La notizia che nel calcio i grandi Club sono interessati al denaro e si muovono dove possono raccogliere più denaro – per continuare a mantenere in vita un circo attrattivo per nuovi mercati – mi ha sconvolto: non ero così sorpreso da quella volta che dissero che il Presidente turco è una brutta persona. Veramente, ci si sorprende sempre. Che fantastica storia la vita.
Non voglio comunque parlare di superleghe di calcio – l’unica super-lega di cui mi può importar qualcosa è l’adamantio – seppur mi faccia ridere questa cosa de Mi porto via il pallone e mi farò un calcio mio.
Con black jack e squillo di lusso, avrebbe detto Bender.
Non so cosa voglia dire essere in una lega di gente speciale. Da piccolo ero sempre nel novero dei pipponi quando si facevano le squadre. Ecco, noialtri avremmo potuto creare una Supersega: il torneo di quelli che sono una pippa.
La verità è che a me non fregava una beneamata mazza di competere per essere bravo nell’ora di educazione fisica a fare punti a pallavolo. Conoscendomi – e credo ci conoscermi – se ci avessi tenuto avrei passato ore a casa a sbattere il pallone contro il muro per esercitarmi.
Sarei rimasto una pippa, ma sarei stato una pippa allenata: questo forse mi avrebbe reso meno pippa agli occhi degli altri o comunque avrebbe generato apprezzamento l’impegno.
Essere parte di un club elitario è faticoso: da una parte è richiesto di mantenere uno standard adeguato. Dall’altra, ciò ti renderà inviso a quelli fuori dal club.
Non so come, ma ad esempio alle scuole medie ero parte del gruppo elitario della classe. Non potevo dirmi tra i più fighi, ma diciamo avevo uno standard minimo. Per tornare al discorso calcistico: non riuscivo a lottare per lo scudetto ma avevo i punti minimi per l’ultimo piazzamento nelle zone alte.
Così ero il meno figo nel club dei fighi e il primo odiato – per vicinanza – di tutti gli altri, gli esclusi.
E questa è la mia storia con le leghe e i club elitari.
C’è un altro club di cui faccio parte mio malgrado e che mi garantisce una posizione in qualche modo da privilegiato, quantomeno in termini di seccature in meno.
Ci riflettevo qualche tempo fa, leggendo questo post.
Sono un M.E.B.. No, non un Mario Eleno Boschi, ma un Maschio Etero Bianco.
Chiunque non sia MEB si ritrova con qualche vantaggio in meno e qualche svantaggio in più. Lo noto tutti i giorni nel mondo che mi circonda, anche nelle cose che sembrano più piccole che accadono agli altri.
Non è essere parte di un club il problema, anzi. Ma chi prova a sollevare la questione sugli svantaggi di chi non ne fa parte, viene tacciato di essere nemico del club; è un ottimo strumento dialettico per mandare il discorso in caciara ed evitare di porre invece il problema fondamentale: far sì che anche gli altri club possano giocare nello stesso campionato, con regole e diritti uguali.
Ragionavo con una persona delle mode di oggi da parte dei più giovani e il discorso è finito inesorabilmente sulle tute. Oggi la tuta è un capo trendy, chic, altre parole a caso che ci stanno bene.
Quando andavo al liceo la tuta non si metteva neanche quando era giorno di educazione fisica.
Anche perché va detto che non facevamo una vera educazione fisica, fatta di esercizi, di riscaldamento, di altre pratiche idonee: giocavamo a pallavolo in un sottoscala con le mattonelle a terra e basta.
La tuta intera (pantalone e giacca) era del tutto off limits: faceva tanto ragazzino delle medie. Andare al liceo in tuta completa voleva dire una settimana di bullismo.
Il solo pantalone della tuta neanche era tanto ben accetto. Faceva sciatto e anche sozzo, dato che il tessuto non traspirava.
Fa strano tanto rigore estetico dato che all’epoca non si stava certo a guardare all’abito o alle griffe: credo che l’unica firma che in 5 anni ho visto addosso a qualcuno fosse quella sul gesso di un braccio fratturato.
Tra l’altro era il mio, dopo essermelo rotto in IV Ginnasio.
C’era un altro motivo, tutto al maschile, per cui la tuta era poco indicata.
In un periodo di scoperta degli ardori ormonali e dei sommovimenti fisici istintuali, il liceale tipico soffriva talvolta di erezioni spontanee ed improvvise.
A volte bastava una riga di portabiciclette che spuntava da un jeans di una compagna.
Ci si accontentava di poco, ma, del resto, eravamo figli della cultura Postalmarket, dove bastava una trasparenza a rendere radiosa la giornata.
A volte succedeva e basta, perché il sangue precipitava giù dal cervello all’improvviso per la forza di gravità e la scarsa attività cerebrale.
Si andava allora in giro in jeans a qualunque stagione per evitare di rivelare situazioni imbarazzanti.
C’era però un eccezione: se eri un hippoppettaro, giravi coi pantaloni della tuta senza problemi. Essendo larghe che più larghe non si poteva, tal da cascare accumulandosi alle caviglie (e a volte anche sotto i piedi, costringendoti ad andare in giro con scotch e spille da balia per tenerle ferme alle scarpe se non volevi pulire i pavimenti), con le tute il problema del pudore per il b-boy non si poneva.
Io intorno ai 15-16 anni divenni hippoppettaro. Ma giusto per nascondere il mio fisico da radiografia vivente.
Detto ciò, torno alla questione con cui ho aperto: i giovani d’oggi.
Loro oggi vanno in giro in tuta, al che la mia domanda è: non hanno i problemi che avevamo noi, all’epoca?
Non li hanno perché oggi ostentano con voluttà e senza remore i propri ormoni e rigonfiamenti.
Non li hanno perché scie chimiche, 5G, raggi gamma e fenomeni parastatali li hanno resi impotenti.
Non li hanno perché l’ideologia gender, l’eterofobia, Achille Lauro, li hanno convinti a privarsi dei genitali.
Ai poster – ma i giovani attaccano ancora poster al muro della cameretta? – l’ardua sentenza.
Parlando di mode, io comunque resto sempre fedele alla camicia.
Io tutto, io niente, come cantava Guccini. Io che mi reinvento in abiti nuovi, io che ricomincio, io che faccio cose che mai e poi mai avrei creduto.
Accade così che sto tenendo un ciclo di lezioni nelle scuole. Sabato ho iniziato con dei ragazzini delle medie, piccoli e sperduti in un paesino dimenticato dall’ortodonzia. Tranquilli, interessati, mi sono detto che mi piace proprio quel che sto facendo. Il tutto intonando la Pastorale di Beethoven mentre tornavo a casa placido e sereno nonostante una bufera di neve improvvisa che mi ha fatto stringere il volante (e anche qualcos’altro) parecchio.
Oggi invece mi sono capitate delle classi di prima superiore di un ITIS. La colonna sonora nella mia testa:
Qualcosa nell’aria entrando nell’istituto mi diceva che non sarebbe stato facile. Qualcosa che sapeva di pollo in brodo, cipolle fritte e calzino di spugna di rugbista, il tutto lasciato a marinare con un piccione in decomposizione.
Un profumo come di spirito giovanile, parafrasando Kurt Cobain.
Mi sono chiesto: ma io anche puzzavo così, alla loro età? La risposta è sì: ricordo una volta una maglia che avevo usato per fare educazione fisica finì direttamente nella spazzatura, invece che nella lavatrice. Costava meno comprarne di volta in volta una nuova che consumare detersivo.
Le classi credo siano state assortite per carattere.
Quelli vivaci ad esempio erano tutti insieme, nella classe che mi sono ritrovato alla prima ora. Peccato avessi lasciato la mia frusta da domatore a casa, mi avrebbe fatto comodo. Poi ci sono stati gli scoglionati irrimediabili: stavo pensando di recidermi la giugulare di fronte a loro per ottenere un qualsiasi tipo di reazione e scuoterli dal loro coma. Poi ci sono stati quelli della classe degli interessati, che facevano domande, rispondevano bene, quelli della classe dei completi ignoranti, quelli che Sì ma alla fine quando si mangia? eccetera. Tutti divisi in questi macro-blocchi, il che rendeva la cosa più imprevedibile: avevo all’incirca 30 secondi di tempo mentre arrivavano e si accomodavano per capire che tipi fossero e tararmi su una modalità loro più congeniale. Confesso che un paio di loro forse avrebbero trovato congeniali un paio di calcioni, ma sono pacifista e inoltre la mia fedina penale preferisco farla restare pulita.
Però, ecco, devo confessare che quando capitava quello lì che faceva domande, si interessava, ed era magari proprio quello che sembrava più sbruffoncello, perdigiorno, studente svogliato, mi rincuoravo. Pensavo che se almeno in uno di loro avevo acceso una scintilla di un qualcosa, la mia giornata aveva avuto un senso.
Ciò non cambia che sto pensando a una vasectomia per non ritrovarmi, un giorno, ad avere in casa un 15enne, col suo spirito giovanile incluso.
Mi capita di incrociare quotidianamente le mandrie di liceali che transumano verso le /dalle scuole. Alcune cose – come le nuvole “d’odore d’adolescenza”* che ci si porta dietro in quell’età – noto non cambiare mai tra le generazioni, altre invece mi rendo conto che si sono modificate tanto.
* Smells like teen spirit, No?
Le mode, ad esempio. Come quella della tuta. Oggi maschi e femmine vanno in giro in tuta come se fosse un capo di tendenza e forse lo è.
Quando andavo al liceo io la tuta era giustificata solo se quel giorno c’era educazione fisica. Parliamo del solo pantalone. L’abbinamento pantalone-giacchetta tuta era considerato socialmente inaccettabile dopo la terza media.
A meno che uno non volesse essere picchiato all’ingresso e poi additato al pubblico ludibrio per tutte le cinque ore successive per essersi conciato da sfigato, s’intende.
Son gusti.
Le ragazze, che sono sempre più avanti dei loro coetanei maschi, smettevano la tuta in via definitiva alle medie. Al liceo se decidevano di partecipare all’ora di educazione fisica lo facevano in jeans.
Oltre alla condanna sociale, per i maschi c’era anche una necessità pratica.
La tuta non permette di nascondere. Cosa? Beh tu chiamale se vuoi…emozioni.
Un adolescente maschio medio in normale sviluppo ormonale ha in media da 4 a 10 volte le emozioni spontanee che ha un maschio adulto. Inoltre a livello mentale è ancora incapace di gestirle come si deve. Da qui la necessità di preferire un capo come il jeans che permette di nascondere meglio le proprie…emozioni.
Oggi invece viviamo in una completa rivoluzione: da quand’è che andare in giro in tuta non è più considerato da sfigati?
E soprattutto: i maschi di oggi non hanno più paura delle proprie emozioni spontanee oppure sono incapaci di provarle?
La tuta per questo è l’inizio dell’estinzione della specie?
Carico di questi dubbi sono andato in piscina. In tuta. Ma solo il pantalone perché ho ancora paura di essere picchiato.
Le fantastiche tute in acetato anni ’80-’90 in grado di produrre elettricità libera e gratis per sfregamento ma le grandi multinazionali non vogliono che voi sappiate.
Da bambino collezionavo berretti da baseball non originali. Dato che quelli griffati costavano troppo mi era concesso comprare solo pseudo imitazioni con nomi improbabili ma americaneggianti, del tipo “Green Skins”, “American University” e via dicendo.
Avevo poi un cappellino Rebook abbastanza misero ma che era il mio preferito, fino a che un giorno in prima media una compagna di classe cui pare io piacessi non se lo strusciò sotto il sedere durante l’ora di educazione fisica.
A me basta un occhio solo per parare, capito?
La cosa andò così: scendemmo in cortile, maschi a tirare calci al pallone, femmine a giocare a pallavolo. Da buon portiere, come era di moda negli anni ’90 e come faceva Benji Price, indossavo il cappello. Non vedevo un cazzo ogni volta che il pallone si alzava, ovviamente, perché la visiera era più grossa della mia testa.
Una compagna – non quella cui piacevo – mi chiese di prestarle il cappello, per il sole. Io glielo cedetti, per fare il galante. Ero un gattomorto già da piccolo.
Dopo un po’, mentre mi godevo la solitudine del numero uno (il calcio da ragazzini funziona così: tutti dietro la palla, tranne il portiere, ovviamente), arriva un gruppetto di compagne agitando il mio berretto e gridandomi Gintokiiiii…N. si è presa il tuo cappello, si è seduta sopra e si è anche strusciata!
Strani metodi per attirare l’attenzione.
Tale compagna dedita a tali strane pratiche di corteggiamento, tra l’altro, era l’unica a 11 anni ad avere già una terza. Non capisco io a cosa pensassi e perché mai io la ignorassi!
Probabilmente la visiera mi impediva di avere una visione corretta degli eventi.
Portavo il cappello ovunque, anche dentro casa. Altrui.
Idem dicasi per la chiesa, dove poi ovviamente me lo facevano togliere e io accettavo di buon grado. Ero fervente cattolico da piccolo, prima di scoprire la pornografia.
Una cosa non l’ho mai capita: perché togliersi il cappello in chiesa?
Una delle prime cose che insegnano è che dio è ovunque.
Quindi avrebbe dovuto essere presente anche sotto il mio cappello.
Forse lì sotto fa troppo caldo quindi bisogna togliersi il cappello per farlo uscire a respirare? Perché allora non vale per le donne? A dio piacciono i capelli delle donne anche se un po’ sudaticci? Anche a me, purché non oltre un giorno dopo lo shampoo e non certo dopo una maratona o una giornata di saldi.
Può sembrare una stupidata (no, tranquillo, non sembra: lo è), ma quando ho provato a fare delle ricerche su internet riguardo questo argomento ho scoperto che molta gente nei forum cattolici si interroga sulla questione “cappello in chiesa”. C’è chi si accapiglia a colpi di Nuovo Testamento vs Concilio Vaticano II. E non sto scherzando.
La tesi su cui concordano costoro è che l’uomo si tolga il cappello per rispetto, la donna lo tiene per coprirsi, come segno di morigeratezza (?)
In loro soccorso a tal proposito giunge Paolo nella prima lettera ai Corinzi, versetti 13 – 15:
13 Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto?
14 Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli,
15 mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo.
Ma se oggigiorno in chiesa è accettato un uomo con i capelli lunghi o una donna a capo scoperto, perché non è ancora accettato un uomo col cappello?
Mi risponde ancora Paolo che evidentemente già sapeva di me e del mio essere rompicoglioni:
16 Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.
Gli chiedo scusa.
Però vorrei dire: si polemizza sempre sulla Chiesa, che dovrebbe modernizzarsi e aprirsi e quant’altro ma avessi sentito uno, dico soltanto uno, porre la questione del cappello. Io non lo trovo giusto: i diritti dei portatori di cappello che fine fanno se non hanno voce in capitolo?
Ero quindi carico di questi dubbi mentre rimiravo il copricapo che utilizzo qui a Budapest per difendermi dai rigori e dai calci di punizione dell’inverno.
Tranquillizzo tutti i vegani, il pelo non è di origine animale ma di casalinghe di Orzinuovi.
Con un paio di occhialoni potrei sembrare Jet McQuack
Vorrei inaugurare una serie di post a periodicità sconclusionata dedicati a personaggi che ho incontrato nella mia vita che non hanno avuto alcun ruolo in particolare, non sono stati dei mentori, non hanno dato un contributo alla ricerca scientifica sulla calvizie maschile dei polpacci, non hanno lasciato alcun segno insomma ma mi sono rimasti impressi in qualche modo e, in fondo, li considero come degli eroi del loro campo.
Oggi parlo dell’Uomo delle assenze.
Durante le scuole medie, ogni giorno assistevamo all’ingresso in classe di questo personaggio che, con in mano un registro, passava a segnare le assenze. Tutti i giorni, per i tre anni che sono stato lì ho visto il ripetersi di questa identica scena:
Toc Toc
– Professoressa: Avanti
– Lui: Buongiorno. (pausa di un paio di secondi) Chi è assente?
– Professoressa: allora…(legge i nomi)
– Lui: (annota)
– Lui: Arrivederci Fine.
Ho conosciuto la sua storia solo dopo aver finito la scuola.
Un tempo era un professore di educazione fisica. Poi, un brutto giorno, venne colto da un infarto. Non poté più fare l’insegnante e venne re-impiegato in segreteria come Uomo delle assenze.
Alto 1.85-1.90, aveva una coppola color cammello e un lungo cappotto color spinacio cotto, che abbandonava soltanto a primavera inoltrata. Non l’ho mai visto con indosso un capo diversi né senza coppola, quindi non saprei dire se fosse calvo o meno ma a giudicare dai capelli radi sulle tempi sospetto che sulla sommità non li avesse.
Non l’ho mai sentito parlare pronunciando parole diverse da quelle che ho riportato.
Tranne che per il giro nei corridoi, infine, non l’ho mai visto impegnato in altre attività.
Ho pensato che avrà ricoperto questa mansione prima che io arrivassi in quella scuola e avrà continuato quando me ne sono andato. Anni e anni a fare il giro dei corridoi a metà mattinata, classe per classe, per dire “Chi è assente?”, dopo la pausa necessaria a esaurire l’eco del “buongiorno”.
Non so neanche come si chiamasse: era l’Uomo delle assenze.
Tra le prime regole che impari quando da bambino prendi a calci un pallone con altri tuoi coetanei, è che alcune cose sono privilegio soltanto dei veri calciatori.
Stramazzare al suolo e poi rotolarsi in preda a dolori indicibili per un intervento scorretto è una di queste.
Non c’è spazio per sceneggiate, qui. I feriti si lasciano sul cemento, è il pallone che comanda. Quando la sfera si arresta allora e soltanto allora ci si può fermare guardando indietro per controllare il campo di battaglia. Non dite che non è fair play: non si facevano discriminazioni, sia che morissero avversari che tuoi compagni di squadra il gioco andava avanti.
In virtù di ciò io alle medie decisi di fare il portiere.
In realtà la prima volta non fu una mia scelta. Fui un volontario obbligato.
In porta non piaceva stare a nessuno, tanto meno a me. Non potevi correre, ti annoiavi stando lì a guardare gli altri giocare. Rimanevi lì, isolato e solitario: altra regola del calcio fanciullesco, infatti, è che si va tutti dietro la palla. Era il calcio totale totalitario, una variante dei noti schemi del calcio olandese, molto dispendiosa in termini di fiato tant’è che la nostra squadra si chiamava Arranca Meccanica*. * Breve digressione per i non addetti ai calcioni: Arancia Meccanica era il soprannome della Nazionale dei Paesi Bassi degli anni ’70, che divenne famosa per il suo calcio spettacolare basato su copertura degli spazi da parte di tutti gli uomini, pressing, scambi veloci.
In porta si faceva a turni per dividere l’incombenza dell’ingrato compito. Ma una volta qualcuno saltò il turno e io, che fui indirizzato verso i due pali (due pietre di tufo scheggiate) mi arrabbiai. Litigai con un compagno finché non dissi una frase orribile: “Allora mi farò segnare”. È come dire alla propria ragazza che si desidera far sesso con un’altra. Il compagno mi spinse a terra, urlando, con gli occhi lucidi, “Si t’ faje signà nu’ si omm (se ti fai segnare non sei uomo)”.
Per la cronaca io presi un gol a freddo immediatamente e restai in porta per punizione, subendone altri due finché non finì l’ora di educazione fisica. Nessuno mi guardava in faccia o mi rivolgeva la parola mentre rientravamo in classe. Io giurai di non averlo fatto apposta ed era vero, ma la mia uscita verbale non aveva giocato a mio favore.
Siccome il destino ama prendere per il culo i più deboli, quel giorno l’insegnante dell’ultima ora era assente. Venne una professoressa di educazione fisica e la convincemmo a farci scendere giù in cortile. Dato che i campetti erano tutti occupati dalle altre classi, ci adattammo sulla pista di atletica. Ennesima regola del calcio da ragazzini: si può giocare su qualunque terreno basta che sia calpestabile – anche se giurerei di aver visto qualcuno giocare anche sull’acqua.
Durante l’incontro venne il momento del cambio portiere: toccava a me. Il compagno con cui avevo litigato disse “Per piacere…”, col pugno chiuso e l’indice alzato nell’atto di chiedere un favore. “Vado, vado” risposi per farmi perdonare dell’accaduto in precedenza ma rassegnato a un’altra magra figura.
Un minuto dopo un uomo cadde a terra nella nostra area di rigore.
In realtà giurerei di non aver visto cadere nessuno, ci fu un calcetto che sfuggì su una gamba ma quello più bravo della classe a calcio era il classico tipo che chiedeva – e otteneva – rigore per uno starnuto. Una volta lo vidi avere un rigore per una parolaccia rivoltagli contro. Aveva poi inventato una regola che se tu subivi fallo ma proseguivi – o un tuo compagno proseguiva – a giocare, anche solo percorrendo per inerzia un paio di centimetri dietro la palla, allora il fallo non valeva più perché avevi ottenuto il vantaggio*.
* La “norma del vantaggio” nel calcio vero prevede che se un giocatore subisce fallo ma la sua squadra mantiene il possesso del pallone, si lascia proseguire per non interrompere la sua azione. Ma se il vantaggio non si concretizza si concede il fallo.
In quel momento stavamo vincendo 1-0.
Il famoso compagno dello spintone – sempre lui – si mise la mano in faccia dallo sconforto.
Sul dischetto c’era ovviamente il piangina-fenomeno. Breve digressione sul dischetto del rigore: era un punto ipotetico individuato a una distanza di 7 passi dal portiere, che generava ogni volta discussioni sulla propria collocazione e che per essere calcolato richiedeva tre misurazioni. Prima il “difendente” percorreva i 7 passi, poi lo faceva il richiedente dopo aver protestato per la falcata dell’avversario, poi dopo un’altra protesta ci si accordava a occhio.
Mentre il rigorista prendeva la rincorsa mi accorsi che fissava l’angolo in basso alla mia destra. Mi buttai in quella direzione.
Palla bloccata. Partita vinta.
In seguito durante altre partite gliene parai altri perché mi resi conto che aveva l’abitudine di fissare sempre il punto in cui avrebbe messo la palla. Finché una volta non mi fregò, forse capito il trucco, guardando da una parte e mandando la palla dall’altra.
Per i due anni e mezzo successivi delle scuole medie feci il portiere. Comprai anche due guanti. Passai successivamente alla squadra del piangina, perché qui si facevano le cose in grande e quindi c’era anche il calciomercato.
I buchi e i rattoppi sulle tute si sprecavano. Buttarsi a terra sul cemento non faceva bene al poliestere.
Io mi divertii. Presi il ruolo come una missione e mi disperavo quando capitavano giornate no (molte), invece di giornate sì (poche). Però era bello prendersi qualche complimento per un bell’intervento. “Wà, t’amma chiammà Buffon! (Wow, dobbiamo chiamarti Buffon*)”, “Wa ma chi sì, Batman! (Wow, ma chi sei, Batman?**)”. *Che all’epoca era un giovane emergente che mostrava già di essere un grande portiere ** Detto dopo un mio “volo” al’incrocio dei pali (inesistenti anch’essi)
Quando incontrate qualcuno, prima di giudicarlo, soffermatevi a pensare. Forse da bambino avrà fatto il portiere.
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.