Non è che il presentatore televisivo sia uno che faccia telelavoro

L’Università eroga anche per questo semestre i corsi in modalità mista: online e in presenza. Riesco quindi ancora a essere un frequentante. Ho notato alcuni docenti non sono però contenti di tenere i corsi su Teams e non vedono l’ora che si smetta; sarà una coincidenza, ma sono gli stessi docenti che hanno delle evidenti difficoltà con la tecnologia: registrare la riunione, cambiare l’audio da altoparlanti del pc a casse esterne, far visualizzare un Powerpoint; situazioni che li rendono nervosi e insofferenti.

Forse, l’anno scorso, potevano cogliere l’occasione per imparare qualche rudimento di informatica, cosa che credo sia necessaria per tutti ma soprattutto per chi insegna, divulga, fa formazione.

Ma, si sa, del senno di poi son piene le fosse.

Io sono più che contento per i miei colleghi di corso, più giovani di me di 10 anni e più, che hanno potuto tornare in aula. L’università non è – o non dovrebbe essere – un esamificio, dove paghi e ti laurei. È un luogo da frequentare e vivere nel quotidiano. Per questo io mai la vorrei vedere trasformata in una università telematica.

Detto questo, la didattica online permette a studenti lavoratori e lavoratori studenti – come me – e studenti fuori sede di poter frequentare e partecipare. Sono conscio di parlare da persona che ha un interesse e quindi una visione parziale, ma credo che comunque il poter allargare la platea dei frequentanti sia un valore aggiunto per l’università.

Non tutti la pensano così e io credo che prima o poi si tornerà esclusivamente alla modalità di frequenza classica: la tecnologia resta ancora un pericoloso demonio, per alcuni.

Al lavoro, invece, è da Novembre che non abbiamo più a disposizione telelavoro illimitato e si è tornati a due giorni al massimo fruibili in questa modalità. In realtà da Gennaio la Spurghi&Clisteri dove lavoro aveva introdotto la possibilità di un terzo giorno di telelavoro settimanale fruibile fino a fine marzo. La Dirigente del nostro Dipartimento però si è dimostrata ostile a questa eventualità. Sua frase ormai entrata già nel mito: «Non è che se una cosa è disponibile uno allora se la prende solo perché c’è». Giusto. Sottoscrivo. L’ossigeno che lei respira, cara Dirigente, non è che dovrebbe prenderselo solo perché c’è aria a disposizione: ci giustifichi il fatto di consumarlo dando aria alla bocca.

Chiariamo: non baratterei mai una vita fatta di contatti e interazioni vis-à-vis con una vita in cui ognuno sta a casa propria e vede gli altri solo attraverso uno schermo.

Però, avere la possibilità di scegliere quando e come vivere online e offline, su quello forse bisognerebbe rifletterci.

Si diceva che «Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema». Temo invece stiamo proprio tornando a quella problematica normalità. Altrimenti non mi spiego perché, pur avendo bisogno per il mio lavoro solo di un pc e una connessione, sia necessario che la mattina io perda un’ora sulla tangenziale in una scatola di latta per andare in ufficio, a fare cose che fisicamente non sono comunque presenti e svolte né nel mio posto di lavoro, né nella città del mio posto di lavoro e nemmeno nella mia Regione. Tradotto, io mi reco in ufficio per svolgere, comunque, un lavoro a distanza.

Sono tante le persone nella mia situazione: gli stessi di cui vedo le facce afflitte e nervose in altre scatole di latta in tangenziale.

Mi rendo conto ci siano tanti interessi che si scontrano: perché il lavoratore che si sposta non crea danni all’ambiente e basta ma genera anche dei ritorni positivi; penso a tutti i bar e ristoranti che vivono intorno gli uffici, per dire. Il battito d’ali di una farfalla che vuol starsene a casa genera un uragano nel portafogli del povero ristoratore.

Non so quindi quale sia la cosa giusta da fare, se razionalizzare il lavoro a discapito di tutto un indotto che vive grazie a esso oppure lasciare tutto come sta, intasando le strade, l’aria, le arterie del lavoratore che non fa altro che stressarsi ancor di più.


C’è un convitato di pietra che non nomino in questo discorso: il trasporto pubblico. Quando inventeranno il teletrasporto, allora potremo parlarne, per il resto, non credo che, al di là delle deficienze del trasporto pubblico di molti territori italiani, sia possibile pensare che la nostra realtà, fatta di tanta provincia meccanica con i propri Comuni autonomi, sia paragonabile al territorio metropolitano delle megalopoli, dove anche chi vive a 30km dal centro è in realtà parte della stessa città e gli basta prendere una metropolitana per muoversi.


Continuo a essere convinto che lo stile di vita che conduciamo non sia sostenibile e abbia dei risvolti illogici; forse bisognava solo pensarci molto prima.

Come quella volta che, quando ancora c’era a livello generale lo smart working diffuso, un sindaco di una grande città italiana richiamava alla necessità di far tornare tutti al lavoro in presenza, al grido di «Mi viene tristezza a vedere le torri in centro vuote».

Forse ci si poteva pensare prima di riempire di vetro e cemento una città e ingrassare i costruttori. Ma, come dicevo, del senno di poi son piene le fosse.

E del senno di Poe (Edgar Allan), son pieni i gialli?

Non è che devi essere un sovrano per fare esperienze Reali

Ho condiviso esperienze, per di più lavorative, con diverse persone nella mia vita. Ho spesso constatato un forte spirito di attaccamento in quei frangenti, il cosiddetto fare gruppo che motivatori pagati un metalmeccanico l’ora mirano a costruire con le loro consulenze, proiettando slide e organizzando giochini aperitivi degni di un animatore Alpitour degli anni ’90.


Quando invece ho avuto esperienze con motivatori ho ricevuto l’effetto contrario desiderando di fare come Jack Frusciante.


Abbiamo riso – spesso anche pasta in qualche pranzo – ci siamo abbracciati, toccati, scambiati fluidi.


L’ultima cosa forse è avvenuta solo in qualche strano sogno erotico che ho fatto.


Quando l’avventura termina ci si lascia con rammarico. Non sparire, Restiamo in contatto.

Dopo un po’, qualche messaggio di meno, una conversazione che si fa silente, argomenti che scarseggiano perché esaurito il campo de Ti ricordi quella volta?, i contatti si fanno sempre più sporadici e brevi senza altro da dire.

Perché in realtà non abbiamo mai detto nulla. Abbiamo sempre tenuto le rispettive vite private al di fuori di qualsiasi spazio di condivisione. Esauriti i discorsi con al centro il lavoro o i docenti, non abbiamo altro da dirci perché altro non conosciamo gli uni degli altri.

Spesso mi interrogo sulla concretezza di queste esperienze. Mi chiedo se siano reali o meno. Se lo sono, com’è che si volatilizzano velocemente come 10€ nel mio portafogli? Se non lo sono, perché sono sempre così intense?

Ma soprattutto: chi motiva i motivatori?

Non è che una camicia a scacchi sia da matti

Solo un aggiornamento perché ormai diventerà a breve di dominio pubblico il vero motivo per il quale io mi sono trasferito a Budapest!

Ungheria, camicia a scacchi nuovo simbolo di opposizione

Università, deputati contro politica educativa di Orban

(ANSA) – BUDAPEST – Nell’ambito del dibattito pubblico contro un sistema educativo troppo centralizzato e gli stipendi bassi, l’opposizione ungherese sembra aver trovato un nuovo simbolo comune nella camicia a scacchi. Secondo quanto riportato dal portale Hungary Today, in seguito alla battuta dell’ex sottosegretario per l’alta educazione, István Klinghammer, contro i “docenti non rasati, trasandati che camminano in giro con le loro camicie a quadretti”, centinaia di insegnanti e studenti ungheresi si sono presentati vestiti così in segno di solidarietà con i protestanti.

Nei scorsi giorni su Facebook sono apparse numerose foto di intere classi in camicia a scacchi, mentre i rappresentanti di due partiti di opposizione, i socialisti MSZP e i nazionalisti radicali Jobbik, si sono presentati in aula indossando lo stesso vestiario. (ANSA).

Fonte: ANSA

Foto: Eàst Journal


Si scherza ma è una questione più seria che va oltre la infelice battuta, usata poi come spunto per una protesta originale.


 

Così parlò Gintoki

Un mio amico di recente è stato bocciato credo per la decima volta all’ultimo esame. È un anno che gli sta dietro. Non si appiglia a scuse del tipo “È tutta colpa dei professori”, anche se, stando a quanto mi racconta, docente e assistenti sono dei bei tipetti.

Questi discorsi mi hanno ricordato i tempi universitari e i professori incontrati da me. Ce ne erano di esemplari interessanti.

La gerarca SS – Già dal nome era un programma, doppio cognome di cui il secondo tedesco, tipo Hohenzollern. Insegnava diritto internazionale, ma secondo me insegnava l’arte dell’insulto di Schopenhauer. La lezione era fatta di mezz’ora di spiegazione e mezz’ora di abbassamento dell’autostima degli studenti. L’esame prevedeva un discorso preliminare da parte sua in cui invitava ad abbandonare l’aula perché secondo lei l’esame si doveva preparare un paio di volte prima di presentarsi. Il colloquio era di tre quarti d’ora, minimo, di cui mezz’ora in cui parlava lei e faceva dell’autostima del malcapitato un sacchetto da punching ball. Volte minime in cui andava tentato prima di superarlo: tre. A meno che il proprio turno non capitasse durante la sua pausa pranzo alle 11:30, in cui l’assistente cominciava magicamente a dare esami in 10 minuti. A me è successo al primo colpo. Ho temuto che per riequilibrare quella botta di culo come minimo m’avrebbe investito una mietitrebbia uscito dalla facoltà.

Kevin Costner – Tra l’altro professore della mia tesi alla magistrale, un uomo dallo spropositato culto dell’aspetto fisico. La sua lezione: lui che, con la camicia con i primi bottoni sbottonati, parla in piedi, mettendosi in posa. Non scherzo. Si appoggiava alla cattedra con la mano, poi vi si appoggiava all’indietro, poi una volta addirittura mise il piede su una sedia e parlava in posa come un cacciatore che aveva appena sconfitto una belva feroce, pronto per essere immortalato. E aveva il tic di Sgarbi di sistemarsi il ciuffo fluente ogni trenta secondi.

Il Santo – Il professore più amato dagli studenti, docente di storia delle relazioni internazionali. Per chiedergli la tesi c’era più fila che alla posta, per poterne prendere di più lui a volte non so con che magheggi occultava le tesi che aveva in corso. Le sue lezioni erano uno show teatrale. A volte portava le caramelle o i biscotti e se qualcuno rispondeva bene a una domanda gliene dava una. Una volta invece accadde questo: prof. che fa una domanda all’aula, tra l’altro una semplice; uno risponde ma in modo completamente sbagliato. Il professore va verso la borsa, ne estrae un cartellino giallo e lo mostra allo studente che aveva risposto: “Ammonito! Alla prossima scatta la squalifica!”. L’assistente del professore, che in realtà era un professore associato, era un vecchietto che sembrava stesse lì perché non aveva altro da fare. Tipo gli anziani che guardano gli scavi. Se gli davi a parlare, era finita: cominciava a raccontarti di tutto. Uscivi dallo studio e lui ti seguiva continuando a parlare. Una volta continuò a parlarmi lungo le scale raccontandomi della Grande Guerra. Il tutto perché gli avevo solo fatto una domanda riguardante tutt’altra cosa.

La mummia – Doveva già essere vecchio quando c’era la Montessori. Non si capiva quanti anni avesse, ma di sicuro molti. Pensavo fosse prossimo alla pensione, il primo anno. Dopo 5 anni di università, quale mia sorpresa nel trovarlo ancora al suo posto. Anno 2014, vado a un seminario di politica e amministrazione. Tra gli invitati, c’era lui! In qualità di docente (ancora operativo)!

Il lettore – Professore di diritto pubblico, durante la lezione si poteva portare il segno sul libro perché per due ore non faceva altro che leggere i propri appunti copiati pari pari (perché non leggere direttamente dal libro?!). Se la Noia fosse stata personificata, lui l’avrebbe fatta scappare per quanto era noioso.

Il vaticanista – Esperto dei piccoli Stati, in particolare della Città del Vaticano. Teneva infatti lezioni su questi argomenti nell’ambito del corso di Diritto Costituzionale Americano e Comparato (cosa c’entrassero in tutto ciò i piccoli Stati, è un mistero! Non abbiamo mai comparato nulla!). Non si capiva ciò che dicesse, pur stando in prima fila (eravamo 10 persone), perché lui si ostinava a non voler usare il microfono. Dopo ripetuti solleciti, cominciò a usarlo. Lo teneva ad altezza stomaco. Dopo altri ripetuti inviti, lo alzava ad altezza bocca dello stomaco. Quando finalmente lo mise a portata di voce, non si capiva niente lo stesso perché lui parlava così:
“È nell’anno mijuejuentoshin’anta che l’arcivdva Jojjj Secondo decide di… (continua con ronzii e borbotti a caso)”

Il Boss – Il preside della facoltà. Un uomo che una volta, alludendo alla propria prominente rotondità addominale, disse: “Non è pancia, è il potere”. La sua squadra era ben assortita: c’era il suo delfino, un uomo che stava plasmando a propria immagine e somiglianza tranne che per la forma fisica, per fortuna. C’era un ricercatore, un uomo con l’aria da secchione cui credo venissero affidati i compiti ad alto contenuto intellettivo più ingrati. Conosceva i testi d’esame a memoria, virgole comprese. Capitare infatti all’esame col delfino, voleva dire ragionare e ricevere domande complesse e articolate. Capitare con lo sgobbone, voleva dire doversi ricordare una nota a piè di pagina 346 contenente una citazione. E poi c’era il terzo, l’uomo di fatica, un individuo che sembrava un incrocio tra Paolo di Canio (qui sotto nella diapositiva) e un bonobo. Nessuno ha mai capito bene a cosa servisse e che ruolo svolgesse. Durante lezioni ed esami sedeva accanto al Boss, ascoltava e annuiva e basta, forse perché non gli era concessa la parola. Una sola volta osò aprire bocca: il Boss stava spiegando una cosa, lui intervenne con un esempio e il Boss, accompagnando le parole con un cenno della mano per bloccarlo, lo spense dicendo “Sì sì ma questo non c’entra”. Credo non abbia più parlato da allora. Quando il Boss dopo il secondo mandato non è stato più eletto preside, ha dovuto rinunciare alla squadra. Il delfino ha avuto una cattedra, lo sgobbone continua a sgobbare per il delfino, mentre il povero servo è sparito dalla circolazione.

E poi ce ne sarebbero altri ancora, magari ne parlerò in una seconda parte.

Comunque io avrei preferito incontrare il Professor Bellavista

Oh, io sono pieno di dubbi, preferisco fare il bagno e per me vince sempre il presepe. Ah, e sono meridionale, ovviamente.