Sono stato a quadri prima di te, però ora diamoci un taglio

Salve, sono il Gintoki di Carnevale, difatti in questi giorni sono vestito da gatto con gli stivali. Forse vi ricorderete di me per post come Nel martedì grasso per me solo magre figure.

In quell’articolo, rievocando alcuni miei travestimenti passati, ne ho citato uno: quello da cowboy. Pur ricordandolo come uno dei meglio riusciti, ero stato abbastanza severo nel giudicarlo. Quale è stata la mia sorpresa, facendo ordine nella libreria, nel ritrovare la foto riferita proprio a quel costume. Le foto degli altri Carnevale non so dove siano e non mi interessa, penso che se mai le ritrovassi le distruggerei per non lasciare in giro materiale che mi renda ricattabile.

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Se escludiamo il jeans a vita altissima ascellare (anche i cowboy avranno avuto i loro anni ’80) era in effetti proprio un bel travestimento.

Più che altro mi interrogo sul perché mai io avessi un taglio di capelli come il bambino di Simpatiche canaglie

Il cancello rosso a casa non c’è più, sostituito perché stava cadendo. E non a pezzi, stava proprio rischiando di cadere, si reggeva col fil di ferro.

Non c’è più neanche la siepe di abeti che si intravede nel giardino del vicino. Per anni, ogni dicembre, mio padre la sera ne tagliuzzava qualche rametto che sarebbe finito nel presepe a fare da alberello.

Sto comunque divagando: il dato sul quale si è focalizzata la mia attenzione è la camicia a quadri (tra l’altro palesemente troppo grande per la mia misura, ma come si dice in questi casi il cowboy deve crescerci dentro): questo prova in maniera indiscutibile che io indossavo quadri prima che poi divenisse appannaggio odierno di tizi con barbe e baffi a fantasia: eh sì, all’epoca invece eravamo in era grunge, ma essendo io a quel tempo troppo piccolo non mi si può tacciar di esser modaiuolo!

Quale è oggi la mia frustrazione sfoggiando barba e quadri, e in questo mi sento di convididere lo stato d’animo del poliedrico ysingrinus, nell’esser accostato a giovani dal dubbio senso estetico.

Giusto ieri, a proposito, ho ricevuto apprezzamenti per la cura della mia barba da parte di una commessa di uno stand a una festa del cioccolato. Forse tentava solo di agganciarmi con qualche blandizia per indurmi a comprare qualcosa. La sua collega, non cogliendo forse la sottile mossa di marketing, ha invece sentenziato che gli uomini stian male con la barba. La collega ha replicato dicendo che gli uomini senza barba si chiaman donne.

Io ho seguito la scena senza proferir verbo, aspettando che mi offrissero qualcosa da assaggiare, così come infatti è stato.

Cioccolata e complimenti fan sempre piacere ed era ora che qualcuno notasse la cura da me profusa verso il pelo: per una barba lunga occorrono pettine e shampoo se non si vuol ricrear l’effetto vello di capra rupestre che ahimé vedo spesso in giro.

Comunque senza falsa modestia vorrei dire che ero proprio un bel bambino (fatta eccezione per il taglio di capelli), il che mi induce a pensare che la natura conceda un unico periodo nella vita dedicato a un gradevole aspetto esteriore: col risultato che in giro poi si vedono begli adulti che da bambini invece eran brutti, bei bambini che da adulti sì insomma diciamo un tipo ma anche no.

Quantomeno credo oggi di avere un taglio di capelli migliore, il che mi dà spunto per pensare a un altro problema tipico dell’infanzia, dopo i costumi di Carnevale imposti: i tagli di capelli imposti dai genitori o, ancor peggio, tagli di capelli improvvisati in casa con risultati catastrofici.

Nel martedì grasso per me solo magre figure

Ho sempre avuto un rapporto di odio e amore con le festività e il Carnevale, che si sta avvicinando, non fa eccezione. Le mie difficoltà nell’approcciarmi a tale festa nascono da anni di umiliazione a causa di una tradizione di tale periodo: il travestimento.

In genere da bambino ti travesti da ciò che hanno deciso per te i tuoi genitori: salvo poi, col passare degli anni, ottenere la possibilità di poter contrattare ed esprimere una preferenza. La cosa non mi ha preservato l’amor proprio dalla frustrazione per i motivi che andrò a spiegare in questo post.

Il primo costume di cui ho memoria, risalente ai tempi dell’asilo, fu da fungo. Amanita muscaria, per la precisione, solo che ovviamente all’epoca non sapevo si chiamasse amanita muscaria e che fosse più letale di un comizio di Scilipoti. Il motivo per cui nell’immaginario collettivo infantile qualcuno abbia diffuso un fungo velenosissimo come rappresentante del mondo dei miceti mi sfugge. Così come mi sfugge perché mai un bambino debba travestirsi da fungo!

Il costume era interamente fatto in casa, compreso il cappello, fatto di cartone e ricoperto di stoffa. Dato che ottenere una cupola tonda di cartone era alquanto complicato, il risultato fu che io in testa avevo un cappello a cono. Ero un fungo cinese, appena colto da una risaia.


Alle elementari ricordo due costumi ben riusciti: moschettiere, con tanto di baffetto a riccio fatto col mascara, e cowboy. Sorvoliamo che però il cowboy andava in giro con un anacronistico jeans, non tanto per il pantalone, che esisteva all’epoca, ma per l’enorme targhetta della marca che di sicuro non c’era all’epoca di Jesse James.

In quarta elementare volli vestirmi da Tartaruga Ninja. Da Leonardo, per la precisione, perché era quello più serio e coraggioso. Ciò che volevo, in realtà, era il costume preconfezionato che vendevano nei negozi di giocattoli e del quale la pubblicità durante Bim Bum Bam mi aveva fatto il lavaggio del cervello. Ovviamente non lo ottenni, anche perché, secondo i miei genitori, non era aderente alla realtà. Tanto per cominciare, aveva il guscio marrone, mentre avrebbe dovuto essere verde scuro.

La soluzione fai-da-te non mi sembrava molto più somigliante: un cuscino verde attaccato alla schiena. Ripeto, avevo un cuscino verde attaccato alla schiena. Ero un ninja del pisolino. Il piastrone davanti era invece un rettangolo di stoffa arancione cucito sul torace.

L’anno dopo chiesi Wolverine, ma per dignità mi rifiutai di andare in giro in mutande e calzamaglia, così quello fu un costume morto appena dopo il parto. L’annoso problema dei supereroi che non hanno ben capito che la biancheria intima vada sotto e non sopra. Anche il mio eroe, nel vecchio style Marvel, soffriva di tale incomprensione.

In prima media fu l’ultima volta che mi travestii. Credo di averlo già raccontato, ero un bravo di Don Rodrigo. Il costume constava di: camicia bianca con le maniche a sbuffo, un gilet di stoffa marrone, un pantalone di velluto a righine color muschio esausto al quale fu attaccato lateralmente un nastro dorato, soprascarpe di panno marrone che davano l’illusione di un paio di stivaletti. Una retina in testa, una sciabola di plastica e un pizzetto disegnato a matita completavano il quadro. Non era neanche malaccio, anche se più che un bravo sembravo un cartomante di un circo gitano. Peccato che nessuno mi riconoscesse.
– Chi sei?
– Un bravo di Don Rodrigo.
– Ah.
Fui infine moralmente demolito da una compagna che, indicandomi col dito sentenzioso, disse
– Ma stasera alla festa vieni così?

A quel punto dissi basta.

Voi avete storie di travestimenti imbarazzanti?

(A proposito di carnevale, beccatevi un po’ di ska-punk)