecchio finché non avrò un marsupio di pancia da sfoggiare.


Il pezzo introdotto dal discorso su Twin Peaks è questo: