Non è che puoi mettere in frigo tutto ciò che vorresti conservare

Sono stato a Milano, lo scorso weekend. Erano quasi due anni che non ci tornavo, da quando l’ho lasciata il 18 Febbraio 2020. Inconsapevole tempismo: da lì a pochi giorni si scatenò quel che tutti sappiamo e stiamo vivendo. È da più o meno allora che non rivedevo le mie ex colleghe di lavoro. È stato bello passare del tempo con loro, per una sera chiacchierare, ridere, come non fosse passato un solo giorno.

Una di esse, mentre le altre erano via, mi ha poi confidato, a una mia domanda sui suoi programmi nell’immediato futuro, una brutta notizia. Son rimasto lì inebetito ad ascoltarla. Tutto quel che mi riusciva dire era Ah. Ok. Non immaginavo. L’avrò ripetuto in loop un paio di volte.

Poi ha cambiato argomento. È una persona sempre molto orgogliosa, ferrea nella tutela della propria privacy, intollerante a qualsiasi forma di preoccupazione empatica o partecipazione che odori di commiserazione. Il che mi ha reso impossibile recuperare, in pochi secondi, il discorso, cosa che era evidente non volesse, comunque.

Il dolore altrui è sempre un tema complesso da accettare. Non il dolore in sé, ovvio, ma il prendere coscienza che spesso non ci si può fare molto per risolverlo. Né il prossimo si aspetta d’altronde che tu gli risolva i problemi: non sei Gesùcristo, né Batman né il/la tizio/a che nei film di azione arriva all’ultimo e fa fuori il cattivo dicendo una battuta figa chiusa con “…figlio di puttana”.

Ma io invece, delle volte, vorrei esser solo un frigorifero. Riuscire a conservare le persone, e ciò che hanno caro, intatte, al riparo dalle ingiurie del tempo.