Non è che lo chef per sfidare a un duello lanci il guanto da forno

Organizzarsi per cambiare casa può essere una cosa impegnativa.


Sì, mi trasferisco. A 500 metri in linea d’aria da dove vivo ora, ma comunque mi trasferisco.


Per semplificarsi la vita – e risparmiare un bel po’ di cocuzze – uno prende un appartamento già arredato.

Semplificare. Illuso! Anche se già arredata ci sono comunque tutta una serie di annessi e connessi da considerare che non avevi considerato!

Va detto che io ho una mentalità, forse tipica di noi del cromosoma XY, un po’ limitata: degli oggetti mi limito a considerarne la funzionalità. Citando il film di Woody Allen, Basta che funzioni. Un tavolo deve fungere da tavolo. Una lampada deve fungere da lampada. Nei negozi di design c’è una mia foto con scritto IO NON POSSO ENTRARE.

Per le donne è diverso: loro hanno una visione a 360° gradi che riesce a cogliere tutti gli aspetti che tu non avevi preso in considerazione e di cui non te ne fregava niente.

Torniamo al trasloco: ad esempio la cucina c’è. Ma le presine? Come puoi vivere senza? Vorrai mica arrangiarti con lo straccio per toccare le pentole calde o tirar fuori la roba dal forno? Sei un cavernicolo, per caso?

Allora si comprano le presine.

Quali? Facile a dirsi.

Vuoi il guanto?
La normale presina quadrata?

La presina quadrata ma dentro la quale ci puoi infilare le dita e farci pure il ventriloquo simulando una bocca?

Di stoffa?
Di gomma?

Una simile valanga di opzioni – da moltiplicare per qualsiasi accessorio che serve in una casa, dal tagliere al portaombrelli – finisce per mandare il cervello del maschio in caricamento perpetuo come un video con la connessione scarsa.

E stiamo solo parlando degli accessori indispensabili, come dicevo.

Perché poi vuoi non prendere un vattelapesca componibile da ripiano che fa un po’ di arredo? È così carino e costa soltanto due spiccioli e 99 centesimi €.

Stranamente, quindi, ti ritrovi un carrello pieno di “accessori indispensabili” per solo diverse centinaia di euro.

E la teglia dal forno continuerai a prenderla con uno straccio. Lo stesso straccio che usi per pulire la bicicletta e per il bidet, magari.

Non è che un batterista ci sappia fare in cucina solo perché è bravo coi piatti

Oggi vorrei parlare un po’ di cucina, dato che mi ci sto dedicando in questi giorni. Probabilmente i piatti che presento già li conoscerete e certo non ho la pretesa di fornire insegnamenti, è giusto per scambiarsi magari anche qualche parere e consiglio.

Prima di cucinare in genere mi preparo a livello fisico e mentale. Per cominciare, corro su e giù per le scale per fare una bella sudata ed espellere le tossine dal corpo. Mi consulto poi con il mio Consiglio di Amministrazione:

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Infine mi aspergo con una soluzione di succo di limone e bicarbonato, che anche se la cosiddetta “scienza ufficiale” non ce lo dicono io invece ve lo dico.

Fatta queste operazioni, sono pronto per proporre delikatessen come queste:

ARIA FRITTA
L’aria è fritta è un piatto semplice e veloce, utile quando si vuole qualcosa di gustoso e pratico. Va detto che io spesso sono un po’ pigro e l’aria fritta me la prendo già bella e fatta da qualche programma televisivo di dibattito&opinione. L’altro giorno però me la sono preparata io, è bastato:
– Un abbondante discorso vacuo e fumoso
– Tutta farina del mio sacco
– Olio per friggere, di solito prendo quello dei capelli di Mickey Rourke
Gettare il discorso nella farina e poi nell’olio bollente. Mio piccolo segreto, faccio una doppia frittura: dopo una prima scottata nell’olio bollente tolgo e poi ributto dentro, in questo modo la panatura dell’aria viene bella croccante.

CARPACCIO DI FICA
Un piatto tenero e delicato che però necessita di alcune attenzioni.
1) La fica dev’essere bella fresca appena colta.
2) Prima di consumarla, dato che è un piatto crudo, va abbattuta. Quindi consiglio di raccontarle delle cose noiosissime, tipo di quel record di trofei che avete fatto alla PlayStation, della cervicale di vostra zia, dei calciatori sconosciuti degli anni ’90 eccetera.
3) A questo punto potete fare la fica a fettine sottili e condirla con due cucchiai d’olio, del succo di limone e, se gradite, del pepe verde. Oppure del pepe rosso. Oppure del pepe nero. Oppure del pepe bianco. Oppure tutti insieme per ricreare la bandiera del Kenya.

RISVOLTINI PRIMAVERA
Qui è questione di gusti, io preferisco il risvoltino di jeans perché il rotolino è bello spesso, c’è chi invece preferisce il risvoltino di cotone o stoffa, più leggero e sottile. In ogni caso, l’importante è il ripieno del risvoltino:
– un po’ di raccapriccio e inestetismo tagliati a listarelle e saltati in padella
– unite la carne di polpaccio tagliata fine
– aggiungete dei germogli di mortacci soia
Riempite il risvoltino e friggetelo. Per dargli più sapore lascio un po’ la gamba ancora dentro il pantalone.

GRIGLIATA DI COGLIONI
Qui sono gusti per quanto riguarda il taglio: in genere a me i coglioni piace farmeli a fette belle grosse. Per farlo vado a leggere i commenti online alle notizie, garantisco che vengono delle belle fette di coglioni spesse che poi butto sulla brace con un po’ di rosmarino. La cottura è questione di gusti, anche se secondo me dev’essere fatta rigorosamente al sangue, quindi sgozzo personalmente un hater.

FREGNACCE DOLCI AL CIOCCOLATO
Questa è una variante delle fregnacce alla sabinese, un tipico primo dell’alto Lazio (fatto vero): queste che propongo sono invece uno sfizioso fine pasto o snack per la merenda.
Per le fregnacce mi rifornisco anche qui in televisione e le butto nell’olio bollente: quando si fanno croccanti e formano sulla superficie delle bolle, le tolgo e le asciugo nella carta igienica per asciugare un po’ il retrogusto di stronzate. Mentre si raffreddano faccio sciogliere il cioccolato con qualche frase carina. Una volta che è bello fuso per me, lo cospargo sulle fregnacce.

Buon appetito!

Non è che che ti serva un coltello per dividere la casa

Tra le stanze che ho visto durante la mia fase di ricerca (vedasi puntate precedenti della miniserie ‘Un gatto a Milano’) ce ne era una in un appartamento da dividere con altri due ragazzi e una ragazza.

Una cosa che mi aveva colpito in modo negativo era lo stato della cucina: l’inquilino che mi ha mostrato la casa si è giustificato dicendo che ero capitato nel giorno sbagliato: fossi passato il giorno dopo la visita della donna delle pulizie avrei trovato tutto in ordine. In pratica mi stava dicendo che non si prendevano la briga di lavare nemmeno un piatto usato perché tanto poi passava la colf.

C’è un’altra cosa che mi aveva colpito. È stato quando gli ho chiesto se avessero problemi se fosse capitato che il loro futuro inquilino concedesse ospitalità, breve, nella propria stanza, a una ragazza.

Lui mi ha risposto:
– Beh che mi parli di ragazzA già è positivo…perché sai com’è oggigiorno non si capisce più niente…come dire, sembra un fatto di moda…tutti vanno col ragazzO…Va be’, tu non sembri, ma comunque…Non è che siamo omofobi, eh, ma preferiremmo evitare…

Analizziamo un attimo il testo, partendo dalla fine.

Non è che siamo omofobi, eh.
Penso che viviamo in un mondo fantastico. Almeno stando alle continue precisazioni che si sentono: Non sono razzista eh, Non ho nulla contro. Nessuno discrimina gli altri, nessuno ha avversione per nessuno: nel mondo regnano pace&amore. Il dubbio che mi sorge è che se nessuno è razzista, com’è che mi sembra che in giro ci sia del razzismo? Non è che poi alla fine si scopre che il razzista sono io?

Ma andiamo più indietro nell’analisi del testo.

Va be’ tu non sembri.

Mi chiedo come dovrebbe essere uno che invece sembra. Magari parla agitando un po’ la mano e facendo più squillante la voce, dicendo cose tipo: Tezzzzoooro questa casa è un amore!. Non per deludere le convinzioni del mio non-futuro-coinquilino, non è che stiano sempre così le cose. Forse avrei potuto dirglielo e lasciarlo lì a meditare sulla vita di inganni che sinora avrà vissuto.

Ho lasciato per ultimo l’elefante nella stanza, l’argomento più evidente. Anche se di elefanti non ce ne erano, ma il mio non-futuro-coinquilino sembra avesse comunque un problema con le “proboscidi” (NON per omofobia, sia chiaro) nelle stanze.

Mi rendo conto sia una questione delicata, perché quando si tratta di questi argomenti alcuni replicano: uno avrà la libertà di decidere chi vuole o non vuole in casa?

Secondo me dovremmo prima chiarirci sul valore della libertà, che non è proprio da prendere sempre in senso assoluto: la libertà individuale, sacrosanta e sempre da tutelare, non può, a mio avviso, avere un’estensione tale da renderla immune dall’incrociare le libertà altrui e sfuggirne al giudizio, al controllo e, in certi casi, alla stigmatizzazione (ovviamente vale anche il viceversa per le libertà altrui verso le libertà del singolo).

In soldoni: esistono certe libertà che tu ti prendi (come quella di dire non voglio omosessuali in casa) che oltre a essere deprecabili secondo me rendono gli altri liberi di considerarti un coglione.

E non chiamateli coglionofobi: uno avrà pure la libertà di considerare gli altri dei coglioni, no?!


Tra l’altro, mi vien anche da dire che coloro che invocano la Libertà per giustificare il loro discriminare, sono gli stessi che invece con le libertà altrui – parliamo di libertà che non ledono diritti né impongono restrizioni della libertà di terzi, ovviamente – sono invece molto restrittivi, se non addirittura tali da assumere atteggiamenti censori.


Inoltre questi non pulivano la cucina per una settimana perché tanto passava la donna delle pulizie, quindi oltre a essere coglioni sono pure sozzi!

Non è che puoi usar l’olio di gomito per friggere

I grandi risultati a volte si ottengono per caso, in una serie di circostanze che concorrono insieme a creare una combinazione non pianificata.

Ieri sera ero parte di un amichevole convito a base di costolette suine, che si è pensato di concludere con un piatto nobile e sofisticato ma ricreativo del palato, cioè delle crespelle, cioè delle crêpes (per i più volgari).

Giacché sono una persona che non teme di sporcar le mani, soprattutto quando sono quelle altrui, mi sono offerto per dar un supporto al cuoco nella preparazione.

– Passami un piatto
– Eccolo
– Prendine anche un altro, forse mi servirà

Ne ho preso un altro che a un’occhiata attenta mi sono reso conto fosse unto, non so di cosa ma direi a occhio sostanze grassose miste – giacché c’erano striature di intensità cromatica differente.

Mi sono voltato, ho preso un foglio di rotolo da cucina appallottolato – volgarmente Scottecs – che giaceva inerte sul primo piatto che avevo messo da parte, ho sgrassato il piatto prima di passarlo sotto l’acqua poggiando distrattamente e malauguratamente lo Scottecs di nuovo sul primo piatto.

La persona ai fornelli, che non aveva assistito a tutto ciò, ha preso lo Scottecs appallottolato e l’ha usato per unger la padella.

Ahimè, quello Scottecs era stato in precedenza umettato con l’olio di semi per quello scopo! Ahimè la padella era stata unta quindi con le sostanze grassose ignote che erano sul piatto! Ahimè l’indomani ero chiamato a svegliarmi presto e io avevo solo 3 ore di sonno addosso dalla notte precedente!


L’ultimo pensiero era fuori contesto ma in quel momento mi era venuto in mente.


Era troppo tardi per intervenire, la prima crespella era già stata preparata in padella. Con forza e coraggio ho provveduto allora con l’assaggio: non è stato difficile trovare un volontario, nessuno si era accorto di ciò che avevo combinato.

– Ottima!

Un gran sollievo.

I commensali hanno gradito le crespelle con l’ingrediente segreto e debbo dire che anche io l’ho trovata molto gustosa, anche se me ne sono cibato per ultimo quando forse l’untume si era di molto dissolto: che io abbia comunque scoperto quel quid in più per insaporire un piatto tanto nobile e sofisticato che – davvero – in tanti anni nessuno ha migliorato in quanto non si può migliorare ciò che di suo è già tanto nobile e sofisticato?

Ahimè dopo una iniziale euforia accompagnata da sogni di fama e servitù della gleba al mio servizio ho realizzato che purtroppo mi era ignota la composizione della materia untuosa che ungeva, anzi, ungiueva, il piatto. Addio sogni di gloria!

Forse è destino che per noi comuni mortali certe cose debbano rimanere certe cose; solo per pochi attimi ci è concesso di tendere oltre per gettar uno sguardo, scostando timidi la tenda, verso un mondo sì nobile e sofisticato e prelibato e molto unto prima di tornare con i piedi per terra.

È avanzato un po’ di Scottecs:

Non è che il medico sia geloso delle proprie ricette

Mentre ero fermo in strada impegnato a lavarmi le fosse nasali, ho visto passarmi davanti una milanese.


Storia vera*, quando in farmacia sono andato a chiedere un prodotto specifico per questa operazione igienica la farmacista mi ha chiesto È per te? e io ho risposto È per il naso. Ehm cioè sì, per me.


* Tutte le mie storie sono vere ma questa essendo avvenuta in un momento passato rispetto al momento di questa storia appartiene a una verità diversa all’interno del continuum spazio-tempo.


L’ho subito identificata come milanese perché questa donna aveva degli evidenti tic e, soprattutto, dei taaac.

Indossava un basco francese, una camicia coreana, una gonna con fantasia scozzese, un cappotto british e delle calze parigine. Aveva uno stile geographic casual, l’ultimo grido – prima che poi morisse – della moda. Si sa infatti che Milano è Capitale della moda. Io invece col mio stile straccione sono stato accusato di secessionismo.

Inoltre aveva un naso aquilano: mi ha confessato infatti che gliel’ha rifatto un chirurgo abruzzese.

Era una persona molto interessante. Pronunciava Bowie “Bavui” ma non per ignoranza. Mi ha detto di essere una Femminista Quinto Livello (FQL), stadio in cui si squarcia l’ultimo velo di sopraffazione fallica e si pronunciano le cose un po’ come pare in reazione al conformismo catto-fascio-fessoscopic-borghese grammaticale.

– Povére le donné àncora lègate allà dittàtura maschilistà dell’àccento

ha esclamato mentre mi picchiava con un enorme fallo di gomma per aiutarmi a espiare i miei peccati.

Inoltre ha detto che in quanto FQL mangia solo cose di forma fallica, risolvendo l’insoluto complesso dell’invidia del pene interiorizzandolo prima tramite la digestione e poi ripudiandolo con la trasformazione in materia fecale.

Dopo questi piacevoli scambi di conversazione, mi ha proposto di andare a casa mia dove avrebbe cucinato per me. Io son rimasto perplesso: non dovrei essere io a cucinare per l’ospite?

– Questò sàrebbe chiaràmente sèssista in quantò espressìone del pènsiero maschìlista che vùole che una donnà senzà un uomò non sià in gradò nèmmeno di cucìnare per se stessà. Quindì per dimòstrar il còntrario io cucinèro per te.

ha detto con asprezza mentre provava a collegarmi i testicoli a una batteria per auto.

Dato che però questa è la mia rubrica di cucina, io qui propongo la mia ricetta della mia cotoletta che avrei servito alla milanese.


Che non è di forma fallica ma io le avrei dato l’osso della costoletta.


Ricetta cotoletta alla milanese
Ingredienti: 1 milanese 1 carne di vitello 1 uova 1 pane grattato 1 burro

1) Ricordatevi che per questa ricetta la carne non va assolutamente battuta. Quindi, lasciatela vincere. Se siete troppo orgogliosi andate al ristorante e lasciate perdere. Nella cucina gourmet non c’è posto per le primedonne (ma non ditelo alle Femministe V Livello).

1-bis) Una eccezione al non battere la carne deriva dal fatto che il diametro della fettina che avete potrebbe essere troppo spesso. E volentieri.

2) Sbattete le uova in una fondina. Prima però togliete la pistola! La polvere da sparo invece darà quel po’ di pepato all’uovo.

3) Intingete un pennellino nell’uovo e poi spennellate la carne. Non avendo un pennellino pulito ho usato quello con cui ho dato l’antiruggine al cancello. Dato che la carne contiene ferro, mi è sembrata una giusta precauzione.

4) Passate poi le fettine nel pangrattato. Non preoccupatevi se fate degli errori: sbagliando, si impana.

5) Mettete il burro in padella e chiedetegli spiegazioni. Una volta che si sarà chiarificato, buttate dentro le fettine e fatele friggere.

6) Quando la carne sembrerà d’orata, vorrà dire che avete usato la padella del pesce e ora anche la vostra cotoletta puzzerà come tale. Quindi potete toglierla e asciugarla con della carta assorbente. In alternativa prendete della carta tampax.

Molto semplice, come si può vedere.

Le cose nella realtà sono andate diversamente, purtroppo: la Femminista Quinto Livello nel tentativo di cucinare ha mandato a fuoco la cucina. Ha confessato di non esser pratica perché non ha mai cucinato in vita propria. Di solito è suo marito che cucina per lei.

– Sei sposata? Pensavo una FQL non si sposasse!
– Lo pènsavo anché io ma luì mi ha conquìstata. É un matèmatìco sessuomàne genìale. Ha scrittò un librò che si chìama Sposati e sii circonflessa, un trattàto sul kamàsutra algebrìco e l’usò deì vèttori. Sàpessi il suò vettorè qùando sto a pi grecò mezzì.
– Ah.

Poi prima di andarsene mi ha detto che per scusarsi per la cucina poteva farmela rifare da capo. Oppure offrirmi del sesso compensativo.


Il sesso compensativo è un’altissima forma di liberazione per la Femminista Quinto Livello: disobbligandosi nei confronti del maschio offrendo molto poco, lo umilia per la sua dipendenza fallica – il maschio dipende dal fallo per il suo piacere orgasmico – criticità che la FQL ha risolto da tempo utilizzando il fallo come strumento di diletto orgasmico non esclusivo e rimpiazzabile.


E niente, debbo dire che non è male il cibo crudista. È un po’ un fastidio sgranocchiare la pasta ma basta far finta che siano snacks.

Prima di andarsene mi ha anche lasciato delle caramelle falliche

Non è che il pugile non si lavi solo perché ha gettato la spugna

Salve, sono Gintoki, forse vi ricorderete di me per post come Non è che il palestrato riverente si alleni facendo le genuflessioni.

Sono andato in palestra a chiedere informazioni.

Quando sono entrato ho notato che mancava il pavimento. Ho pensato stessero in ristrutturazione, eppure quando c’ero passato davanti giorni addietro la struttura sembrava operativa. Che avessero deciso di chiudere sapendo del mio arrivo?

Prego? Mi fa la ragazza alla Reception
Ehm…siete aperti vero? Dico alludendo al non-pavimento
Sì sì, non farci caso
Un po’ difficile non farci caso (ri-alludo)…Comunque, posso avere delle informazioni?
Certo! Tanto per cominciare, questa è una palestra!
Ah e vedo che vi allenate nella simpatia
Prego?
Sì, dicevo sembra un posto simpatico…riguardo gli accessi?

E mi sventola davanti un foglio, dicendo che quelle sono le tariffe più basse di tutta Budapest.

Quando mi ha invitato a fare una ricognizione della palestra, ho capito il motivo di prezzi così stracciati. Anzi, straccioni.

I macchinari risalgono più o meno all’epoca Sovietica. Qualcuno è fuori servizio. Le barre di ferro dei sostegni dei tapis roulant sono così arrugginite che anche il batterio del tetano ha paura di prendersi il tetano. Le panche hanno i bordi smangiucchiati.

Ho detto che sarei ripassato. Magari insieme a qualche ispettore dell’ufficio igiene.

C’è un’altra palestra a 7 minuti a piedi da casa.
Non vi sono manco entrato perché la porta d’ingresso aveva i vetri così sporchi che non erano più trasparenti. Un foglio di carta scritto a penna indicava gli orari. Un cartello OPEN di quelli con le lucine a led verdi-blu-rosse che vendono i bengalesi era mezzo fulminato e recava la scritta PEN.
Se tanto mi dà tanto l’interno non doveva esser tanto curato.

C’è ancora un’altra palestra nella stessa zona. Questa è invece una di quelle iper professionali, con accesso solo tramite badge e scansione ottica, parcheggio riservato con taglio delle gomme di avvertimento quando non ti impegni abbastanza nell’allenamento.

Hanno una sorta di club fedeltà cui ci si può iscrivere. La presentazione sul sito sembra quella di una setta religiosa. In corsivo degli estratti:

  • Unisciti a noi e sarai un membro della comunità Life1. Saremo molto felici di darti il benvenuto tra noi.
  • Il nostro team ti ispirerà e motiverà a raggiungere i tuoi obiettivi di fitness.
  • Potrai essere un membro di una comunità energica e orientata al movimento.
  • Gli allenamenti regolari e il nostro gioioso team ti daranno la giusta energia.
  • I nostri club sono totalmente climatizzati e ricchi di luce naturale. L’ambiente è amichevole e confortevole.

Le macchine sono di ultima generazione, con schermo e connessione internet, allenamenti super personalizzati, con personal trainer così personal che ti seguono anche a casa per controllare se in cucina tu stia calibrando bene proteine e carboidrati.

La retta costa così tanto che credo alla fine sia semplice seguire un regime alimentare ferreo: se ti iscrivi non ti restano soldi per mangiare.

Infine, sempre nei paraggi, c’è una palestra di arti pugilistiche. Ma non so se sono pronto a essere tiranneggiato da un ex pugile magiaro come trainer. Non so perché ma l’idea non mi suona simpatica.

Quindi facciamo che per ora faccio footing sul lungoDanubio dietro casa.

Non è che la città più romantica sia Roma Antica

Mi è sempre difficile comunicare quale sia il mio rapporto con Budapest.

Esordisco sempre con “Tutto sommato non mi manca niente”, che è un po’ come assaggiare un piatto e dire Sì, non è insipido. Non vuol dire che però abbia quel tocco speciale che gli dà corpo e lo rende un qualcosa degno di nota.


Cosa mancherà? Sarà il cumino? Il croccante? Il cumino croccante? Sembra che nella cucina moderna contino soltanto queste due cose.


Ad essere sincero dove vivo ora non mi manca davvero nulla. Ho tutto il necessario a 5 minuti massimo di imprecazione.


Le distanze delle necessità le misuro in imprecazioni. Ad esempio, mi sveglio la mattina con la sensazione di avere della carta vetrata in gola e in casa non ho ovviamente lo spray alla propoli. Oppure se ce l’avevo è da buttare, perché i preparati farmaceutici sono sempre in confezioni maxi che vengono utilizzate al massimo per una settimana. Tutto il resto poi va a male.
La farmacia è a 4 minuti a piedi di imprecazioni.


Eppure, questa città non mi appassiona.

Sento di dirlo con cognizione di causa, facendo un confronto rispetto al periodo che ho trascorso a Roma.

La Capitale, premettiamo, al confronto con Budapest è un disagio continuo. La città sembra essere basata sulle emergenze.

Se piove, è un disagio. La città affonda, annega, sprofonda.

Se nevica 1 centimetro ogni 30 anni, sarà un disagio. La municipale chiede l’acquisto di motoslitte. Se non gliele comprano, saranno a disagio.

L’esistenza della municipale è un disagio per i Romani.

Se c’è vento, è un disagio perché qualcosa viene giù.

Se non c’è vento è un disagio perché lo smog ristagna.

Se passano gli uccelli migratori è un disagio perché la città si riempie di guano.

Se c’è il derby è un disagio. Quando non c’è il derby, la gente è a disagio.

La gente di Roma è disagiante.

Ma oltre al disagio la città ha anche degli aspetti negativi, su cui non mi soffermo perché occuperebbero troppo spazio.

Eppure Roma aveva per me un fascino particolare. La guardavo da ogni angolo incantandomi sempre. La osservavo da sopra e da sotto i suoi vestiti. Non ha la biancheria pulitissima, siamo onesti. Però ha un bel corpo.

Roma era bella, col caldo e col freddo, col sole e con la pioggia.

E questi apprezzamenti li dico con disinteresse: non ho nessun parente o amico nell’amministrazione comunale!

Io non so dove andrò a vivere in futuro. So che la mancanza di passione per la capitale ungherese sta un po’ tediando questo rapporto di convivenza. A volte mi accorgo di non guardarla più neanche. E lei forse ci rimane male. Si è appena rifatta un marciapiede dietro casa e io manco me ne sono accorto.

La verità è che sto vedendo un’altra città.
Non Roma, perché è una storia chiusa e non credo nelle minestre riscaldate. E poi non ho capito oggi come funzioni, se prima di voler andare a Roma bisogna dirlo a Peppe.

Penso che per la fine di quest’anno lascerò Budapest per fuggir da un’altra.

Non è che il commercialista ti inviti a rivolgerti a lui al grido di “Se hai bisogno fammi un fisco!”

È stata una settimana particolare.

Martedì ho contratto un virus intestinale che mi ha accompagnato per tutta l’ebdomada.
Anzi, lui ha contratto me: nel senso che andavo in giro tutto rattrappito su me stesso dal dolore.

Giovedì sono dovuto andare a Roma per affari.


Dire “affari” conferisce un certo tono autorevole.


Purtroppo son partito carico di buoni propositi e di enterogermina ma il risultato è stato un buco nell’acqua.

Venerdì mattina ho invece ricevuto una telefonata dall’ufficio postale che qualche giorno prima mi aveva respinto quando volevo chiudere un conto Bancopostaclick.

Ho pensato che si fossero pentiti o volessero profondersi in scuse o che altro. No. Il direttore mi comunicava che era stata sbloccata la pratica di conversione di un vecchio libretto postale che avevo fatto anni fa e di cui avevo dimenticato l’esistenza.

Così, insieme a un conto che volevo chiudere, ora mi ritrovavo anche con un libretto che non desideravo.

Sono andato all’ufficio postale per ritirare il nuovo libretto e ne ho approfittato per far presente la mia richiesta di chiusura del Bancoposta, chiedendo di parlare col direttore. Quest’ultimo mi ha ricevuto e mi ha spiegato:

– Allora, è vero che il bancoposta si può chiudere ovunque, ma, non avendo noi qui il fascicolo e dato che dobbiamo richiederlo e poi io debbo inviare la richiesta alle Poste, se in questi passaggi si perde qualcosa ne sono io responsabile nei confronti dell’utente…quindi, in genere, dico agli impiegati di sconsigliare tale procedura.

Tradotto: non voglio rotture di cazzo.

– Purtroppo, gli impiegati – ha proseguito – ecco, dovrebbero anche essere un po’ psicologi e capire chi hanno di fronte: alle persone anziane noi diciamo che una cosa non si può fare, senza impelagarci in spiegazioni lunghe e poco comprensibili per loro, ai giovani dovrebbero forse spiegare come stanno le cose…

Quindi sono anche stato trattato da anziano dall’impiegato.


Comunque alla fine mi ha fatto la richiesta di chiusura.


Più tardi, sempre di venerdì, ho ricevuto una proposta dalla Capa dell’ufficio finanza della mia vecchia società di Budapest. Una proposta che non so bene come valutare, perché fatico a comprendere come si possa conciliare con le normative fiscali italiane. Secondo la Capa sarebbe tutto normale, ma la Capa è ungherese e di normative fiscali italiane ne sa quanto me, cioè zero. Io in genere vado dal commercialista, chiedo “Debbo pagare?”, lui mi risponde “No, ci vediamo l’anno prossimo” e finisce tutto così. Sono un ignorante felice.


Con questo non voglio incentivare all’uso dell’ignoranza in campo fiscale e, d’altro canto, neanche io sono in realtà così ignorante in materia. Mi tengo aggiornato sullo stretto necessario, forse delle volte è troppo stretto o ti mette troppo alle strette.


Nel caso tornassi a Budapest il mio primo proposito sarebbe quello di evitare il ripetersi di pericolosi doppisensi con CR, già verificatisi in passato quando lei voleva il mio cannellone.

Si sa che Malizia è sotto le ascelle di chi se lo spruzza e che quindi il deviato sia io. Ma, quando le ho detto della proposta che mi avevano fatto, lei mi ha scritto:

Io volevo solo dirti che se vieni mi farebbe super piacere

Mi ha ricordato lo slogan di m3mango.

Non contenta, ha aggiunto – è tutto vero, che Zeus mi fulmini altrimenti –

mi farebbe piacere se venissi tanto

Non si può pensare di ricominciare con queste premesse.

Ho concluso la settimana quest’oggi dovendo constatare, ancora una volta, che Madre sia nel suo inconscio alquanto razzista e/o sessista.

Conosco una ragazza che vive al di sopra della Linea Gotica e che vedo quando posso, vista la distanza. Dopo aver riferito a Madre delle origini della fanciulla, lei ha commentato:

– Ah! Quindi sa cucinare i notoprodottotipico!
– Madre, si rende conto di cosa sta dicendo?
– Perché, cosa ho detto?
– Solo perché è donna allora cucina e solo perché è di quel posto sa fare i notoprodottotipico?
– Embé, cosa c’è di strano?
– È come se mi dicessero: Ehi, napoletano? Ah, pizza, mozzarella e spaghetti, eh?! Le par bello, Madre?
– Cosa hai mangiato ieri a pranzo?
– Spaghetti al pomodoro…
– Cosa hai mangiato ieri a cena?
– Mozzarella…
– Cosa mangiamo oggi?
– Spaghetti con le vongole…
– Ecco.

Non è che il monarca criticone dia opinioni perché è un re-censore

Un’amica mi ha chiesto il favore di lasciarle una recensione su Tripadvisor per il B&B che gestisce per conto di un amico.

Non essendoci mai stato nella suddetta struttura, se non per cordiali  e conviviali visite di cortesia, mi era quindi richiesto di inventare.

Dopo aver lottato con la mia morale sulla circostanza di contribuire ad alimentare il mercato di false recensioni online e aver convenuto che in fondo è una cosa che fanno anche gli altri quindi tanto vale farlo per chi conosci e sai che fa le cose per bene, classica giustificazione sempre in voga – tutti colpevoli, nessun colpevole -, ho messo a punto una bozza di recensione che vorrei sottoporre alla vostra attenzione.

Ho soggiornato per caso in questa struttura e ne sono rimasto piacevolmente colpito.

Alla reception sono gentili e disponibili: anche se non sono ammessi animali, al mio arrivo mi hanno consentito di tenere in camera il mio gatto a nove code.

Avrei preferito una stanza col bagno in camera, ma non era disponibile, così ho avuto la stanza col bagno in Comune. Ma ho trovato un po’ scomodo andare ogni volta al Municipio per le mie necessità.

Il lavandino perdeva. Poi ho fatto il tifo per lui e si è ripreso.

L’aria non è condizionata da nessuno.

Il wifi è libero e abbastanza veloce per vedere i film porno. Peccato durante il soggiorno io abbia trovato soltanto film dove i registi avevano inserito delle discutibili scene di “buffering” nel video.

Il letto è abbastanza comodo, anche se quando mi ci son sdraiato ha perso una vite. Non sapevo come rimetterla a posto e così ho passato la notte sveglio a interrogarmi sul senso della vite.

Per la colazione non ho assaggiato la cucina: mi sembrava un po’ dura da sgranocchiare.

Il parcheggio non è custodito, cosa che mi son trovato a constatare quando ho preso l’auto per andarmene.
Fortuna che ero arrivato a piedi.

Non è che per dividere casa serva tener conto del quoziente (d’intelligenza)

Non ho più riportato aggiornamenti sulla mia situazione domestica perché sostanzialmente non ce ne sono.

Io e la nuova coinquilina abbiamo un sano rapporto di completa separazione casalinga. Che è quel che in fin dei conti desideravo. Convenevoli quali buongiorno e buonasera, qualche conversazione oziosa come quando mi ha parlato delle cose che la divertono degli italiani. Le stesse cose che allietano tutto il resto del mondo e ci identificano come popolo folkloristico.

Mi riferisco alla nostra proverbiale teatralità: Che cosa vuoi?! Che cazzo dici?!, accompagnate da ampi gesti delle mani.


Ho sempre trovato questo cartone di un umorismo abbastanza discutibile. Ben si adatta all’epoca odierna in cui tutti si sentono fini umoristi o uomini di satira perché come dei bulli di quartiere pigliano per il culo chiunque.
Myspace -> Tutti musicisti
Blog -> Tutti scrittori
Social Network -> Tutti Bill Hicks?


E poi, con mia sorpresa, mi ha chiesto anche di una bestemmia che diciamo sempre. Non quella suina ma quella canina. Italiano: lo stai imparando bene.

Con la coinquilina cinese la situazione aveva invece preso una piega strana. Troppo intima, se vogliamo.

A volte c’era una familiarità tale che mi sembrava di avere in casa una moglie. Eccezion fatta per l’assenza di qualsiasi tipo di contatto.


Il che quindi è proprio come avere una moglie.


Una moglie poco sveglia che dimenticava sempre di spegnere i riscaldamenti prima di uscir di casa.
Così poi arrivò una bolletta da far saltare le coronarie. Le sue, perché l’avrei impiccata al calorifero in quel momento.


Si scherza.
Io sono per evitare sofferenze. Quindi, una morte più veloce.


Poi era simpaticamente “invadente”. Se guardavo un film nell’area comune veniva a chiedermi cosa stessi guardando, commentando sempre tutto con un Uh, sembra interessante, sia che stessi guardando una minchiata che qualcosa di più serio. Se cucinavo, si piantava vicino a guardare, chiedendomi cosa facessi passo passo.

Il che delle volte mi avrebbe ispirato un commento del tipo Ma una porzione di fatti tuoi te la sai cucinare?, commento che ovviamente tenevo per me, limitandomi ad allontanarla fingendo di avere un disturbo autistico che mi porta ad andare in agitazione se osservato mentre cucino, al suon di Please, don’t watch me.


Potrei dare l’immagine di un tipo forastico (o furestico come diciamo al Sud).
È sbagliato.
Non è un’immagine, io sono proprio così. Posso essere tanto giocoso ed espansivo così come scorbutico quando mi gira male.


La nuova coinquilina invece è praticamente invisibile.
Si comporta come un topo. Esce dalla stanza solo per cibarsi per 5 minuti. Per due settimane non ha fatto altro che nutrirsi di yogurt e cereali, intervallati con qualche uovo o un cetriolo crudo.

Ho pensato che seguisse una qualche corrente alimentare di cui non ero a conoscenza, tipo quella dei breakfastiani, cioè quelli che consumano solo colazioni.
Ormai tutto è possibile. Io un giorno volevo fare una battuta dicendo che prima o poi avremmo avuto quelli che si nutrivano di aria. Dimenticavo l’esistenza invece dei respiriani.
È facile scordarsene perché io non ho mai visto un respiriano vivo.


Perciò, me ne guardo bene dal prendere in giro abitudini alimentari altrui. Che ne sappiamo che non possano esistere, ad esempio, i carboniani? Quelli che, dato che gli esseri viventi sono fondati sul carbonio, ritengono opportuno approvvigionarsi direttamente dalla fonte e che quindi si nutrono di blocchi di grafite? Ha un senso, anzi, da domani mi farò promotore della dieta della matita HB.


Poi mi ha detto che è semplicemente troppo pigra per cucinare e lavare i piatti e io sono rimasto deluso da ciò.

Credo sia molto disordinata. Almeno a giudicare dal fatto che, una volta, stavo per accostare la porta della sua camera prima di mettermi ai fornelli (la stanza dà sulla cucina e non mi sembrava carino impestarla di soffritto dell’arrabbiata) e qualcosa opponeva resistenza. Era una palla di maglioni giusto in mezzo.
Mi sono allontanato prima che mi aggredissero.


Ho un rapporto conflittuale con i maglioni perché da bambino mi costringevano a mettere quelli che pizzicavano e stritolavano. Praticamente era come stare in una Vergine di Norimberga senza neanche il sollievo della morte per porre fine all’agonia.


Quindi novità non ce ne sono.

Il dizionario delle cose perdute – Il Subbuteo

Il calcio in punta di dito.
Non vi è nulla di più poetico di una simile frase per descrivere uno dei giochi più creativi che siano stati inventati: il Subbùteo, da me chiamato Subbutéo perché da piccolo una caduta dal seggiolone mi aveva spostato gli accenti.

Spingere col dito delle sagome di plastica per colpire un pallone. All’apparenza semplice, nella pratica molto difficile. Le prime volte nella porta farai finire pallone, omino e anche un pezzo di stoffa del campo.

E non c’era mica una tecnica sola per colpire gli omini. Si potevano dare effetti disparati a seconda dell’angolo di impatto del dito contro la base di plastica del giocatore.

Questo almeno è quanto era descritto nel manuale e quanto i giocatori professionisti presumo siano in grado di fare.

Io ho mandato più volte i giocatori a infrangersi contro il vetro della credenza della cucina. Perché mai giocare in cucina? Perché il tavolo era l’unico abbastanza grande da ospitare il campo di gioco, un telo di cotone verde delle dimensioni di un asciugamano di Giuliano Ferrara.

Dato che il panno veniva conservato piegato, una volta steso faceva tante pieghe da impedire la scorrevolezza del gioco. Così la soluzione era tenerlo teso e fermo con lo scotch.

Di partita in partita occorreva tenderlo sempre di più, col risultato che le linee dell’area di rigore erano curve. Un po’ come accade quando gioca la Juventus, che le aree risultano variabili.


Vorrei dire al popolo juventino che eventualmente legge che mi dispiace per la battuta. Ma in realtà non mi dispiace perché me ne sono compiaciuto, quindi sia apprezzata la mia sincerità!


Dalla gestione del campo comunque si vedeva il mio essere neofita nell’approccio al Subbuteo. I veri giocatori lo fissavano a una tavola, oltre a fare ricorso ad altri tipi di campo dal fondo gommato e arrotolabili.


Altolà sudore!

Gli omini del Subbuteo erano un’altra fonte di dannazione.

Le loro gambette secche e plasticose erano fragilissime e non parliamo di quelli schiacciati per errore sotto i piedi o sotto una mano. A metà campionato non avevi più una squadra, ma una truppa reduce dalla guerra. I più fortunati venivano rimessi in piedi con la colla, tutti gli altri avevano bendaggi di scotch, qualcuno, eroico, giocava invece da amputato con una sola gamba.

Dalla confezione base che acquistai io, nel lontano 1994, uscirono due squadre: i rossi e i blu. Doveva essere un retaggio di Guerra Fredda. Il catalogo illustrava quali squadre (reali) erano associabili agli omini in tuo possesso. Ad esempio, banalmente, se acquistavi la Juventus gli omini potevano rappresentare anche il Cesena, l’Udinese, il Nola e così via per tutte le squadre bianconere di questo mondo. Inutile dire che i rossi e i blu rappresentavano per lo più squadre sfigate, a parte, con molta fantasia, volerli associare a formazioni più blasonate.

Lo acquistai per 60mila lire dell’epoca, un’enormità. Ed ero conscio di essere l’unico ad avercelo, quindi mi sarei dovuto allenare in solitaria.

Almeno così credevo, perché poi scoprii che un mio amico che abitava a 300 metri da casa mia aveva da anni il Subbuteo. Così due-tre volte alla settimana ci vedevamo per giocare, con regole vaghe e astratte e uno stile di gioco molto confusionario che non seguiva la regola dei turni e dei tre tocchi ma era giocato in “real time”, che rendeva la partita molto faticosa perché era un continuo correre intorno al tavolo.


Il regolamento del vecchio Subbuteo prevedeva che ogni omino – ufficialmente e pretenziosamente definito “miniatura” – potesse toccare il pallone al massimo per tre volte consecutive. Poi il possesso era perso a meno che il pallone non toccasse un’altra miniatura della squadra.


Il mio amico era molto affezionato al set del Napoli 89-90 maglia rossa (anche se quella delle miniature era color salmone), quello del secondo scudetto, acquistato non so dove.

I possibili acquisti per espandere il proprio mondo Subbuteo non si limitavano soltanto alle squadre.

C’erano tanti optional, upgrade, aggiunte più o meno utili a disposizione. Il mio sogno era arrivare, pezzo per pezzo, a costruirmi uno stadio, con tanto di riflettori (funzionanti) per sfide in notturna.

Questo era l’impianto più semplice e old style, poi esistevano curve e tribune più moderne

Non mi fu permesso di inseguire questo sogno perché con quello che sarebbe costato potevo costruirmi uno stadio vero. E, inoltre, l’unico rivenditore di materiale per Subbuteo nella mia zona era un ciarlatano. Per mesi continuò a dirmi che i numeri adesivi da attaccare dietro gli omini, che io cercavo con insistenza, sarebbero arrivati, ma non fu mai così.

Gli unici upgrade che mi concessi furono un set di palloni nuovi, griffati Umbro, e gli omini per battere rimesse e calci d’angolo. I palloni si resero necessari perché quelli di serie, oltre che troppo leggeri, erano poco solidi e sul più bello si aprivano a metà come cocomeri. Gli omini delle battute (che non erano comici), funzionavano banalmente a molla o col principio della leva (datemi una leva e vi batterò un calcio d’angolo, diceva il filosofo) ed erano un lusso più che altro.

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Quelli che fanno la ola sono gli omini delle rimesse, quelli che sembrano scivolare su una buccia di banana sono gli omini dei calci d’angolo

Cos’è poi accaduto al Subbuteo come gioco?
È successo che, dopo essere stato popolarissimo tra ’70 e ’80, negli anni ’90, come per tutte le cose cui mi sono avvicinato io, ha iniziato ad andare in crisi.


La sfiga di essere parte di una generazione cronologicamente metà e metà.


La Hasbro rilevò l’azienda produttrice, riducendo però il parco squadre e mandando infine il Subbuteo in pensione nel 2000. La ditta Edilio Parodi di Genova (la stessa che per anni ha distribuito in Italia il Meccano), verso la fine degli anni ’90 intanto aveva iniziato a distribuire lo Zeugo (gioco, in genovese), praticamente lo stesso Subbuteo sotto altro nome. La Hasbro ha tentato di far ricomparire più volte il Subbuteo, con operazioni di mercato discutibili: prima vendendo le squadre come fossero figurine in edicola, poi sostituendo gli omini con degli orribili cartonati che riproducevano i calciatori famosi.

In Italia oggi esiste un movimento di appassionati del Subbuteo old school che organizza anche tornei. Ma sono sempre meno e si tratta di nostalgici che ormai vanno per i quaranta e anche più. I pochi giovani che vi si avvicinano spesso sono figli di questi nostalgici, mentre le nuove generazioni spesso non hanno alcun interesse, oltre ad avere una difficoltà di reperibilità del materiale. Senza contare le dispute tra puristi del tipo di gioco, causa le tante versioni dello stesso ormai presenti, che frammentano ancor di più lo scenario.

Non è che da ubriaco puoi sentirti onnipotente solo perché sei ebbro di-vino

Questa sera si è tenuta la cena di Natale tra colleghi.

Ho sempre un problema con queste occasioni.

Lo scorso anno evitai quella tra colleghi dell’ex ex lavoro (cioè due lavori fa): in primo luogo, ero così depresso dal lavoro corrente di quel periodo (cioè l’ex lavoro) da sentirmi allegro come un abete dopo l’Epifania.

In secondo luogo, era più una rimpatriata tra ammogliati/fidanzati, dove sarei stato l’unico single, a meno di non raccattare una accompagnatrice in pochi giorni. Ahimè, quella che diventerà l’ex rancorosa l’avrei incontrata solo una decina di giorni dopo.

Declinai l’invito.

L’anno precedente, però, quando ancora lavoravo per ex ex lavoro, ci andai.
Non fu un granché.

In primo luogo, era una cena buffet.
L’idea è anche simpatica, ma se fornisci pietanze che vanno tagliate, spiegami come si fa a consumarle in piedi.
La soluzione che adottai fu quella fantozziana: ingoio intero.
Non vi dico i virtuosismi con le salsicce.

In secondo luogo, quella sera fu una delle occasioni in cui tentai di violare il mio codice di condotta che mi impedisce di fare avances a donne facenti parte di luoghi abitualmente da me frequentati.
Era da giorni che mi ero interessato a una collega e decisi che quella sera sarebbe stata l’occasione giusta.

Nel momento in cui partì la musica, ebbro di vino, mi appropinquai al centro della sala baldanzoso e anche un po’ Baldan Bembo. Le presi la mano per invitarla a danzare e lì per lì mi lanciai in un baciamano.
Vidi lo sconcerto nei suoi occhi simile all’espressione che assunse Luke quando Darth Vader gli disse I am your father. Poi non so che accadde ma si volatilizzò e non la vidi più per due ore, cioè fino a quando non fu il momento di andare via.

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Ironia della sorte, ero stato io ad andarla a prendere e io che dovevo riaccompagnarla.

Ancora non so perché mi venne fuori un approccio che era già fuori moda nel ‘700: ricordo che prima di uscire di casa avevo guardato il mio cappotto e pensai “Toh, sembro uscito da un romanzo russo”. Forse l’alcool aveva ripescato quel pensiero e lo aveva riformulato a modo suo.

A parte queste sciocchezze, comunque, il motivo per cui non amo questo tipo di cene è il fatto che non mi trovo a mio agio con persone che conosco poco o non conosco affatto.

Non riesco a fare il simpatico, ad animare il pubblico o a essere partecipativo: semplicemente, taccio. Ma non per vergogna o altro: il silenzio e l’ascolto mi sembrano naturali.

Ciò che mi mette in difficoltà è invece il fatto che gli altri si possano interrogare sui miei silenzi e fare congetture.

Da un po’ di tempo a questa parte ho però smesso di preoccuparmene: se sono gli altri a porsi il problema, perché dovrei caricarmene poi io?

A maggior ragione non me ne sono preoccupato questa sera: visto che parlavano quasi tutto il tempo in ungherese, io avevo ben diritto di tacere!


Sono ingiusto. Ogni tanto qualcuno traduceva in inglese o mi coinvolgeva. Poi a fine cena sono partiti a parlare di figli e cazzate su fb (mi hanno spiegato dopo oppure ho afferrato qualche parola) e lì mi sono sforzato di pensare a cose che mi tenessero sveglio per non cascare con la testa sul bicchierino della Pàlinka, la grappa ungherese.


E poi ero troppo preoccupato dal guardarmi le spalle da Aranka Mekkanica, la quale però non ha usato nessun tiro mancino nei miei confronti, forse perché non avrebbe potuto davanti agli occhi altrui. Loro non conoscono, evidentemente, la sua natura malvagia e io ahimé non so come rivelarla.

Ma io so.
Oggi in ufficio me ne ha fatta un’altra.

Stavo andando nella cucina (un ripostiglio con un frigo, un microonde e una macchinetta per l’espresso), apro la porta e me la trovo davanti che mi fa “Buuuh!”. Chissà da quanto tempo era appostata lì dietro aspettando il mio arrivo.

A proposito di cucina, questa sera mentre stavo per uscire e recarmi alla cena, la CC mi ha bloccato dicendo “Oh, fermate che te scatto ‘na foto”.
E perché mai, chiedo io.
“Ma come, così te ricordi de sta cena, namo su non me fa perde tempo che già me girano i cojoni, secondo me sto in preciclo”.

Certo, il ricordo è mio ma il perché tu la scatti col tuo smartphone mi sfugge.

Ho sempre un problema con le foto: non so come pormi, non so sorridere, non so fare nulla.
Allora adotto la posa Oscar Wilde, perché un punto d’appoggio è la cosa più rassicurante che esista.

dinner

E a quel punto debbo ancora stupirmi degli approcci d’antan?