Il Vocaboletano – #3 – Intalliarsi

Terzo appuntamento del corso di napoletano facile tenuto da me e crisalide. Da oggi sarà presente anche in edicola: e se il vostro edicolante non ce l’ha, rimproveratelo in modo aspro denunciando un complotto dei poteri forti.


La parola di oggi è: intalliarsi. Detto anche intallearsi o ‘ntalliare, non ha niente a che fare con la tecnica artistica dell’intaglio. Con questo termine si indica invece l’indugiare, il perder tempo, il ciondolare in modo pretestuoso senza far ciò che si deve.

Non si tratta di un mero ozio né è equiparabile con l’abbandonarsi su un divano a poltrire. Questo ultimo, infatti, è un semplice atto passivo.

Intalliarsi richiede invece un’azione concreta e attiva da parte dell’individuo, tal dal distoglierlo dalle attività da compiere.

Immaginate di avere un appuntamento a un orario preciso. Voi arrivate di corsa in anticipo, mentre c’è sempre quello che si presenta con comodo, perché ci mette un’ora per essere pronto:

  • mette i vestiti sul letto
  • accende la radio
  • si fa la doccia
  • dopo la doccia resta a guardarsi allo specchio grattandosi come una scimmia
  • va in cucina a farsi uno spuntino
  • torna in bagno: se è maschio decide di cagare, se è femmina si mette con la pinzetta a togliersi dei peletti invisibili e isolati sparsi sul corpo che nota soltanto lei
  • mette i pantaloni
  • cambia musica
  • cambia pantaloni
  • si mette a ballare
  • torna in bagno per cagare di nuovo o per strappare altri peli
  • termina di vestirsi
  • prima di uscire telefona a qualcuno e resta mezz’ora al telefono

Questa è una tipica sequenza di intalliamiento. E se vi capita spesso di fare cose del genere, siete degli intalliatori. Compiacetevene, perché in fondo è una vera filosofia di vita.

I gatti sono capaci di intalliarsi per ore

I gatti sono capaci di intalliarsi per ore

Intalliarsi è un atto di ribellione verso l’ordine costituito: spesso eludere un’attività può comportare un dispendio di tempo ed energie superiore a quello richiesto dal compito da svolgere. Ma a chi si intallea non importa, fondamentale è scansare momentaneamente qualcosa perché “Lo faccio quando decido io, non quando mi viene imposto”.

Intalliarsi non ha solo l’accezione negativa di scansare le fatiche.
Vuol dire anche prendere la vita in modo rilassato. Probabilmente è una cosa tipicamente meridionale, anzi, mediterranea: significa non vivere lo stress delle scadenze e non considerare il tempo solo ed esclusivamente come denaro.

A me non è mai capitato di intalliarmi quando ho un appuntamento, anzi, ho la malattia dell’anticipo. Purtroppo.


“La vita di un puntuale è un inferno di solitudini immeritate” (Stefano Benni).


In compenso, mi intalleo quando ho delle scadenze per le cose da fare. Mi riduco sempre all’ultimo, perché nel mentre intraprendo altre attività e non sento alcuna pressione per il tempo che scorre.

Avere a che fare con chi si intallea può avere risvolti positivi: penso alla scena classica di una ragazza che giocherella con le chiavi prima di scendere dall’auto. Si sta intalliando perché magari ha piacere a restare con voi. Buon segno!

Se invece ha le chiavi in mano prima di salire sull’auto e si getta dal finestrino a motore ancora acceso…beh, di sicuro non si intallea e dovreste chiedervi il perché.

Etimologia
Le origini sono sconosciute. Qualcuno lo fa risalire al greco antico, al verbo θάλλω (tallo), ipotesi non assurda in quanto nel dialetto non è raro trovare influenze del greco. θάλλω vuol dire fiorire, il che farebbe riferimento in modo figurato all’atto di chi si si pianta in un posto e non si smuove, anzi, mette radici e frutti.

Un salto logico forse azzardato.

Una seconda ipotesi vorrebbe che fosse un composto latino in+talos (talloni): star sui talloni, nel senso di esser statici. Oppure, potrebbe indicare l’atteggiamento di chi ciondola e gioca stando in equilibrio sui talloni e poi sulle punte e poi di nuovo sui talloni. Interpretazione più compatibile con un comportamento attivo e perditempo.

Qualunque sia l’origine, mi sto intalleando invece di congedarmi da questo post.

Non è che lasci il foglio in bianco perché non ci esci assieme

Alcune considerazioni che non avevano abbastanza energia germinale per poter dar vita a un post.

  • Paradossi: se volessi fare un post vuoto, rendendo noto che quella è una pagina bianca, nel momento in cui io scrivessi “Questa è una pagina bianca” l’enunciato non sarebbe più vero. Certo, potrei lasciare la pagina vuota senza aggiunger commento alcuno, ma si porrebbe il problema di comunicare che quella è una pagina volutamente bianca e non, ad esempio, un errore di invio. Ergo, comunicare la pagina bianca non è possibile.
  • Ogni volta che devo entrare in un negozio e interagire con una persona dietro al bancone mi coglie un senso di afflizione. Il motivo è che so che dovrò interagire con un individuo scoglionato. O che verrà scoglionato dai clienti che mi hanno preceduto. Per questo motivo preferisco un grande negozio dove l’interazione si riduce alla consegna della merce al banco e il relativo pagamento. Oppure, ancor meglio, acquistare online elimina qualsiasi tipo di contatto. Mi rendo conto di avere una quota di responsabilità, in questo modo, nella crisi del piccolo commercio con conseguente ulteriore fonte di scoglionamento per chi ne gestisce l’attività.
  • In tema di individui scoglionati, mentre mi trovavo nel negozio – pardon, nello store – di una compagnia di telefonia mobile, suona il telefono. Il tizio dietro al bancone risponde:
    – Pronto?…Sì…sì…meglio che viene in negozio…ci sono diverse offerte…sì…sì…è meglio che viene, perché è inutile che le dico delle opzioni internet se poi a lei interessano solo i minuti…sì…arrivederci.
    Riaggancia.
    – E m’ha preso per il call center! E che palle! Ma quanto li schifo i clienti così, sono proprio fraccomodi. Vieni qua e ne parliamo, non è che ti metti al telefono a fare le domande, è giusto?
    – Eh sì.
    Abbozzo.
    Avrà avuto ragione, ma uno che davanti a un cliente, estraneo, parla male di un altro cliente non mi vedrà più. Non voglio correre il rischio di essere insultato alle spalle a mia volta da uno con i capelli unti e l’alito diserbante.
  • Cammino. All’improvviso odo due donne che, con l’interposizione ogni tanto di una voce maschile, all’interno di una casa litigano ad alta voce. Urlano. Il tutto avviene in dialetto, ma tutto ciò che dicono mi è incomprensibile. Mi chiedo se sia una questione di orecchio mio o meno. È pur vero che esistono sacche linguistiche dialettali geograficamente a me vicine eppur lontanissime in termini di comprensibilità.
  • Ho fatto un sogno in cui c’era la ‘Flaca’ di Orange Is The New Black:
    Nel sogno, non era un personaggio televisivo ma una persona che mi conosceva. E io fingevo di conoscerla perché pensavo Se mi conosce vuol dire che la conosco!. Non era vestita da detenuta: indossava un jeans blu e una camicetta bianca. Era ansiosa di mostrarmi il posto in cui lavora, anche se io non capivo bene che posto fosse e di che lavoro si trattasse. Ma facevo finta di nulla.  E poi dice che devo assolutamente conoscere il nuovo arrivato: Max Verstappen. E io esclamo Caspita! Mi ricordo di quando il padre gareggiava in Formula 1 negli anni ’90. Mi sento proprio vecchio!.


    Max Verstappen è attualmente pilota della scuderia Red Bull. È figlio per l’appunto di Jos Verstappen, ex pilota Benetton e di altre scuderie minori.


    L’ufficio di Max si trova nel seminterrato. Ed è ricavato da un bagno. Anzi, è proprio all’interno del bagno: tra la vasca e il water c’è una scrivania. Poi all’improvviso appare il caro Max, vestito come un pinguino. Non un pinguino animale: indossava un frac nero su una camicia bianca. Mi stringe frettolosamente la mano e poi non mi presta più attenzione. Dopo questo simpatico incontro, io e la Flaca andiamo in un altro ambiente, un magazzino di cinesate. Si ferma a guardare una fila di scaffali e poi si accovaccia a guardare chincaglierie natalizie. Nel frattempo continuavo a chiedermi chi minchia fosse questa tizia e cosa fosse il posto dove mi trovavo. E poi non mi ricordo altro.

 

Non è che sia inquietante che le brave persone tacciano solo perché sarebbe il silenzio degli innocenti

Da quando sono qui sto forse guarendo da una mia malattia.
La sindrome della sega mentale da silenzio.

È una malattia diagnosticata per la prima volta nel XIX secolo in Tanz-ania, terra della disco come dimostra questo reperto archeologico a essa dedicato (attenzione, può provocare epilessia, conati e cognati di vomito):

Si narra che la sindrome fece la propria comparsa durante l’incontro tra l’esploratore Henry Morton Stanley e il collega David Livingstone: tutti ricordano la celebre frase di Stanley (il Sig. Livingstone, presumo?). Cosa disse invece Livingstone? Perché nessuno lo rammenta?

Perché non disse proprio nulla! Era troppo preso a farsi le seghe mentali sul cosa dire e sull’aspettativa che l’altro avesse di sentirsi dire qualcosa, una situazione che nella testa degli infetti dal morbo crea un corto circuito nel cervello, che entra in un loop ciclico-ridondante:

loop

Io ne soffro da tempo, ormai non ricordo più quando ho contratto la sindrome.
Parlo poco e a questo non c’è rimedio. Apro bocca se penso di avere qualcosa da dire, foss’anche una minchiata ma una minchiata che ritengo vitale esprimere.


Come un economista keynesiano sa (come cantava Battisti: keynesiano di un campo di grano?) bisognerebbe però evitare rischi di sovrapproduzione di minchiate altrimenti il mercato (il pubblico che ascolta) dopo un po’ non riesce più a smaltirle. Problema che mi è capitato spesso di dover gestire.


Mi pongo però il problema che gli altri si aspettino che io dica qualcosa o che stiano pensando che io non stia dicendo nulla e mi giudichino in base a questo.

Ultimamente si sta verificando un fatto nuovo. Sento di avere smesso di preoccuparmi del dover dire qualcosa. Sarà perché se intorno a me parlano in ungherese sono esentato dal partecipare. Non credo mai imparerò una lingua che ha 44 lettere nell’alfabeto e 18 casi declinabili e che ha degli scioglilingua che parlano di turchi che picchiano greci con sommo godimento*.


* Öt török öt görögöt dögönyöz örökös örömök között. Letteralmente dovrebbe essere: 5 turchi picchiano 5 greci con eterno piacere.


Anche se va detto che almeno una parola nuova al giorno riesco ad apprenderla. Oggi ad esempio ho scoperto che simpatico si dice szimpatikus, pronuncia “simpàticush”, che sembra detta in un dialetto dell’alta bassa valqualcosa lombardoveneta.

Anche potendo parlare in inglese mi sento comunque esonerato dal dover dire molte cose. E, in fondo, l’inglese è più conciso e sintetico dell’italiano. Pensate solo a quante cose può significare get. Lo piazzi lì al momenti giusto e taac hai risolto la frase.
Sono le famose conversazioni “usa e get”.


Giuro che quando l’ho pensata questa battuta mi sembrava migliore.


Ma anche con gli italiani che frequento, che sarebbero CR, L’Ingrugnito, sorella di CR, altri loro amici, mi sento libero dalla paranoia del dover parlare e di essere giudicato.


La sorella di CR è di viso la sua copia ma hanno caratteri diversi. Laddove CR è posata e tranquilla, la sorella sembra più estroversa, incline alle battute e allo sfottò. Poi l’una (CR) è bionda, l’altra si tinge di rosso, il che insieme agli occhi chiari e agli zigomi pronunciati contribuisce a darle un aspetto un po’ vampiresco. Pertanto, ho deciso di soprannominarla LSD: La Sorella Demoniaca.


Non so se sono guarito o se è un effetto passeggero. Non mi sento più preoccupato dall’essere giudicato male dalle persone se rimango zitto. E, in aggiunta, sono giunto alla conclusione che se qualcuno dovesse pensare male di me non è affatto un mio problema.

Quante cose che si apprendono non imparando le lingue! L’ignoranza ci salverà tutti.

Non è che se dichiari guerra al trasporto pubblico puoi gridare “All’Atac!”

(si intravede dietro delle alte mura una grossa cupola) Ehi, dove siamo qui?
– Questa è S. Pietro, oh.
– Dai dai scendiamo qui, su (scrollandolo per le spalle).
– Oh? (infastidito)
– Sì dai – schioccando la lingua* – qui ci sono i marocchini e io devo contrattare per una borsa.


Perché mai nei libri, quando qualcuno parla, deve sempre schioccare la lingua? Voi schioccate la lingua spesso mentre parlate? A me non succede, sono forse anormale?
La ragazza comunque non ha schioccato la lingua, l’ho scritto per capire che effetto e che tono desse al discorso ma il risultato non è stato come speravo.


Quelle riportate sono le uniche parole che sono riuscito a comprendere. Il resto del tempo loro e altri due ragazzi hanno parlato esprimendosi in pugliese stretto. È una dialetto che economizza sulle vocali: in pratica è come recitare un codice fiscale.


DIDASCALIA LINGUISTICA
Credo sia inesatto da parte mia parlare di un dialetto pugliese, viste le varianti esistenti dal Gargano al Salento: credo che quello che parlavano i 4 fosse foggiano.


Non avevo mai considerato S. Pietro come meta di pellegrinaggio del falso. Si apprendono sempre cose nuove nei momenti inaspettati, come accadutomi alle 14 di un attivo lunedì pomeriggio.

I mezzi dell’Atac non sono stati, a dire il vero, molto attivi. La metro A era interrotta mentre gli autobus procedevano come una canzone di Tullio de Piscopo: ad andamento lento. Persone che inveivano, individui rassegnati, turisti smarriti che pretendono di fare il biglietto a bordo come se stessero a casa loro. Qualcuno mi pesta il piede e mi chiede scusa, io con un cenno della mano e un sorriso do la mia assoluzione: le mie dita sono diventate come le antenne delle lumache, appena percepiscono il pericolo si rattrappiscono all’interno della scarpa piegandosi su sé stesse ed evitando il pestaggio.

L’aumento della densità interna dei mezzi quest’oggi ha portato a un incremento di personaggi interessanti come i foggiani che ho citato sopra.

Una signora cinese si reggeva in piedi aggrappandosi con una mano alla maniglia e con l’altra al pantalone del marito, ad altezza del pene o quantomeno dove avrebbe potuto trovarsi se l’uomo avesse l’abitudine di sistemarlo da quel lato. Al che mi sono chiesto: la signora cercava il pene del marito? Sapeva oppure che quella zona fosse libera e riteneva lecito aggrapparvisi? In ogni caso il signore e i suoi pantaloni non facevano una piega, io intanto ho distolto lo sguardo attirato da un folle che, sceso dal mezzo, ha tirato un calcio contro una paratia non so per quale motivo.

Sull’autobus delle 20 un anziano signore ha cominciato a parlarmi dopo che gli ho ceduto il posto. Ha esordito spiegandomi dei problemi intestinali e circolatori che lo portano a dover camminare molto durante il giorno, per poi raccontarmi – dopo che avevo dato delle indicazioni a due turiste straniere – dell’importanza di conoscere le lingue. Ha concluso infine raccomandandomi di fare attenzione a ciò che scrivono sui libri perché non sempre dicono la verità: lui tutto ciò che sa l’ha invece appreso dalla gente e dalla strada, perché a scuola c’è stato poco. Mi ha spiegato che mentre era in terza elementare il suo istituto fu bombardato durante la guerra e non ci tornò più.

Tra i due autobus ho incrociato una ragazza inglese che su un polpaccio aveva il tatuaggio del Tardis del dr Who.


Se non sapete di cosa sto parlando, correte a farvi una cultura. Meglio Tardis che mai.


Infine, su un altro autobus ancora, il primo della giornata, tra la folla in attesa sulla banchina ho inquadrato una ragazza che ho ipotizzato potesse essere napoletana. Quando l’ho sentita parlare, ho avuto conferma: era napoletana.

Ciò mi porta a stendere (con un gancio destro) un’altra teoria estetica dopo quella delle nanerottole svampite: noi napoletani siamo un gruppo etnico a sé stante e siamo riconoscibili ovunque. Mi è successo in molti luoghi, a Roma, a Bologna, a Milano, a Parigi, a Londra e anche a Nikko (Giappone): quando inquadravo qualcuno ponendo una scommessa con me stesso sul fatto che fosse napoletano, indovinavo sempre.


È una delle poche scommesse che vinco con me stesso, perché per il resto ho accumulato pesanti debiti di gioco e non so come ripagarmi.


Mi chiedo se sono riconoscibile anche io. Ricordo a proposito della riconoscibilità la maestra alle scuole elementari mi diceva “ti fai sempre riconoscere” e io non capivo cosa volesse dire perché mi conoscevano già quindi per cosa avrebbero dovuto riconoscermi? Ma questa è una storia che non riguarda l’Atac quindi non la riconosco.

Non è che se hai tanti complessi allora puoi metter su un festival musicale

Sabato pomeriggio avevo voglia di fuggire da me stesso. Impresa ardua perché alla fine mi raggiungo sempre. Sono salito in auto deciso nel viaggiare senza meta, fin dove mi avrebbe portato il cuore un 10 euro scarso di benzina.

Mi piacerebbe iniziare ora uno di quei racconti dove chi scrive si dà un tono narrando di statali perse nel nulla percorse con i CCR/Tom Waits/I Cugini di Campagna/Cristina d’Avena a palla, con una sigaretta in bocca e un paio di occhiali da sole inforcati che riflettono nelle lenti quel raggio di sole quando volge al desìo nell’angoscia della notte et cetera et cetera.

Purtroppo non ho l’autoradio; appeso al bocchettone dell’aria c’è solo uno smartphone che dimentico sempre di caricare di file, un po’ per pigrizia, un po’ perché l’altoparlante svilisce la qualità già svilita di suo di un mp3 e io non amo svilire la buona musica.

Non fumo sigarette e anche se le fumassi non impuzzolentirei mai l’auto: voglio che continui a puzzare di tappetini di gomma e moquette e deodorante chimico come se fosse uno di quei negozi che vendono accessori e chincaglierie per la casa, dove a poco prezzo puoi portare a casa un Buddha in plastica finto pietra o una candela profumata che t’illudi possa servire per una serata romantica ma in realtà la tirerai fuori soltanto quando andrà via la corrente perché ti sei dimenticato ancora una volta che la batteria delle lampade di emergenza si scarica se non caricata regolarmente.

I miei occhiali da sole hanno una vite che si sgancia sempre che mi costringe a pit stop forzati da ogni ottico che incontro per strada. Ormai mi conoscono ovunque. Cerco sempre di cambiare negozio perché ogni ottico poi mi fa un commento del tipo “Io l’ho sistemato ma di più non si può fare” – tradotto: non torneranno mai a posto. Mi han sempre detto tutti così tranne un ottico di via del Corso a Roma che, osservando la vite nella stanghetta, disse: “Ma chi t’aaaaa messa questa?”*: gonfio di audace sicumera, convinto di poter far meglio del suo predecessore, aggiunse “mò t’aaaaa sistemo”. Purtroppo anche il suo intervento ebbe una longevità breve. Lancio quindi questa tenzone tra ottici: ricchi premi e cotillons per chi riuscirà a sistemare definitivamente i miei occhiali.


* Non ho esagerato, credo di aver contato quattro “a” nella sua inflessione.


Infine, è difficile trovare strade perse nel nulla. Posso scegliere di perdermi nella diossina, costeggiare un inceneritore, fare slalom tra rifiuti ai lati della strada e cartelli bucati dai proiettili. Oppure posso andare in direzione opposta e seguire strade lungo una fila ininterrotta di Comuni: da queste parti siamo un unico agglomerato urbano, non c’è alcuna interruzione tra un’amministrazione e un’altra. È difficile essere tipi fuori dal Comune, da queste parti: qui tutto è Comune, cemento e muratura ed esseri dis-umani.

Esseri come quelli che si affollano ad osservare la scena di un crimine, dove un uomo è morto nel tentativo di sventare una rapina e aiutare una cassiera. Tra i commenti spicca quello di un anziano signore, che, analizzando il fatto inforcando gli occhiali da sole come Horatio Caine in CSI, ha sentenziato: Meglij accussì, a prossima vot s’ facev e’ cazz suoj.


Chi vi scrive ha ritenuto di riportare fedelmente la frase senza tradurla dal dialetto perché trova riesca a conferirle una sfumatura icastica che si perderebbe nel suo corrispettivo italiano.


Uniche alternative di fuga sono costituite da qualche concerto ogni tanto, organizzato da qualche associazione culturale polivalente che non capisco mai come cavolo faccia a campare ma poi me ne rendo conto guardando i prezzi dei beveraggi. Per me vince quella che ha organizzato un evento a luglio, portando i Blonde Redhead a Napoli: una Tennent’s (33cl) 5 euro, sorvoliamo sul mangime. Ma la cosa più divertente era che a fine concerto era precisato sul tariffario che i prezzi sarebbero aumentati.

Ieri sera invece i prezzi erano tutto sommato onesti e ho potuto dissetarmi prima di assistere al concerto dei Jon Spencer Blues Explosion. Un paio di pogate mi han fatto dimenticare i pensieri. Oppure era il sudore lisergico di un tizio completamente sballato a torso nudo che mi è finito addosso ad avermi offuscato la mente.

Una cosa curiosa è che mi sono ritrovato davanti lo stesso tizio pelato con un ridicolo zainetto a sacchetto sulle spalle che avevo davanti qualche mese addietro al concerto invece dei Bud Spencer Blues Explosion. L’ho riconosciuto dal suo modo di ballare: è basculante, come un picchio perpetuo rappresentato nell’immagine qui sotto

Coincidenza? Non credo proprio.

Ho provato a farlo spostare adottando la tecnica che di solito uso in questi casi: do un paio di lievi calcetti dietro le scarpe che inducono la persona che sta davanti a spostarsi. Con lui non ha funzionato né all’epoca né ieri sera. Così ho ceduto e mi son spostato io.

Tornando a casa ho trovato gli occhiali da sole che mi aspettavano sulla scrivania, a ricordarmi che non mi è ancora chiaro il senso della vite.

Il Subito del villaggio

Ovvero, prima di vendere qualcosa ricordati che non sei su Real Time.

A volte mi capita di mettere in vendita qualche oggetto su Kijiji o Subito.it. Non mi riesce sempre di fare un buon affare, capita infatti che l’oggetto rimanga invenduto e l’annuncio scada.


DIDASCALIA PUBBLICITARIA
A tal proposito, se siete interessati a una giacca neo goth o al manga Zetman volumi 1-12, contattatemi pure


Mettere un annuncio vuol dire essere contattato da tipologie diverse di utente. Esiste ad esempio il timido, che dopo aver inviato un messaggio in cui si dichiara interessato sparisce. Lui magari scrive “ciao, sono interessato. Fammi sapere”, tu gli rispondi e lui, arrossito e in imbarazzo perché gli è stata rivolta la parola, non si fa più vivo.

Poi c’è l’affarista, quello che ha guardato troppi programmi su Real Time o su Cielo dove dei tizi col fegato steatosico e la pappagorgia realizzano affari milionari scambiando ciarpame. Lui ti contatta e ti propone un baratto. Anche se tu hai specificato nell’annuncio “No scambi”, arriva sempre il genio che vuole scambiare un orologio per un telefono o un telefono per la Playstation.

E poi capita sempre il tipo strano, come quello che mi ha contattato negli ultimi giorni.

Ho messo in vendita un lettore mp3 Samsung, un oggetto secondo me invendibile perché ormai tutti ascoltano musica dallo smartphone.


DIDASCALIA POLEMICA
Poi ci si chiede perché la batteria di uno smartphone duri quanto un fiammifero acceso. Una volta prima di uscire di casa dovevi fare attenzione a non dimenticare il telefono, oggi non devi dimenticare telefono, caricabatterie e, già che ci siamo, anche la batteria d’emergenza, col risultato che un moderno telefono comporta ingombro (distribuito in pezzi) quanto un DynaTAC Motorola anni ’80.


Mi ha scritto un tizio dicendo di essere interessato. Mi lascia il suo numero, io lo chiamo e lui mi dice che vorrebbe acquistare ma non riesce a trovare le specifiche tecniche del lettore su internet perché il codice del modello che ho scritto nell’annuncio non gli dà alcun risultato. La cosa è strana perché il numero l’ho scritto in modo esatto, comunque gli mando via mail l’indirizzo della pagina web sul sito della Samsung. Mi risponde dicendosi interessato (per la precisione mi ha scritto “molto interessante”) e poi mi ha chiesto il prezzo senza spedizione.

Da premettere che l’annuncio l’ho pubblicato sulla città di Roma e lui nella prima telefonata, probabilmente sentendo il mio accento bolzanese, mi ha chiesto se fossi a Roma. Il suo accento era invece fiorentino, dettaglio non secondario.

Quando l’ho chiamato la seconda volta e gli ho chiesto “tu sei a Roma, giusto?”, lui mi ha detto
“No, sono a Firenze”
“Scusami, come fai col ritiro? Perché mi hai poi chiesto il prezzo senza spedizione” ho risposto, dubbioso.
“No tranquillo poi vedo di organizzarmi”
“Tu a Roma studi?” ha proseguito
“Sì, frequento un master”
“E in che sei laureato?”
“Scienze Politiche”
“E com’è questa politi’a? Un gran ‘asino, eh?”


DIDASCALIA LINGUISTICA
Da qui in poi la conversazione viene riportata con l’inflessione dell’interlocutore per renderne meglio l’efffetto. Non si tratta di luogocomunismo o di qualche allusione sul fatto che il parlato del toscano – toscano con la gorgia* – abbia connotati buffi o comici. Perché poi ognuno potrebbe dire la propria, che a far ridere sia il siciliano, o il milanese, o il bolognese o il napoletano e così via. Del resto molti comici e pseudo tali impostano i propri sketch – a volte in maniera discutibile – sul dialetto, calcando molto sull’intonazione originaria o addirittura imitando altre inflessioni con intento parodistico. Non è scopo di questo blog fare della pseudo comicità spicciola.

* NOTA ALLA DIDASCALIA
Dall’enciclopedia Treccani: La gorgia è un fenomeno fonetico diffuso nei dialetti toscani (noto anche come spirantizzazione o aspirazione toscana). È un processo di ➔ indebolimento che coinvolge le consonanti ➔ occlusive scempie determinando la perdita della fase di occlusione, motivo per cui le consonanti interessate sono pronunciate ➔ fricative o spesso approssimanti.


“Sì…in Italia è difficile governare e far politica perché ci sono molte linee di frattura e particolarismi…” rispondo in politichese.
“E ‘he ne pensi del mio ‘oncittadino, eh?”
Non riporto per intero la risposta ma, sostanzialmente, in maniera ampollosa e retorica ho ripetuto la mia frase precedente.
“Eh ma sai quale è la verità? La gente s’è rotta i ‘oglioni, scusa la parola, ma perché vedi in tempi di crisi non poi mi’a fa’ chiacchiere, prendi pure la ‘osa degli immigrati, se non c’ho soldi mi dici te ‘ome si fa a mantenerli? Qua non c’è lavoro per gli italiani, ma fi’urati te per gli immigrati”
“Purtroppo sono processi lunghi che necessitano di valutazioni che al momento il dibattito politico anche a livello europeo sembra non concedere” ho esclamato mentre mi trattenevo dal mettere un dito nel naso nonostante una crosticina che mi prudeva, primo perché ero su un autobus, secondo perché evito di toccare qualunque parte del mio corpo se prima non ho lavato le mani.
“Eh se parliamo dell’Europa ti mando giù la batteria del cellulare. Va bene, ‘scolta ti fo’ sapere domani o al più tardi tra due giorni, va bene?
“Va bene”
“Allora a presto, tante ‘are ‘ose e buon tutto”
“Grazie, anche a te”.

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