Non è che il motto del tessitore sia Aiutati che dio ti iuta.

Ricordo, quando ero alle medie, una volta ci venne assegnato un tema come compito a casa. La consegna riguardava più o meno il parlare delle volte in cui si era reso necessario l’aiuto di qualcuno.

A quei tempi non amavo molto il tema di tipo personale. Quello in cui dovevi raccontare di fatti tuoi, emozioni, sentimenti, eccetera. Se erano fatti miei, restavano fatti miei. Avrei accettato di scriverne come fosse un diario personale, ma l’idea poi di leggerlo davanti alla classe era qualcosa che mi creava fastidio.

Preferivo di gran lunga scrivere articoli e saggi. A tal proposito, sul tema in oggetto avrei scritto più volentieri – e con successo – un saggio intitolato “La ripugnanza di dover rispondere a una consegna di questo tipo: spunti e riflessioni”.

Com’è come non è, il giorno dopo, quando ormai stava per scoccare il 90° (cioè il suono della campanella), per una mia battuta di troppo la professoressa mi richiama all’ordine e mi invita a leggere il tema.

Mi schiarisco la voce e, con riluttanza, leggo il mio svolgimento: «Non ho mai chiesto l’aiuto di qualcuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo».
La professoressa: «Eccolo, il solito Gintoki, caustico e sprezzante. Va be’ vai avanti»
«Ehm in verità ho terminato qui».

Scoppio di risa generale. Insufficienza sul registro. Campanella, sipario.

Non è che proprio avessi scritto qualcosa di lontano dalla realtà.

Chiariamo: l’aiuto di qualcuno capita sempre e io chissà quante volte l’avrò chiesto. Ma è anche vero che ho presto capito che Chi fa da sé fa per tre, che È meglio soli che male accompagnati, eccetera eccetera. Sono giunto alla conclusione e ho consolidato in me l’idea che certe cose è meglio risolversele da soli.

Anche perché, sarà incapacità mia nel comunicare i miei bisogni, delle volte non ho riscontrato una comprensione o una risposta che fosse conforme alla mia richiesta. E ciò lo ricollego sia all’incapacità mia nel comunicare sia alla presenza nel prossimo di una base pregiudiziale che inficia la risposta finale. In parole povere, se il mio interlocutore mi pone un input e nella mia testa ho già un’idea formata oppure ho la presunzione di aver compreso senza terminare di prendere in considerazione tutti gli elementi, il mio output sarà qualcosa non in linea con ciò che si aspetterebbe l’altro.

E credo che nel non capirsi sia una cosa che quotidianamente noi esseri umani ricadiamo. Allora, stando così le cose, la mia filosofia è Tranquilli, faccio da me.

Per fortuna, e sottolineo per fortuna, non è possibile far tutto da soli. Per dire, nella mia vita lavorativa mi è capitato che qualche santa in paradiso perorasse la mia causa. Il mio lavoro attuale dipende dalla mia collega, che ha insistito con chi di dovere perché trovassero il modo di assumermi in pianta stabile. Me lo sarò guadagnato perché fossi stato un incapace o un inetto mi avrebbero rispedito a casa, certo, ma resta il fatto che se a un certo punto non avesse rotto le scatole affinché prendessero una decisione, io oggi non so dove sarei.

Pertanto penso che un giorno o l’altro vorrei omaggiarla di un omaggio. E siccome è sempre fonte di spunti interessanti, frasi epiche o aneddoti divertenti, pensavo a qualcosa in linea col personaggio.

Qualche giorno fa, parlando con una collega, se ne è uscita con un’espressione che grossomodo è da intendersi come “Non siam mica qui a pettinar le bambole”. Solo che la sua frase era più colorita e, direi, icastica (anche perché chi è che oggi va in giro a pettinare bambole?):

«I peli da sopra la fessa non ce li togliamo in ufficio ce li togliamo a casa».

L’idea che mi era venuta era di farne una sorta di manifesto pop, come quelli che vanno di moda oggi (del tipo di Testi Manifesti).

È solo una bozza e va ridefinita, ma credo possa essere una buona base di partenza:

Per migliorarlo avrei forse bisogno di aiuto.

Non è che se gli occhi sono gli specchi ecc ti piace averli sempre lucidi

Lacrime.

Ne esistono tre tipologie:

  • Quelle basali, che servono a mantenere gli occhi umettati e puliti;
  • Quelle di riflesso o fisiologiche, che rispondono a irritazioni e aggressioni esterne (es. le cipolle);
  • Quelle emotive.

Poi ci sarebbero le lacrime di coccodrillo, le lacrime e sangue, le lacrime di San Lorenzo e così via, ma la trattazione diverrebbe un po’ lunga quindi atteniamoci a queste tre.


Pensavo che grossomodo fossero tutte uguali. Un po’ di acqua salata che scorre via lungo le guance.

Invece la loro composizione varia a seconda della funzione. Un tizio si è messo a studiarle al microscopio e ha scoperto che sono un po’ come i fiocchi di neve. Ognuna diversa. Ma la conformazione non dipende dalla sua origine: è il contenuto di sostanze a diversificarsi a seconda di cosa ha provocato la lacrima.

Le analisi di laboratorio non riusciranno mai a vedere del tutto cos’è che una persona sta versando dentro una lacrima.

Il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi pensieri.

Ho visto persone piangere davanti a me.

Alcune per causa mia.

Alcune volevano farmi credere fosse per causa mia.

Io resto lì, provo a raccoglierle. Mi dispiace che le abbia fatte uscire io. Vorrei metterle da parte e dire Conservale, tienile per occasioni migliori tipo quando si piange di gioia.

Magari bisognerebbe creare le condizioni per regalare una gioia.

Aforisma:
Bobby Solo che male accompagnato.

Non è che ti serva uno zoologo per riconoscere una bufala

C’è un tale che conosco che racconta cose che in modo palese appaiono come esagerazioni e invenzioni, ma che sembrano far parte del personaggio eccentrico che si è creato. Chi lo ascolta sa del personaggio, così come chi parla sa che gli altri sanno. È un modo per intrattenere, diciamo.

Anche se, delle volte, a me e ad altri fa sorgere il dubbio: lui è davvero conscio di questa finzione generale o pensa forse che gli altri gli credano?

Di individui che contano frottole millantando fatti, esperienze di vita, conoscenze ne ho incontrati; ci sono diversi motivi per cui una persona sceglie di produrre finzioni. Alla base, credo, c’è sempre un disagio.

Confesso di non essermi mai posto il problema con costoro: ascolto annuendo, pensando ad altro.

Mi sentirei più colpito e preoccupato se si trattasse di un mio amico; cercherei di capire perché senta il bisogno di vivere raccontando cose non vere e proverei ad aiutarlo.

Con uno sconosciuto o un semplice conoscente sarebbe più difficile, senza contare che interventi assistenziali creano non di rado sensazioni di fastidio e invadenza non richiesta.

Tendo inoltre anche a fare un distinguo tra i “Pinocchio”: c’è quello cui sembra non mancare nulla nella vita e da cui non mi sento neanche di stare ad ascoltare, quindi, una frottola. È una semplificazione superficiale la mia, forse: puoi avere tutto ed essere lo stesso infelice.

C’è un’altra considerazione che mi viene: è davvero così importante distinguere tra realtà e finzione? Se chi racconta la menzogna – una menzogna che non nuoce a terzi – è convinto che il mondo che sta creando in quel momento sia verosimilmente realistico e se chi ascolta vi presta fede, alla fine cosa è reale e cosa non lo è?

Mi sono trovato delle volte a vivere il caso contrario: una cosa vera che dicevo veniva accolta con diffidenza. Alla fine, che ciò che dicevo fosse vero o meno cambiava poco in quel momento: non venivo creduto, l’esistenza del fatto in sé era come se venisse meno.

Verità e finzione sono allora molto relativi e dipendono dal punto di vista degli interlocutori. Si dice che oggi viviamo nell’epoca della post-verità; i fatti oggettivi passano in secondo piano rispetto alle convinzioni del pubblico. E questo è oggetto soprattutto di analisi politologica, in quanto nella società attuale l’orientamento dell’elettorato (o di parte di esso) pur di fronte a dati concreti non sembra essere influenzato da questi ultimi quanto più da sensazioni, emozioni, umori di pancia.


L’esempio classico è quello di chi, pur messo di fronte all’evidenza del fatto che ciò che sostiene è una bufala, replica dicendo che non gli importa perché il tutto potrebbe comunque essere vero in un universo parallelo.


Senza impelagarmi in pipponi sociopolitici, torno al punto di partenza: se è lecito porsi il dubbio su quel che ci sta dicendo qualcuno sulla sua vita (quindi no argomenti di politica, economia o comunque di interesse pubblico), sarebbe anche lecito intervenire per dirgli di smetterla di dire stronzate, pur consci che tali stronzate a) non arrecano nocumento a noi stessi b) forse fanno bene a lui che le racconta?

Non è che il marinaio utilizzi estremi rimedi a mari estremi

C’è una persona su negli uffici dirigenziali con la quale, a distanza, non credo di aver instaurato un buon rapporto.

Diciamo pure che mi sta sul cazzo, per usare un termine sociologico.

Non mi piace il suo modo di porsi, un po’ maestrina e un po’ indisponente. Un atteggiamento che purtroppo ricorre anche in me, per questo so riconoscere subito una persona che si comporta così.

Ci siamo solo scambiati delle mail e non avendo mai parlato di persona o a voce (tranne la prima volta che me la presentarono, al telefono, quando lei esordì dicendo “Comunque noi siamo già in contatto su Linkedin”- nota, non era affatto vero), non abbiamo familiarizzato. C’è sempre un po’ di tensione nei nostri testi, per non dire che sembra che ci manderemmo volentieri a fare in culo se non ci trovassimo in un contesto professionale.

Mi conforta aver scoperto che non sono il solo a non tollerare i suoi modi.

Una volta credo di averla proprio fatta sporca. Lei mi aveva cercato al telefono e, non ricevendo risposta, scrisse una mail mettendo in copia il mondo intero esordendo con Gintoki, ho provato a chiamarti ma non ti ho trovato, facendomi fare brutta figura come se io non fossi reperibile in orario di lavoro.

Siccome non sono per niente rancoroso e vendicativo, risposi alla mail scrivendo: Ciao, sentiamoci pure domani per il confronto da me richiesto in data xx (vedasi mail di quella data) e già che ci siamo parliamo pure di quell’altra questione, da me richiesta in data xx (vedasi sempre mail di riferimento).

Ero dalla parte della ragione, in quanto da 3 settimane attendevo un feedback mai ricevuto. Se mi si fa pesare un’assenza, io faccio pesare una mancanza.

Ahimè questo mi avrà precluso le porte della sua simpatia. Dopo altri simpatici scambi, oggi mi ha scritto:

Carissimo Gintoki, in attesa di vederci il XX, ti chiedo un feedback […].

A luglio dovrò salire su per un “momento formativo” – lo definiscono così – con altri colleghi di altre zone d’Italia. Quel in attesa di vederci il suona come una minaccia. A parte che dove sta scritto che dovremmo vederci? E magari parlarci?

Mi sta facendo capire che mi aspetta al varco. Forse vuol mettermi pressione con questa dichiarazione.

Sun Tzu mi sconsiglierebbe di presentarmi: sto per andare incontro al nemico in casa sua. Condizione sfavorevole.

Potrei anche rinunciare a partecipare, in fondo già qualcun altro ha negato la presenza causa impegni. Però non credo mi disporrebbe bene con tutti gli altri. Inoltre fuggire sarebbe da codardi. Sun Tzu magari non troverebbe vile evitare un confronto svantaggioso. C’è però un’arma cui Sun Tzu all’epoca non aveva pensato perché forse troppo gentiluomo e che io mi trovo a questo punto invece costretto a utilizzare dopo tanti anni dall’ultima volta che l’avevo usata.

ATTENZIONE: Ciò di cui sto per parlare non vuole nel modo più assoluto essere un invito o un’istigazione a utilizzare questo strumento. Anzi, ne sconsiglio fortemente l’uso, già vietato in 53 Stati delle Nazioni Unite per il suo coefficiente di pericolosità e per chi lo mette in atto e per chi lo subisce.

A mali estremi, comunque, estremi rimedi.

Alla mia nemica dovrò fare Il Sociopatico.

Il Sociopatico è un individuo totalmente privo di emozioni e reazioni. Non ostenta indifferenza, lui È l’indifferenza. Non muove un solo muscolo del viso, ha lo sguardo fisso ma non perso: pensa sempre a qualcosa di cui gli altri non hanno idea. Potrebbe essere come cucinare un trancio di tonno o come trasformare chi ha di fronte in un trancio di tonno. L’unico movimento corporeo che si concede è magari un leggero tic. Ognuno può trovarsi quello che più sente congeniale. Ad esempio, può essere un bel vezzo sociopatico quello di toccarsi in sequenza e con ritmo la punta del pollice con gli altri polpastrelli.

Il Sociopatico abbiamo detto che non lascia trasparire niente. Anzi, magari dà feedback – i tanto cari feedback della mia avversaria – spiazzanti pur di fronte a situazioni allarmanti.

Es. Indicano al Sociopatico la sua auto in fiamme:

– Beh…pazienza…tanto dovevo cambiarla…Certo che col fuoco bisogna stare attenti…un mio amico per accendersi la sigaretta aveva dimenticato che il gas fosse aperto…eh la vita è proprio un attimo. Tu fumi vero? Eh sta attento. Va be’ tanto tutti dobbiamo morire, no? In fondo l’essere umano è solo un parassita per il pianeta, gli animali sono meglio.

E se ne va dando all’interlocutore una pacca sulla spalla che sa di malaugurio.

Per poter attuare il Sociopatico avrò bisogno di parlar da solo con la tizia. In questo modo, lei penserà che io non stia bene con la testa e mi lascerà più in pace prossimamente. Se anche dovesse parlarne con gli altri non verrebbe presa sul serio. Hanno tutti una buona opinione di me, lo so per certo. “Sociopatico? Ma chi, Gintoki? Si presenta sempre bene, parla in modo impeccabile”.

Un’unica cosa potrebbe disinnescare Il Sociopatico. Che sia lei stessa una Sociopatica!

Non è che Batman rida della Bat-tuta

Mi capita di incrociare quotidianamente le mandrie di liceali che transumano verso le /dalle scuole. Alcune cose – come le nuvole “d’odore d’adolescenza”* che ci si porta dietro in quell’età – noto non cambiare mai tra le generazioni, altre invece mi rendo conto che si sono modificate tanto.


* Smells like teen spirit, No?


Le mode, ad esempio. Come quella della tuta. Oggi maschi e femmine vanno in giro in tuta come se fosse un capo di tendenza e forse lo è.

Quando andavo al liceo io la tuta era giustificata solo se quel giorno c’era educazione fisica. Parliamo del solo pantalone. L’abbinamento pantalone-giacchetta tuta era considerato socialmente inaccettabile dopo la terza media.

A meno che uno non volesse essere picchiato all’ingresso e poi additato al pubblico ludibrio per tutte le cinque ore successive per essersi conciato da sfigato, s’intende.


Son gusti.


Le ragazze, che sono sempre più avanti dei loro coetanei maschi, smettevano la tuta in via definitiva alle medie. Al liceo se decidevano di partecipare all’ora di educazione fisica lo facevano in jeans.

Oltre alla condanna sociale, per i maschi c’era anche una necessità pratica.

La tuta non permette di nascondere. Cosa? Beh tu chiamale se vuoi…emozioni.

Un adolescente maschio medio in normale sviluppo ormonale ha in media da 4 a 10 volte le emozioni spontanee che ha un maschio adulto. Inoltre a livello mentale è ancora incapace di gestirle come si deve. Da qui la necessità di preferire un capo come il jeans che permette di nascondere meglio le proprie…emozioni.

Oggi invece viviamo in una completa rivoluzione: da quand’è che andare in giro in tuta non è più considerato da sfigati?

E soprattutto: i maschi di oggi non hanno più paura delle proprie emozioni spontanee oppure sono incapaci di provarle?

La tuta per questo è l’inizio dell’estinzione della specie?

Carico di questi dubbi sono andato in piscina. In tuta. Ma solo il pantalone perché ho ancora paura di essere picchiato.

Le fantastiche tute in acetato anni ’80-’90 in grado di produrre elettricità libera e gratis per sfregamento ma le grandi multinazionali non vogliono che voi sappiate.

Non è che per far cessare il riscaldamento globale basti non pagar più le bollette

C’è un clima strano.

Fino a oggi così caldo e siccità da far sembrare November Rain una canzone di fantascienza. Gli alberi hanno ancora le foglie. Dev’esserci in corso una operazione della lobby che vuol convincere dell’esistenza del riscaldamento globale che nottetempo riattacca le foglie agli alberi appunto per convincerci dell’esistenza del riscaldamento globale.

Io soffro invece di raffreddamento generalizzato. Congelo emozioni e sensazioni fresche. Come i pisellini primavera. Forse congelerò anche il mio di pisellino. Spero di spegnere i malesseri che mi sento dentro. Gli impacchi ghiacciati curano molte cose. Per tutto il resto, ci sono gli acquisti incauti.

Ho comprato una nuova cuffia da nuoto. Non che ne avessi bisogno, ma questa qui è particolare.


È particolare è quel che dicono tutti i sofferenti di acquisti incauti per giustificare il proprio acquisto incauto perché in cuor loro sanno di avere una dipendenza da acquisto incauto ma non vogliono ammetterlo apertamente.


È una cuffia con sopra disegnate delle cuffie (da musica) che vanno da un orecchio all’altro. Per uno che vive di giochi di parole come me, la cuffia con le cuffie non poteva mancare.

Adesso ci vorrebbe un costume con un costume (di Carnevale) disegnato sopra.

Se nessuno si è mai scandalizzato per delle camicie coi baffi, non vedo perché non possa andar bene il mio costume col costume.

I giochi di parole mi riescono ancora bene.

Quando parlo seriamente, negli ultimi tempi ottengo risposte non in linea con quanto stavo dicendo. Anzi delle volte credo di aver a che fare con degli stitici cronici, visto che non cagano per niente quel che stavo dicendo.

Forse sono io a non farmi capire. Forse i contenuti nella mia mente non coincidono con i significati delle parole che esprimo mentre io invece sono convinto di esprimere esattamente ciò che sto pensando.

Chi ha deciso i significati delle parole? Chi ha deciso che “parola” significa parola, cioè complesso di fonemi, cioè di suoni articolati, o anche singolo fonema (e la relativa trascrizione in segni grafici), mediante i quali l’uomo esprime una nozione generica, che si precisa e determina nel contesto di una frase [Treccani]?

Le parole sono importanti, diceva quel tale. Ed è stato necessario accordarsi sui significati delle parole per poter comunicare.

Non è vero che sia necessario accordarsi.

Quando ero piccolo – 8 anni al massimo – ricordo si trasferì di fronte casa mia una famiglia inglese: padre, madre e figlio, ancor più piccolo di me d’età. Rimasero tutta l’estate, perché il padre, ingegnere, era stato convocato per un progetto nella Grande Fabbrica. Restarono il tempo necessario per svuotare le riserve di Peroni nei supermercati di zona.

Feci amicizia col piccolo suddito di Sua Maestà. Giocavamo spesso insieme. Io gli parlavo ma lui non aveva idea di cosa io dicessi. Lui mi parlava ma io non avevo idea di cosa mi dicesse.


Anche perché, figuriamoci, a inizio anni ’90 per un bambino italiano l’inglese era roba sconosciuta. Adesso nell’asilo nido dove lavora Madre arrivano Madri che chiedono il bilinguismo. E tra parentesi c’è: napoletano e italiano. Che pretendono di più?


Eppure ricordo facevamo conversazione e ci divertivamo nel farlo.

Erano giochi. Di parole.

Non è che un pupazzo di neve non possa soffrire di un esaurimento nevoso

Si dice di Enrico VII d’Inghilterra che un giorno avesse fatto allontanare delle persone perché il tintinnare delle monete nelle loro tasche gli dava fastidio.


Non so se sia vero, perché gli aneddoti storici sono spesso inventati o romanzati.


Ho una collega che vive in Serbia e che lavora a distanza, tranne che per una settimana ogni mese in cui è qui a Budapest. Ha un Sony VAIO ultrasottile e più leggero di una busta paga di un operaio. Tale meraviglia tecnologica però ha un difetto: ogni volta che si clicca sul pad si crea un suono simile ai denti che digrignano: k-k-runch.

All’inizio pensavo che la collega avesse problemi di bruxismo e allora la osservavo. Soltanto dopo ho associato il suono al portatile.

È una cosa alquanto irritante.

Ho riflettuto su quante cose ci danni fastidio e/o ci rendono nervosi ogni giorno.
Credo che l’essere umano sia per costituzione portato a innervosirsi più per una coda a un casello che per la rottura di una storia d’amore.


È esclusa dalla tesi testé enunciata tutta la serie di sensazioni ed emozioni che una separazione comporta, ovviamente, parliamo in valore assoluto quindi del mero tasso di bile travasata all’interno dell’organismo nel singolo avvenimento.


La gente sembra sempre incazzata con qualcosa o qualcuno. Si fa anche vanto di ciò.


Sembra che sia un attributo caratterizzante e onorifico quello di pubblicizzarsi propensi all’aggressione, come se si girasse con un cartello “Attenti al cane”, laddove il cane è rappresentato dalla propria persona, propensa a mordere come un rottweiler guardiano, a detta dell’individuo padrone/animale di sé stesso.


La seconda considerazione che è da ricollegare al punto precedente è che tendiamo a porci al centro di ogni singolo evento. Il collega infastidisce noi, la coda sembra piazzata lì per farci arrivare tardi, l’impiegato allo sportello è rozzo e maleducato perché ce l’ha con noi.


Tutto questo, chiariamo, è naturale. Siamo programmati per avere un punto di vista ego-centrico sul mondo: esistono poi distorsioni che portano a esasperare il ricondurre tutto a noi stessi. Io ad esempio soffro occasionalmente di un “effetto riflettore” che mi porta a pensare che le persone intorno a me stiano sempre a guardare cosa io faccia o non faccia.


Ogni singolo giorno sembra ci sia un intero universo che si mette in moto per rompere i maglioni alla nostra persona. È come la storia del leone e della gazzella: ci svegliamo cercando di correre più in fretta degli ingranaggi della vita che tentano di stritolarci.

Credo che se contassimo quante siano le volte in cui prendiamo coscienza di essere noi invece a infastidire gli altri ci stupiremmo di quanto sia basso il numero risultante.

Magari scrocchiamo le dita. Partiamo con lentezza al semaforo. Magari siamo noi la puntina sotto al sedere di qualcuno.

Perché dall’altro lato abbiamo persone che sono magari più scoglionate di noi o che hanno avuto una giornata peggiore della nostra o che hanno una vita più tediante, logorante, massacrante.

Beninteso: non sto dicendo di avere pietà e comprensione del prossimo a prescindere come San Francesco, che io credo avesse benissimo le sue giornate no e che fosse un disturbatore seriale. Chiedetelo agli uccellini o ai lupi:

Al mondo esiste tanta gente stronza.
E che, come quelli che sono perennemente incazzati, si fa vanto della propria stronzaggine. A volte i due insiemi, nervosi e stronzi, si intersecano (ma non sono coincidenti).

Costoro sono individui molto pericolosi, perché spesso sono zombieficanti: possono tramutare in stronzi le persone con cui hanno a che fare, che a loro volta possono generare altri stronzi e così via.

Ma tenendo presente tutto questo, penso potremmo risparmiarci qualche travaso di bile spostando la nostra telecamera personale da una visuale in prima persona a una in terza.

Può sembrare strano tutto questo discorso da uno nel cui blog campeggia una citazione di Max Stirner, scelta non a caso per il suo contenuto apologetico dell’egoismo.

Ma credo che il culto di sé stessi possa coesistere con la visuale esterna e, anzi, l’esercizio di contestualizzazione del nervosismo possa portare a un maggiore livello di consapevolezza interna.

E poi io, comunque, sono un egualitario.
Odio tutti allo stesso modo.

Restare in piedi dietro le porte a lasciar scorrere emozioni

Oggi Giovane Rampante sotto-Capo che aspira a prendere un giorno il posto di Vecchio Giovanilista Capo ci ha convocati in riunione per un’importante novità.

Con una scena dal vago sapore fantozziano, ci ha comunicato che parteciperemo tutti a una giornata di coaching motivazionale con uno dei più importanti maestri del settore italiani. Uno di quelli che, a quanto ho visto nel video di presentazione, ti fa camminare sui carboni ardenti (giovane rampante ha escluso che questo avverrà, saremo in troppi) o ti fa gonfiare un palloncino fino a fartelo scoppiare in faccia.

A parte che avrei voluto chiedere: ma se è una cosa tanto importante per noi, dal punto di vista personale ma, soprattutto, da quello lavorativo, perché si tiene di domenica e non in orario lavorativo?

Il tema del convegno/conferenza/seminario/rottura di maglioni è: diventare padroni di sé stessi e controllare le proprie emozioni.

Calma, ragazzi. Sediamoci e discutiamone.
Mi spiace sia sorto questo equivoco, forse vi hanno informato male: io non ho mai detto di voler diventare il padrone di me stesso. Al massimo vorrei poter stabilire una cooperazione di mutua assistenza e solidarietà tra me, me stesso e io. Costruire un falansterio, mettiamola così.

Riguardo le emozioni, io le controllo fin troppo. Male. Immaginate una diga piena di buchi chiusi da tappi di sughero. Ogni tanto PAM! ne parte uno e schizza via acqua ad alta pressione.

Oppure mi piace anche l’immagine che va come va per i quadri. Avete presente? FRAN!

Quindi ammetto che ci sia da lavorarci.

Ma di certo non voglio lavorarci con uno che sembra uscito da Scientology (ultimamente vedo scientologisti ovunque).

Io mi rifiuto di andarci, anche perché, tecnicamente, non sono un dipendente dell’azienda quindi non mi sento affatto obbligato. E a gennaio ho intenzione di salutare tutti e cambiare vita. Già questa settimana il lavoro mi ha provocato la gastrite.

Oh poverino. Vorresti andare in miniera, magari?

Calma. Faccio un ragionamento diverso non basato in termini di fatica o carichi di lavoro.

Voglio fare un esempio.
Nella mia precedente esperienza – ora lo posso raccontare perché tanto è in prescrizione – ho fatto un lavoro che sarebbe da considerarsi anche più stressante. Mi occupavo del recupero crediti in una banca. Capitavano momenti di stress, ma non ho mai rischiato l’ulcera. Perché potevo in qualche modo mettere del mio in quel lavoro. Su 70-80 telefonate al giorno, nessuna era mai uguale all’altra. A qualche cliente ho citato Schopenhauer. E, quando capitavano persone realmente in gravi difficoltà perché la vita da un giorno all’altro gli era precipitata, avevo conversazioni più da telefono amico che da recuperatore (maledetta mia non soddisfatta volontà supereroistica): magari in quel momento non stavo perseguendo l’obiettivo di recuperare più soldi possibili, ma seguivo un ragionamento di lungo periodo. Un cliente che è stato trattato bene, tornerà in futuro a rivolgersi alla stessa banca. E, poi, in un caso su mille tra l’azienda e un poveraccio, preferivo stare dalla parte del poveraccio.

Per questo non combinerò mai niente, probabilmente. Vivo di ideali e idealizzazioni. E anche, tu chiamale se vuoi, emozioni.

Nonostante ciò fuggo da un coach delle emozioni, anche perché ripenso sempre a Tom Cruise in Magnolia che fa il coach delle erezioni, invece, e mi scappa da ridere.

Ammettiamolo, sì, che bisogna lavorare su questa cosa delle emozioni. Ci ripensavo mentre me ne stavo dietro una porta a lasciarle scorrere. Pensavo che sì, è divertente, ma non mi basta tutto ciò. Ma non voglio ricreare le stesse sensazioni dal vivo per andare poi a raccontare a un guru di quanto sono stato bravo a portarmi un trofeo a casa, a me non serve quello.

Mi basta anche solo affondare il naso tra i tuoi capelli e pensare che non voglio controllare un bel niente. Scorra come deve scorrere e se cade un quadro riappendiamolo insieme. Tu riesci a controllare tutto questo?