Durante il primo periodo di lockdown – ormai mi sembra chiaro si possa parlare di primo lockdown alludendo alla presenza di un secondo – facevo molto esercizio fisico a casa. Durante un allenamento con gli obliqui mi sono beccato – forse muovendomi in fretta o a freddo – una contrattura al trapezio molto dolorosa.
Da allora ho iniziato ad avere dolori alla base del collo, che comparivano sporadicamente e se ne andavano dopo qualche giorno.
L’altro giorno sono deciso ad andare da un osteopata, dopo mesi.
È stato come quando chiami un tecnico per un problema in casa o quando porti l’auto dal meccanico e quello comincia ad alzare sempre più la posta: «No ma questo è un danno almeno di 200, 300, 400 euro, se non 5-600».
Mi ha trovato un difetto di qua, uno di là, poi un quadricipite ha un diametro inferiore all’altro, poi l’appoggio dell’alluce ha questo, d’altronde la posizione della lingua dall’altro lato, ecc.
Gli ho detto «Ok, sono da buttare, quindi?».
Se uno ti fa un quadro della situazione in cui ogni parte di te o è storta o fuoriposto o ipotonica qualche dubbio ti viene. Io poi soffro della cosiddetta sindrome dell’impostore, che si declina anche per quel che riguarda il mio corpo: praticamente sto in piedi solo perché la natura non si è accorta che sono darwinisticamente sacrificabile.
«No no, il 95% delle persone che ho visto nella mia carriera hanno problemi posturali».
E io più che pensare al fatto di rientrare in una maggioranza bulgara e sentirmi un caso molto comune, mi sono chiesto quel 5% che non ha problemi perché mai è andato da un osteopata? Non ha altro da fare?
Terzo appuntamento del corso di napoletano facile tenuto da me e crisalide. Da oggi sarà presente anche in edicola: e se il vostro edicolante non ce l’ha, rimproveratelo in modo aspro denunciando un complotto dei poteri forti.
La parola di oggi è: intalliarsi. Detto anche intallearsi o ‘ntalliare, non ha niente a che fare con la tecnica artistica dell’intaglio. Con questo termine si indica invece l’indugiare, il perder tempo, il ciondolare in modo pretestuoso senza far ciò che si deve.
Non si tratta di un mero ozio né è equiparabile con l’abbandonarsi su un divano a poltrire. Questo ultimo, infatti, è un semplice atto passivo.
Intalliarsi richiede invece un’azione concreta e attiva da parte dell’individuo, tal dal distoglierlo dalle attività da compiere.
Immaginate di avere un appuntamento a un orario preciso. Voi arrivate di corsa in anticipo, mentre c’è sempre quello che si presenta con comodo, perché ci mette un’ora per essere pronto:
mette i vestiti sul letto
accende la radio
si fa la doccia
dopo la doccia resta a guardarsi allo specchio grattandosi come una scimmia
va in cucina a farsi uno spuntino
torna in bagno: se è maschio decide di cagare, se è femmina si mette con la pinzetta a togliersi dei peletti invisibili e isolati sparsi sul corpo che nota soltanto lei
mette i pantaloni
cambia musica
cambia pantaloni
si mette a ballare
torna in bagno per cagare di nuovo o per strappare altri peli
termina di vestirsi
prima di uscire telefona a qualcuno e resta mezz’ora al telefono
Questa è una tipica sequenza di intalliamiento. E se vi capita spesso di fare cose del genere, siete degli intalliatori. Compiacetevene, perché in fondo è una vera filosofia di vita.
I gatti sono capaci di intalliarsi per ore
Intalliarsi è un atto di ribellione verso l’ordine costituito: spesso eludere un’attività può comportare un dispendio di tempo ed energie superiore a quello richiesto dal compito da svolgere. Ma a chi si intallea non importa, fondamentale è scansare momentaneamente qualcosa perché “Lo faccio quando decido io, non quando mi viene imposto”.
Intalliarsi non ha solo l’accezione negativa di scansare le fatiche.
Vuol dire anche prendere la vita in modo rilassato. Probabilmente è una cosa tipicamente meridionale, anzi, mediterranea: significa non vivere lo stress delle scadenze e non considerare il tempo solo ed esclusivamente come denaro.
A me non è mai capitato di intalliarmi quando ho un appuntamento, anzi, ho la malattia dell’anticipo. Purtroppo.
“La vita di un puntuale è un inferno di solitudini immeritate” (Stefano Benni).
In compenso, mi intalleo quando ho delle scadenze per le cose da fare. Mi riduco sempre all’ultimo, perché nel mentre intraprendo altre attività e non sento alcuna pressione per il tempo che scorre.
Avere a che fare con chi si intallea può avere risvolti positivi: penso alla scena classica di una ragazza che giocherella con le chiavi prima di scendere dall’auto. Si sta intalliando perché magari ha piacere a restare con voi. Buon segno!
Se invece ha le chiavi in mano prima di salire sull’auto e si getta dal finestrino a motore ancora acceso…beh, di sicuro non si intallea e dovreste chiedervi il perché.
Etimologia
Le origini sono sconosciute. Qualcuno lo fa risalire al greco antico, al verbo θάλλω (tallo), ipotesi non assurda in quanto nel dialetto non è raro trovare influenze del greco. θάλλω vuol dire fiorire, il che farebbe riferimento in modo figurato all’atto di chi si si pianta in un posto e non si smuove, anzi, mette radici e frutti.
Un salto logico forse azzardato.
Una seconda ipotesi vorrebbe che fosse un composto latino in+talos (talloni): star sui talloni, nel senso di esser statici. Oppure, potrebbe indicare l’atteggiamento di chi ciondola e gioca stando in equilibrio sui talloni e poi sulle punte e poi di nuovo sui talloni. Interpretazione più compatibile con un comportamento attivo e perditempo.
Qualunque sia l’origine, mi sto intalleando invece di congedarmi da questo post.
Mi è sempre difficile comunicare quale sia il mio rapporto con Budapest.
Esordisco sempre con “Tutto sommato non mi manca niente”, che è un po’ come assaggiare un piatto e dire Sì, non è insipido. Non vuol dire che però abbia quel tocco speciale che gli dà corpo e lo rende un qualcosa degno di nota.
Cosa mancherà? Sarà il cumino? Il croccante? Il cumino croccante? Sembra che nella cucina moderna contino soltanto queste due cose.
Ad essere sincero dove vivo ora non mi manca davvero nulla. Ho tutto il necessario a 5 minuti massimo di imprecazione.
Le distanze delle necessità le misuro in imprecazioni. Ad esempio, mi sveglio la mattina con la sensazione di avere della carta vetrata in gola e in casa non ho ovviamente lo spray alla propoli. Oppure se ce l’avevo è da buttare, perché i preparati farmaceutici sono sempre in confezioni maxi che vengono utilizzate al massimo per una settimana. Tutto il resto poi va a male.
La farmacia è a 4 minuti a piedi di imprecazioni.
Eppure, questa città non mi appassiona.
Sento di dirlo con cognizione di causa, facendo un confronto rispetto al periodo che ho trascorso a Roma.
La Capitale, premettiamo, al confronto con Budapest è un disagio continuo. La città sembra essere basata sulle emergenze.
Se piove, è un disagio. La città affonda, annega, sprofonda.
Se nevica 1 centimetro ogni 30 anni, sarà un disagio. La municipale chiede l’acquisto di motoslitte. Se non gliele comprano, saranno a disagio.
L’esistenza della municipale è un disagio per i Romani.
Se c’è vento, è un disagio perché qualcosa viene giù.
Se non c’è vento è un disagio perché lo smog ristagna.
Se passano gli uccelli migratori è un disagio perché la città si riempie di guano.
Se c’è il derby è un disagio. Quando non c’è il derby, la gente è a disagio.
La gente di Roma è disagiante.
Ma oltre al disagio la città ha anche degli aspetti negativi, su cui non mi soffermo perché occuperebbero troppo spazio.
Eppure Roma aveva per me un fascino particolare. La guardavo da ogni angolo incantandomi sempre. La osservavo da sopra e da sotto i suoi vestiti. Non ha la biancheria pulitissima, siamo onesti. Però ha un bel corpo.
Roma era bella, col caldo e col freddo, col sole e con la pioggia.
E questi apprezzamenti li dico con disinteresse: non ho nessun parente o amico nell’amministrazione comunale!
Io non so dove andrò a vivere in futuro. So che la mancanza di passione per la capitale ungherese sta un po’ tediando questo rapporto di convivenza. A volte mi accorgo di non guardarla più neanche. E lei forse ci rimane male. Si è appena rifatta un marciapiede dietro casa e io manco me ne sono accorto.
La verità è che sto vedendo un’altra città.
Non Roma, perché è una storia chiusa e non credo nelle minestre riscaldate. E poi non ho capito oggi come funzioni, se prima di voler andare a Roma bisogna dirlo a Peppe.
Penso che per la fine di quest’anno lascerò Budapest per fuggir da un’altra.
Quando il dito indica la Luna, l’estetista ti lima l’unghia (Proverbio cinese).
Stavo attraversando il centro commerciale verso la stazione della metropolitana, quando una promoter mi si è parata davanti con in mano un piatto di quelli che sembravano bastoncini di caramelle gommose.
Ne ho presa una e stavo per mettermela in bocca, ignorando il vecchio adagio materno con cui sono stato cresciuto, come tanti altri, secondo il quale non vanno accettate caramelle dagli sconosciuti perché contengono la droga.
Dopo tanti anni avessi incontrato mai qualcuno pronto a offrirmi della droga gratis, per di più nell’appagante apparenza di un dolciume.
– Non si mangia! È sapone!
Mi ha bloccato la promoter.
A me continua a sembrare una caramella gommosa, anche la consistenza al tatto è simile:
È stato in quel momento di esitazione di fronte al mio stupore che sono stato agganciato e condotto verso il bancone.
Mi ha fatto provare tutto il campionario di prodotti, il sale del Mar Nero, il burro, le creme.
Tutte cose che dal nome sembrano edibili ma non lo sono, altra pubblicità ingannevole.
E io la lasciavo fare perché, come Totò in uno sketch, mi chiedevo Chissà dove vuole arrivare.
Se davvero sperava che comprassi qualcosa – basta guardarmi per capire il contrario soprattutto per prodotti cosmetici – deve essere alla frutta o, più probabilmente, ero l’unico a essere caduto nel tranello della caramella/sapone.
Alla fine avevo le mani così cariche di olezzi stucchevoli che sembrava le avessi infilate nel deretano di un unicorno arcobaleno. Non potrò compiere una rapina – non che ne abbia l’intenzione – per anni perché rintracciabile dalla scia.
Dove la solerte addetta ha dato poi il massimo nel decantare le meraviglie dei propri prodotti è stato quando mi ha mostrato una scatola regalo natalizia, “perfetta per la madre/sorella/fidanzata”.
Io già qui diffiderei di un prodotto così generico, senza contare la componente freudiana di un regalo adatto sia per la partner che per la propria madre.
La scatola conteneva: una lima per le unghie, una lozione per il corpo e una boccettina di un liquido sconosciuto che, come prova dimostrativa, lei mi ha applicato su un’unghia.
– Cos’è?
– È olio per cuticole
– Eh?
– Lascia fare, la tua ragazza sicuramente lo conosce e lo usa
Non so se in inglese esista un “Lascia fare”, ho semplicemente aggiunto questa locuzione alla frase, dando voce alla sua espressione del viso che diceva “Non soffermarti su cose che non puoi comprendere”.
Non ho dubbi che altri lo conoscano e mi dolgo della mia ignoranza, ma sono sconcertato da questa rivelazione sull’esistenza dell’olio per cuticole.
Esiste un prodotto per qualsiasi parte del corpo.
Probabilmente sono tutti composti dagli stessi ingredienti base, soltanto che al posto di un olio universale è meglio averne tanti specifici. Non sia mai che ci si confonda, magari il giorno in cui va applicato sui peli pubici per la sua azione sebosquirtante è quello destinato invece alle ascelle per l’effetto dermoterminatore. Invece la differenziazione aiuta a seguire il calendario cosmetico.
E dire che per tanti anni ero legato semplicemente alla dicotomia sapone-shampoo come unica dimensione della pulizia corporea. E non ci si poteva confondere.
Poi da quando sono barbuto ho iniziato a comprare lo shampoo per la barba, perché mi hanno detto che quello per capelli non è adatto ed è per questa debolezza che oggi secondo me provano a vendermi altre cose, le caramelle non c’entrano.
Delle volte mi ritrovo, cogitabondo, allegro come un dipinto nero di Goya.
Las pinturas negras (le pitture nere), sono una serie di dipinti che Francisco Goya realizzò, tra il 1819 e il 1823, nella sua abitazione, da lui denominata Quinta del sordo. I dipinti, realizzati direttamente sull’intonaco delle mura della casa, sono caratterizzati da temi macabri e angoscianti, oltre che dalla predominanza di colori quali il marrone e il nero.
Rivango il passato. Sono un mezzadro di pensieri.
Rivedo cose che ho perso. Cose che non ho fatto. Cose che ho fatto e potevo non fare. E il tempo non si può riavvolgere: ci vorrebbe una penna BIC enorme.
Una cosa che i nativi dei ’90 non hanno conosciuto:
Va da sé che era una gran rottura. Il romanticismo nostalgico per alcune cose del passato è delle volte ingiustificato. Per non parlare della improvvida smagnetizzazione della musicassetta o del walkman che, quando le pile stavano per esaurirsi, cominciava a girare a velocità ridotta trasformando Jon Bon Jovi in un canto gregoriano.
A volte mi sento perso come un personaggio di un romanzo russo.
Sì, L’Idiota.
Irrequieto, turbato, incline a un esaurimento per una forte emozione. E con la voglia di scaldare acqua in un samovar.
Che fine ha fatto la letteratura russa, oggi? Credo dopo Arcipelago gulag di Solženicyn non sia salito più nulla alla ribalta letteraria. Che non ci siano più autori di qualità (considerando ciò che si vede pubblicato, mi sembra difficile pensare che in un Paese esista un livello così scadente da non varcare i confini nazionali)? Che non vengano tradotti?
Tanto per cambiare, il giorno seguente questi rivolgimenti cerebrali – che già andavano avanti da qualche giorno – mi sono poi svegliato con la colite. Testa e corpo sono collegati e il malessere dell’una si riflette sull’altro. Dicono che abbiamo un secondo cervello nell’intestino.
Anche se credo alcune persone abbiano un secondo intestino nel cervello.
Quando ero bambino il dolore era tale che mi costringeva a stare piegato in due tutto il giorno. A volte mi piegavo anche in quattro. Ero un bimbo cubista.
Ora da adulto provo sollievo se tengo le mani premute sull’addome. Solo che se mi affaccio al balcone pensano che voglia spezzare le reni alla Grecia.
Non sono andato al lavoro. Tanto siamo inattivi, in questi giorni, mancando richieste.
E poi avrò tutto il tempo di questo mondo per andarci ancora. Almeno sino a 75 anni, dicono, ma io ambisco ad arrivare oltre. Non mi avranno mai come pensionato: a costo di vivere 90 anni, lavorerò sino all’ultimo respiro. Devo solo trovare il modo di farmi fare Papa.
Al mio ritorno quest’oggi in ufficio, ho trovato CR preda anch’essa di turbe mentali. Ha litigato con l’Ingrugnito e quindi ho ascoltato per un’ora le sue paturnie sentimentali.
Sono sempre disponibile per fornire un supporto. Soprattutto quando non ho vie di fuga.
Ho deciso che nel prossimo post condividerò quelli che sono stati i pareri che le ho fornito: chissà che non possano venir utili anche a chi dovesse trovarsi a vivere la stessa situazione. La situazione di chi ascolta, intendo.
Oggi ho conosciuto la madre di CR. È passata in ufficio da noi.
Sono rimasto sorpreso dall’incredibile somiglianza tra le due. Mi hanno sempre incuriosito quelle coppie madre-figlia dove la prima tende ad assomigliare alla seconda, accentuando la cosa imitando stile, trucco, acconciature. O forse è la figlia che tende a imitare la madre. O forse è una convergenza spontanea e naturale verso l’assottigliamento della barriera generazionale. Non ho mai capito come funzioni la cosa.
Beninteso, non è che una madre debba vestirsi come una nonna, non si parla di questo. Il discorso verte su quella che è una ricercata somiglianza estetica che enfatizza/estremizza ciò che la genetica ha posto nei tratti somatici.
Non è una cosa che sento mi debba riguardare – credo si tratti di accoppiate felici, o almeno spero – ma un’osservazione l’ho fatta lo stesso. Ho notato che le figlie con una madre amica/sorella/imitatrice tendono a essere più competitive delle altre donne. Spesso è la madre stessa che le pungola come un addestratore di dobermann da combattimento.
Non dimenticherò mai la prima volta che vidi a scuola la madre di una mia compagna di classe. A parte lo shock perché pensavo fosse la sorella maggiore, rimasi colpito da come fosse più stizzosa e nevrotica della figlia. Tratti caratteriali accentuati sicuramente dal torto subìto dalla sua epigona, che aveva ricevuto un voto inferiore a quello di una compagna, sgarbo che richiedeva una spiegazione (o forse un regolamento di conti).
La seconda cosa che ho notato, probabilmente connessa alla prima, è che questo tipo di ragazza tende a essere ipercritica ed esigente.
Che si tratti di un travaso del peso del rapporto con la madre verso gli altri rapporti?
Vorrei aver studiato psicologia per potere sparare una sentenza.
Non mi ricordo chi diceva che gli psicologi hanno una grande sfiga: non possono vedere il loro oggetto di studio. Un archeologo può vedere un reperto Maya. Un medico può vedere un corpo. Un politologo può vedere un politico anche se non sempre, dipende dalla percentuale di assenteismo. Uno psicologo non può vedere una mente.
Essendo io figlio maschio e con dei non risolti conflitti con la propria di madre, non sono in grado di comprendere questo fenomeno.
La mia cultura sull’argomento consta, oltre che di osservazioni di soggetti da me conosciuti, della visione di materiale didattico quale Gilmore Girls anni addietro.
La domanda sorge spontanea: guardavi Gilmore Girls?
La risposta è Ni. A casa i miei lo guardavano e ogni tanto buttavo un occhio anche io quando compariva il protagonista maschile, perché mi era simpatico: grezzo, scorbutico, sempre con camicie a quadri indosso e proprietario di un pick up. È il genere di 40enne che spero di diventare un giorno.
Mi manca solo il pick up e spero che per allora avrò i soldi per comprarne uno.
Chi storce il naso dovrebbe pensare alla versatile funzionalità di un pick up. Ad esempio è utile per trasportare i figli: basta metterli nel cassone dove potranno muoversi e fare casino lasciando guidatore e passeggero anteriore tranquilli.
E ora, in stile Intervallo della RAI (qui si può ascoltare il file audio), una carrellata di camicie a quadri direttamente da Gilmore Girls.
In questa pagina c’è il dizionario in costruzione. Se volete suggerire elementi nostalgici o, anzi, se volete scrivere voi stessi un articolo su una cosa “perduta” per arricchire il dizionario, fatevi avanti (col corpo) e indietro (con la mente)!
L’Atari ha tolto la verginità videoludica a molti futuri videogiocatori. Io non ho fatto eccezione.
Una precisazione è doverosa: io, come molti altri, non ho avuto un vero Atari ma uno dei tanti cloni dell’Atari 2600 messi in commercio a partire dalla metà degli anni ’80. Il mio, oltre a funzionare con le cartucce originali Atari, aveva una ROM all’interno con preinstallati un centinaio di titoli.
Il suo aspetto era quello della foto qui sotto:
Playstation…I am your father!
Sembra uscito da Guerre Stellari ep. IV. La linea squadrata, marziale e total black di questo scatolone di plastica deve essere stata progettata da Darth Vader.
Lo scatolone era completamente vuoto: c’era all’interno solo questo circuito stampato largo più o meno quanto la striscia grigia, mentre tutto il resto dell’armatura non conteneva nulla.
Il joystick era legnoso e anchilosato e dalla scarsa longevità: dopo un po’ i contatti interni (delle lamine di alluminio che a seconda di dove veniva spostata la cloche facevano contatto inviando il segnale alla CPU) si danneggiarono irrimediabilmente e dopo un primo tentativo da parte di mio padre di ripristinarli con il saldatore, si decise di sostituirli con altri joystick comprati in un negozio di elettronica che da anni ha chiuso i battenti, sopraffatto dalla grande distribuzione organizzata.
Ricordo ancora quando acquistai il clone una 20ina di anni fa. L’ipermercato dove i miei genitori andavano a fare la consueta spesa del sabato un giorno all’ingresso espose questa montagna di console in vendita a 34900 lire. La gente ne faceva incetta.
Oggi quell’ipermercato non esiste più. All’epoca faceva parte di una catena italiana, poi fu rilevato da Carrefour. Quando il colosso francese aprì un nuovo punto vendita in un nuovo, enorme, centro commerciale costruito poco lontano negli anni ‘2000, cedette l’ipermercato, che passò al gruppo SPAR. La crisi si abbatté sull’attività, la direzione decise di chiudere, licenziò lavoratori e mise in cassa integrazione gli altri. Attualmente è ancora chiuso. Di una vasta area che negli anni ’90 comprendeva l’ipermercato, una galleria commerciale, un grande punto vendita Brico e un Mercatone Uno, oggi rimangono solo strutture abbandonate che il tempo sta consumando.
Io e mio padre restammo lì a guardare chiedendoci se fosse possibile che costasse realmente 34900 lire e, dopo essercene accertati, lo prendemmo.
Il principio di funzionamento era molto semplice: lo scatolone si collegava alla tv tramite il cavo dell’antenna e uno switcher (lo scatolino antenna<->game nella foto) avrebbe bypassato il segnale. Era però necessario trovare il canale sul quale il segnale della console si sarebbe agganciato e questa cosa, all’inizio, fu fonte di molte invocazioni al dio Anubi da parte di mio padre.
I 128 giochi precaricati non erano selezionabili autonomamente: bisognava far partire la ricerca sequenziale (spostando una delle levette sulla console) che faceva scorrere tutti i giochi, che in genere rimanevano sullo schermo un paio di secondi. Dovevi essere lesto a bloccare la ricerca nel momento in cui compariva il gioco che cercavi. Se sbagliavi il tempismo, dovevi ricominciare da capo. Era un gioco nel gioco: delle volte ho dovuto farlo per quattro volte consecutive prima di riuscire a bloccare la leva su ciò che volevo.
Le cartucce le compravo al prezzo di 9000 lire da un Tutto a 1000 lire sul corso principale della mia città. Era uno dei primi negozi di questo tipo che vidi comparire e quando aprì vi entrammo curiosi di scoprire se tutto fosse realmente in vendita a 1000 lire. La risposta era, ovviamente: NO.
Non so per quale mistero quel negozio avesse delle cartucce originali Atari. Non erano molte, e le teneva in un cestone di vimini come quello che si usa a Natale per i pacchi dono. Ogni 3-4 mesi compariva qualche titolo nuovo al suo interno. Il fatto che rimanessero lì nel cestone i titoli che scartavo mi lasciava pensare che io fossi l’unico acquirente in tutta la città.
È inutile precisare che anche quel negozio non esiste più.
La vita del mio clone si spense per ben due volte: avevo un amico distratto (lo stesso che giocava con me a Subbuteo), che inciampava sempre nel cavo di alimentazione. Un giorno lo strattone fu talmente forte che il jack dell’alimentatore staccò un piccolo tondino di alluminio dall’ingresso della console. Non essendoci più contatto elettrico, non funzionò più.
Padre riuscì a sistemarla con un lavoro certosino di nastro adesivo. Nonostante altri inciampi, da parte dello stesso amico e anche di altri, resistette lo stesso. Molti amici, nonostante fossero in possesso di computer performanti (per l’epoca) e in grado di supportare videogiochi ben più evoluti (quelli dell’Atari erano vecchi di 10-15 anni), subivano il fascino di quello scatolone nero.
Mandai in pensione la console quando la sostituii con un clone del Nintendo 8 bit.
Ironia della sorte, negli anni ’80 era stata proprio la Nintendo la principale avversaria di Atari, con vari scontri d’affari, battaglie di mercato, tentativi di collaborazione non portati a termine che alla fine videro sempre soccombere la Atari nei confronti del colosso nipponico. Dopo varie vicissitudini, acquisizioni da parte di altre società, ridimensionamenti e ripetute crisi, nel 2013 la divisione statunitense Atari ha dichiarato ufficialmente bancarotta.
La leggenda della sepoltura nel deserto – La Atari si è resa protagonista di quella che per molti anni è stata ritenuta una leggenda metropolitana: la sepoltura di migliaia e migliaia di cartucce di giochi invenduti nel deserto del New Mexico.
Tra i giochi sepolti, il quantitativo principale era costituito da quello che è stato considerato come il più brutto videogioco mai creato dall’uomo: ET l’extraterrestre (ironico che sia finito occultato proprio nel New Mexico, lo stesso deserto dove si raccontava che fosse precipitato un UFO con degli alieni all’interno), di cui allego un video del gameplay:
Il gioco andava avanti così all’infinito: non succedeva nulla, non si capiva cosa dovesse succedere e non si sapeva come farlo succedere.
Le cartucce invendute o ritirare dal mercato giacevano nei magazzini Atari: dato che ciò per un’azienda comporta un costo, dai vertici ritennero opportuno che la soluzione più economica fosse smaltirle seppellendole in una discarica.
Per anni si è pensato che questa fosse solo una diceria, finché nel 2014 sono state realmente rinvenute le cartucce sepolte:
A differenza di altre cose perdute, i videogiochi di un tempo hanno ancora il loro pubblico di estimatori e il retrogaming, appunto la passione per i giochi old style, è molto popolare su internet. Esistono diversi siti che permettono di giocare online ai vecchi giochi Atari. Archive.org ha messo a disposizione una vasta libreria di titoli.
Avverto una certa stanchezza nello scrivere sul blog.
Più che altro non so cosa scrivere. Non ho ben chiaro di cosa io possa parlare, ammesso che ci sia qualcosa di cui io sia in grado di parlare.
Non è un mistero che io sia abbastanza chiuso e, pur raccontando a volte cose personali – che, tra l’altro, sono una parte molto piccola di tutte le mie cose personali -, non ne trasmetto alcuna componente emotiva.
Ma io non so affatto come si parli delle proprie emozioni.
Non mi è mai stato chiaro come si comunichino e a scuola nessuno me lo ha insegnato.
I temi in classe dal contenuto emotivo venivano da me costantemente evasi. Ho già citato quella volta in cui, in risposta alla traccia Racconta di come è stato chiedere l’aiuto di qualcuno io ho risposto Non ho mai chiesto l’aiuto di nessuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo.
Per non parlare di quando la traccia chiedeva di raccontare del rapporto con il proprio padre e io ho narrato di quando mi ha riparato la mia console Atari 2600. Avendo cura, però, di sottolineare che fu fatto con tanto amore.
Come si parla di emozioni?
Prendiamo una ragazza. Una che vi interessa. Se siete donne, fingete di essere amiche di Saffo.
Cosa dovrei dire al riguardo? Come è bello riuscire a captare almeno di sfuggita il profumo dei suoi capelli? Non stiamo parlando dei capelli appena lavati, perché quello è il profumo dello shampoo: è un po’ ridicolo instaurare una corrispondenza di amorosi sensi col Pantene.
Io parlo dei capelli uno-due giorni dopo lo shampoo, che non sono sporchi né sanno di Federica Pellegrini a una sfilata: ovviamente non si tratta di una ragazza che ha appena fatto la maratona di New York, sennò i capelli al massimo ricorderanno l’olio di semi di girasole.
Ecco, chiamatemi feticista, ma il capello uno-due giorni dopo ha un odore particolare. Quello mi piace molto.
E la bocca?
Senza rossetto, perché quello è una maschera. Il labbro non deve essere coperto: voglio coglierne i movimenti al naturale. Prima sottile, poi gonfio, poi teso, poi stretto, poi largo.
Sì, certo: noi maschi siamo più interessati alle grandi labbra, meglio dire le cose come stanno e non essere ipocriti.
Ma i movimenti della bocca non ci sfuggono, comunque.
Il seno è un caso a parte. Ci sono diverse scuole di pensiero che non ho mai frequentato perché sono autodidatta. Negli ultimi anni mi sono soffermato ad analizzare la forma del reggiseno, perché rivela molte cose sulla persona che lo indossa. C’è quello che spinge, quello che costringe, quello che riempie, quello che dà una forma.
Amo la donna che ha bisogno di una forma. Cerca una identità, forse insicura di quella che è in possesso e io, che ho il complesso musicale del supereroe, vorrei tanto infondere sicurezza.
Mi accorgo di essere già sceso in basso.
In tutti i sensi. Purtroppo le distrazioni capitano, anche quando si è intenti a contemplare il viso.
Finisco sempre per dimenticare quanti muscoli facciali abbiamo. Cerco di ricordarmene ogni volta che osservo le espressioni sul volto di una ragazza, anche quelle involontarie. Mi son sentito dire che “faccio paura”, per la mia perspicacia nel cogliere gli stati d’animo.
No no, non voglio millantare doti che non ho. Non ho perspicacia. Ti guardo e colgo le cose perché ti voglio, forse non è ben chiaro.
Fino a qui stiamo parlando di dettagli estetici e si potrebbe andare avanti ancora a lungo.
Non ho parlato del culo, ad esempio.
Il culo non è mai da sottovalutare: è come un’opinione, ognuno ha la propria. E, come disse Voltaire, morirei affinché ognuno abbia il proprio culo.
Purtroppo io solo di dettagli estetici posso parlare. Non sono in grado di essere profondo.
Come si fa a descrivere la gelosia quando lei parla, ride, scherza, tocca qualcun altro e nel frattempo voi state pensando Ehi, parla, ridi, scherza, tocca me! e la cosa vi rode come un criceto?
Come si racconta la sofferenza che si prova quando vi dice Ieri sono uscita con Piercarolambo, e voi rimanete zitti, mica potete rispondere Ma che membro virile ci vai a fare con un Piercarolambo?. Magari si offende pure di fronte al vostro taciturnismo, perché si aspettava diceste Ah, sono contento che hai un Piercarolambo, mica si trovano tutti i giorni.
Come descrivere quella sensazione nel petto che si verifica quando ci si sente dire qualcosa che colpisce?
Forse, per dare l’idea, potremmo paragonarla all’effetto che si prova quando si ingerisce del peperoncino. Ma di quello piccante per davvero, non le schifezze da supermercato.
Io, per esempio, sono sensibile a certe cose.
A me una che mi dice che scrive poesie mi fa l’effetto del peperoncino nell’esofago e zone limitrofe. È un cliché? Certo. Il peperoncino è come le poesie: ormai è mainstream. Provate il wasabi, e poi mi direte. Quello vi prende in testa, non nel petto.
Io una volta mi son sentito dire che le donne le prendo di testa.
E certo. Mi chiamano Zidane.
Non è tanto bello. Insomma, non sono mica John Dorian*: ho pure un corpo. Non vorrei sembrare volgare, infatti non è mia intenzione esserlo, ma ci sono tante altre parti con cui prendere una donna.
* Mi riferisco al “Dottor Testa Volante”.
Insomma, come si parla di emozioni?
Fortuna che non ho più temi in classe da scrivere e nessuno me lo chiederà.
Sottotitolo: è così stancante dimenticare sempre le cose che alla sera arrivi a casa distratto.
Forse l’avrò già scritto, ma nel frattempo ho dimenticato di averlo fatto e quindi lo riscrivo. Ho la tendenza a distrarmi e dimenticare le cose. L’attimo prima mi sto dicendo “devo ricordarmi di fare questo”, l’attimo dopo il pensiero è stato azzerato.
Mi rincuora il fatto di essere sempre stato così sin da bambino, quindi gli episodi che mi capitano non sono segni di un deterioramento precoce delle facoltà mentali.
Ho l’abilità di andare a fare la spesa e comprare tutto tranne la cosa che mi serviva e che era il motivo per cui ero lì. Eppure ho un’alimentazione molto parca – parca miseria! – fatta di pasta, legumi, pesce, insalata e frutta, quindi non dovrebbe essere difficile tenere a mente la lista della spesa.
Purtroppo a rotazione ogni settimana dimentico invece di comprare uno degli alimenti citati.
L’andirivieni settimanale da Terra Stantìa a “Aaa Capitale” aumenta il rischio di dimenticanze. Mi è capitato di lasciare a casa
– asciugamani
– occhiali (più di una volta)
– lentine
– quaderno appunti
– chiavi (di casa a Terra Stantìa, per fortuna).
Sempre con la stessa modalità: una cosa a settimana.
In compenso non dimentico gli orari né itinerari/distanze/tempi di percorrenza. Appuntamenti, treni, aerei. Se viaggiate con me state certi di arrivare puntuali. Magari senza le valigie, che saranno rimaste indietro, però volete mettere la soddisfazione di arrivare all’aeroporto con la possibilità di sbrigare tutto con calma?
Per non rischiare di dimenticare cellulare, portafogli e fazzoletti (le cose che un maschio in genere porta in tasca), quando esco di casa mi esibisco in un balletto che è un misto tra la macarena e una perquisizione: mi tasto per verificare che il necessario sia al proprio posto.
Questa sera ho purtroppo invece lasciato il giubbetto di jeans in aula. Breve digressione sul giubbetto di jeans: è quel capo che porto in giro appollaiato sulla mia spalla o a peso morto sul mio avambraccio per prendere aria, dato che non lo indosso mai perché, pur col tempo variabile, fa sempre troppo caldo.
È la prova provata da test clinici che il capo da mezza stagione non esiste, perché o fa troppo freddo o fa troppo caldo per poterlo indossare.
Lo scopo di giubbetto di jeans a questo punto diventa quello di: posto in cui riporre le chiavi.
Bingo.
Giunto sotto casa mi sono posto una domanda, gettando un’occhiata al mio corpo: ma io non avevo un giubbetto con me?
Poi mi sono posto una seconda domanda: ma io le chiavi non le metto sempre nella tasca anteriore del suddetto giubbetto?
Fortunatamente Coinquilino era reperibile, mentre il prezioso reperto potrò recuperarlo domattina.
A meno che io non me ne dimentichi.
post scriptum: la cosa buffa è che veramente a casa ho due chitarre, scordate!
Qualche anno fa ascoltai una frase che mi colpì:
“Il corpo si può guardare quanto ci pare, ma bisogna pensarci due volte prima di guardare nel cuore”
È una frase fraintendibile, nel senso che si può pensare “ah, quindi vuoi guardarmi il culo o nella scollatura e basta?”.
In realtà io la intendo in modo diverso.
Il fatto è che il corpo è lì, è quello e basta. Lo si può cogliere con uno sguardo, è un atto molto semplice.
L’interiorità invece è complessa, articolata. È labirinti e stanze e scale e porte e complessità varie. E una volta entrati bisogna stare attenti a non mettere in disordine. E non è detto che ci si imbatta in cose piacevoli.
È questa la chiave di lettura che attribuisco alla frase. Bisogna riflettere prima di decidere di varcare o meno una soglia.
La cosa di fermarsi a guardare il fondoschiena mi fa tornare invece in mente un ricordo di anni fa.
Uscivo con M., eravamo agli inizi. Quando passeggiavamo, avevo a volte l’abitudine di lasciarla passare avanti. Non era per fare il galante a tutti i costi, cioè non era un gesto forzato. Veniva spontaneo. Una volta, invece, passando i tornelli di un parco divertimenti, entrai per primo. Lei esclamò: “Non mi fai passare? Non ti piace più il mio culo?”. Scoppio di risa di entrambi.
Sì, certo, il culo è bello. Ma io ho anche un interesse morboso verso l’interiorità altrui. Devo conoscere, sapere. È probabile che si tratti di una forma di pornografia, del resto mi faccio delle gran seghe mentali di fronte ai pensieri degli altri.
Si dice che l’onanismo sia un modo di scoprire sé stessi. Se stessi qui? Ci potremmo scoprire?
O forse è meglio smettere di cercare di varcare certe soglie. Una porta chiusa è una porta chiusa, inutile grattare le unghie fuori.
E adesso so che di te ho solo una scala mobile mare e sabbia che non conduce da alcuna parte.
Peccato.
Speravo che noi si potesse vederne l’uscita.
Io son rimasto lì.
Se mi vedessi
fuggiresti via e pianto l’unghie in terra l’argilla rossa
mi nasconde il viso ma vorrei
per un momento
stringerti a me qui sul mio petto ma non posso
fuggiresti
fuggiresti
via da me
Ma cosa c'è dentro un libro? Di solito ci sono delle parole che, se fossero messe tutte in fila su una riga sola, questa riga sarebbe lunga chilometri e per leggerla bisognerebbe camminare molto. (Bruno Munari)
Come quelle coperte, formate da tante pezze colorate, cucite insieme tra loro.
Tessuti diversi, di colore e materiale eterogeneo, uniti in un unico risultato finale: la coperta.
Così il mio blog, fatto di tanti aspetti della vita quotidiana, sempre la mia.