Non è che il meccanico stanco chieda il cambio

Tutto ha una fine.

Soltanto che non si pensa mai che arrivi.

Ho fatto un giro molto largo per tornare a casa. Sapevo che quando mi sarei fermato non ci saremmo più rivisti.

Sei stata la prima.

Abbiamo tanti ricordi insieme. Eppur la prima cosa che mi viene in mente è il sesso. Sono banale, lo so. Sedili posteriori. Sedili anteriori. Veloce (spesso), lento (talvolta).

Mi ricordo quella volta che, sul più bello, ti macchiasti di sangue. Succede, a volte si divertono a presentarsi non annunciate né invitate.

Tornai a casa col timore d’incrociare una volante: sai che buffo farsi vedere con delle macchie di sangue sui vestiti a mezzanotte lungo una statale buia e isolata?

Mi hai visto allegro. Mi hai visto triste. Mi hai visto né allegro né triste. Mi hai sentito dire cose indicibili che varrebbero il bando da tutte le religioni passate e presenti. Mi hai sentito fare discorsi personali che non ho fatto e non farei a nessuno.

Mi hai visto quando non vedevo l’ora di tornare a casa. Mi hai visto quando a casa non ci volevo tornare. E tu mi ci hai riportato.

Mi hai sentito cantare. Male.

Non ricordo la prima canzone che t’ho fatto sentire. Ricordo però di aver messo spesso questa qui quando mi comprai un lettore con altoparlante – uno degli acquisti più inutili mai fatti perché da lì a poco tutti i telefoni avrebbero avuto capacità e qualità per riprodurre musica. La mancanza dello stereo è sempre stata una grande disdetta, sorvoliamo:

 

Ho gusti migliori, eh, lo sai.

Però questa mi divertiva. Mi dava una certa carica. E poi sai che ho orecchio per il giapponese.

Ed è su questa canzone che ho deciso di far nascere Gintoki, qui.

E adesso tutto questo, tutti i ricordi insieme, dovrei farli piccoli piccoli e metterli in un taschino per portarli a un’altra? Assurdo. Mi fa strano. Mi fa triste.

È davvero brutto rottamare la propria prima auto. Grazie per tutti questi anni:

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Non è che il palestrato vada al negozio di animali per avere la tartaruga

Ogni anno, ad agosto, dai vicini arrivano i parenti dal Nord.

Hanno delle bambine rumorose, o meglio, sono state bambine rumorose per anni. Non so per quanti, a me sembravano a ogni estate sempre delle ottenni. Al che pensavo fossero bloccate da un incantesimo. O che ogni anno venissero sostituite con delle bambine di pari età.


Potrebbe essere un’idea: perché dovrei poi accettare di avere un giorno un adolescente puzzolente in casa, se non lo voglio? Una volta che il bimbo è cresciuto troppo lo baratto con il bambino di un altro che invece è stanco di aspettare che il figlio cresca.


A scanso di equivoci è meglio precisare che qui si sta scherzando, oggigiorno qualsiasi argomento è un campo minato*. Tutti si offendono di tutto. Rimpiango il mondo di qualche anno fa, fatto da poche categorie definite, che si sapeva di non dover offendere. Oppure di offendere per sentirsi meglio con sé stessi.


* A questo punto non posso non citare Luttazzi: La vita è un gigantesco campo minato e l’unico posto che non è un campo minato è il posto dove fanno le mine.


Adesso invece le bambine sono diventate adolescenti rumorose, di quelle che urlano contro i genitori come in un qualsiasi film italiano dove le donne urlano sempre anche per chiedere il sale.


In generale, c’è una scuola di pensiero nella recitazione italiana che prevede due modalità: il sussurrato e l’urlato.


Uno di questi giorni ho udito un litigio così acceso e furioso che non sapevo se chiamare la Polizia o la Comencini.

Si son portate dietro una tartaruga.
Il primo giorno l’hanno messa in giardino in un recinto, ma l’animale deve esserne uscito perché poi l’ha raggiunta un gatto e l’ha ribaltata.

Padre ha segnalato ai vicini il ribaltamento e da allora la tartaruga non l’hanno più messa in giardino. Fortunatamente non hanno avuto da ridire.

Già mi immaginavo di finire a Forum perché ho i gatti che ribaltano tartarughe altrui.

Non è che ti serva un tribunale per giudicare le apparenze

Una dottoressa doveva presentarsi a casa, per mio nonno, in un orario non ben precisato durante la mattinata. Doveva piazzargli sul torace un apparecchietto per un ECG dinamico, o Holter cardiaco.

Ore 13
Eeeergh! (il citofono)


Il citofono di casa suona come un falco cui stanno strappando le penne.


Mi affaccio. C’è una donna con la coda di cavallo alta.


La precisazione sulla coda non è rilevante ai fini della narrazione, ma mi è saltata all’occhio e mi ha fatto riflettere. C’è una distinzione tra la coda di cavallo moscia e bassa e quella alta ma non ne ho colto ancora tutte le connotazioni.


Ha una maglia bianca con lo scollo ombelicale e un paio di shorts di cotone a fiorellini. Ai piedi ha un paio di sandali con la zeppa di dieci centimetri.

– C’è Nonno Gintoki?
– Scusi, non ci serve nulla
– Ma…Io sono la dottoressa, per la misurazione
– Ah ehm oh eh sì certo scusi mi avevano detto eh sì eh di là altro cancello eh mi scusi

E poi ho continuato a balbettare tra me e me per l’imbarazzo della brutta figura.


Adesso mi piacerebbe introdurre una parte in cui la dottoressa ha reagito dicendo Oh ma non imbarazzarti così, può succedere…Oh ma ti vedo tutto rosso…Ti senti bene? Vuoi che visiti anche te? e via in un climax dall’indubbio fascino erotico, purtroppo non è andata così.


Non sono purtroppo immune dal giudicare dalla prima impressione. E mi vergogno di ciò.

Mi successe una cosa simile anni e anni fa, in un negozio. All’interno c’erano due donne: una spingeva un passeggino ed era in abbigliamento piuttosto informale, l’altra, seduta, in abiti più smart casual qualunque cosa voglia dire questa definizione.

Mi rivolsi alla donna seduta chiedendo il prodotto che cercavo.
Lei mi indicò l’altra donna, sottolineando che fosse la proprietaria. La donna smart casual poi riprese il passeggino, salutò e andò via.

Non avevo colto quindi che si fossero scambiate di posto per delle prove di spinta col passeggino.


È una cosa che ha senso. Prima di avere un figlio credo chiederò a qualcuno di farmi esercitare, così nel caso commettessi errori almeno li farei con figli altrui e non con il mio.


E un’altra volta, sempre in un negozio, mi capitò un altro equivoco.

Entro in una cartoleria. Dietro al bancone ci sono tre persone: un ragazzo, seduto, sulle cui ginocchia si dondola una ragazza. Un altro ragazzo, in piedi e con un braccio poggiato sul bancone, che parla coi due. I primi due hanno l’aria piuttosto spensierata, il terzo sembra serioso e autorevole.

Dopo un’occhiata veloce a tutti e tre, chiedo al tizio in piedi. Il quale mi indica di rivolgermi al tizio che dondola la ragazza.

Questi tre esempi mostrano quanto io sia uno che si fa influenzare dalle apparenze senza riflettere.

Non mi consola che gli equivoci accadano a chiunque, anzi mi deprime: il pensiero di essere stato vittima di false impressioni a mia volta mi getta nello sconforto. E io so che è successo ma non posso farci nulla.

O forse almeno potrei almeno gettare dal guardaroba maglie come questa che indubbiamente mi qualificano come un serio professionista, cosa che io non sono e quindi vorrei evitare:

How to train your Gintoki


Con la presente dichiaro chiusa la prima serie continua di titoli no-sense introdotti da “Non”.


Dovrei scrivere una bozza di budget e sono indeciso se scriverla durante questa notte e poi dormire in mattinata oppure dormire in mattinata e buttare giù (dal balcone) due sciocchezze nel tempo che mi resterà.

Ho già speso le mie energie mentali per risolvere un importante dilemma. Sulla pista di ballo c’è qualcosa di importante, oggi ne ho avuto conferma via mail. Chi mi ha mandato il messaggio mi ha pregato di scrivere alla Contessa Serbellons Mazzant Comesfromthesea (è anglofona), che leggeva in copia.

Dubbio: la Comesfromthesea è anglofona ma lavora in Italia. La mail che ha letto in copia era in italiano.

Le scrivo in italiano o in inglese? No, perché c’è una bella differenza.

Dopo essere andato agli allenamenti e non averci pensato affatto, tornato a casa ho deciso di scrivere in inglese.

Vedremo se il primo step è andato. Ne restano altri ed è difficile scacciare il demone del fallimento – che nella mia fantasia è impersonato da Charlie Brown – che mi dice Gin, ma tanto non ce la farai.

Charlie Brown e la sua sempiterna gioia di vivere

La cosa divertente è che se va in porto la cosa corro il rischio di trovarmi a essere seguito da un personaggio particolare che è entrato nella mia lista di personaggi particolari.

Tanto per cominciare, ha una certa somiglianza con l’ispettore Clouseau, giusto i baffi più folti. Sono rimasto però molto deluso quando ho fatto notare a tre persone la somiglianza e tutte e tre non avevano idea di chi fosse l’ispettore Clouseau. Ci sono rimasto male ma non perché non avessero compreso la mia battuta, ma per il buon ispettore che non capisco perché non debba essere ricordato.


Se anche voi, lettori, non avete presente chi sia e stavate aspettando una didascalia esplicativa, allora questa didascalia non vi fornirà informazioni didascaliche su di lui perché non le meritate, ecco.


La seconda caratteristica del personaggio è che parla in modo ampolloso e retorico e anche un po’ arcaico. Ad esempio, per dire che leggerà una frase da un libro, dirà che “Ho il piacere di condividere con voi questo passo che trovo pregevole”.

La terza caratteristica è che quando insegna ai corsi, dopo la prima lezione sceglie due volontari (i classici volontari involontari), uomo e donna, per far far loro delle flessioni. Terminata la performance, delizia anche lui il pubblico con delle flessioni.

Ed ha 65 anni, preciso.

La quarta caratteristica è che ha tre figli, uno adulto avuto dalla prima moglie, e due piccoli, di 4 e 8 anni, avuti dalla seconda.

Ed ha 65 anni, preciso.

Sono quindi inquietato e nell’insieme affascinato dall’idea di potermi trovare a gestire un qualsiasi tipo di rapporto professional-tutorale con un simile personaggio.

Ammesso che Charlie Brown sia d’accordo, anche se il fatto che sia un bambino lo costringe alla fine a soccombere. Sarebbe stato più complesso e ingestibile avere come demone del fallimento, non so, Darth Vader, Palpatine o Sauron, solo che loro non li associ al fallimento anche se poi alla fine perdono ma soltanto perché la lobby dei buoni ha deciso che deve essere così. Condividete se avete un lato oscuro!

Però delle volte in altri ambiti Charlie Brown vince lo stesso.

Non è che l’età avanza e tu puoi conservarla in frigo

Ci riflettevo questa sera dopo l’allenamento. Al corso ci sono dei ragazzi del ’96. 1996, non so se ci si rende conto della cosa. Da quand’è che sono maggiorenni quelli del 1996? Quando io facevo l’esame di maturità, presentandomi alla commissione con dei pantaloni hip hop enormi, un bracciale borchiato al polso e una catena al collo, costoro erano alle scuole elementari. Me li immagino, col grembiule, tutti un po’ impacciati coi loro zainetti colorati seduti in banchi minuscoli.

E ora pensare che in teoria io con una del 1996 potrei legalmente uscirci a cena.

Sì ma poi di cosa parleremmo? Degli 11 anni che si è persa perché non c’era? Io i primi miei 5 anni di vita non li ricordo mica bene.

Ricordo i festeggiamenti per il secondo scudetto del Napoli, che tra l’altro neanche avevo capito cosa fossero, pensavo si trattasse di una festa popolare o una sagra paesana o una festa paesana o una sagra popolare, insomma c’era questo sventolio di bandiere, fuochi d’artificio e gente per strada e tutto ciò che mi chiedevo era se si svolgesse ogni anno questa celebrazione perché le bandiere e i fuochi mi piacevano. Alla mia domanda Madre rispose “Se il Napoli vince pure l’anno prossimo, sì” e io tacqui ma non avevo mica capito bene cosa c’entrasse il Napoli con una festa di paese.

Ricordo il Muro di Berlino. Anche qui manco avevo compreso gli eventi e credevo che invece di buttarlo giù lo stessero costruendo.

Ricordo il mio primo giorno di scuola, in cui entrai in classe accompagnato da Madre che mi aveva istruito sull’importante prova cui ero chiamato: all’ingresso mi avrebbero detto “Come ti chiami?” e io avrei dovuto rispondere fornendo il mio nome e cognome. Insomma, come un gioco di spie, con frasi segrete e parole d’ordine. Ricordo mi si avvicinò questa signora occhialuta che mi ricordava un po’ Nonna Papera che si chinò e pronunciò la formula di rito, alla quale risposi evidentemente in modo corretto perché poi fece un segno su un foglio di carta. Pensai fosse una pensionata che faceva volontariato nella scuola svolgendo questi compiti di accoglienza – già da bimbetto avevo sviluppato il caustico cinismo che mi contraddistingue – ma poi scoprii che era la maestra di matematica ed era la più importante della triade di maestre che ci educava.

La maestra mi chiamava “chiapparié”: non ha nulla a che fare con le chiappe, tranquillizzatevi. I chiapparielli non sono altro che i capperi. Non so che cappero c’entrassi con i capperi io, forse sarà stato perché ero piccolino e scuro (poi con l’età mi son sbiancato, un po’ come Michael Jackson).

Dalla maestra ho ricevuto anche qualche scappellotto. Meritato, a dire il vero. Roba che oggi farebbe accorrere le telecamere del Tg5 nella “scuola degli orrori”, causerebbe il licenziamento della maestra e porterebbe le mamme a organizzare un flash mob al grido di “Nessuno tocchi il bambino”.

Dovrei raccontare questo a quelli del 1996? Manco sapevo della loro esistenza, pensavo ci fosse stato un blocco delle nascite negli anni ’90; dicono tutti che la popolazione invecchia ma io mica me ne sono reso conto di essere invecchiato.

Ho deciso, dall’anno prossimo cambio rotta, cambio stile, scopro l’anno bisestile.

E voi cosa raccontereste a quelli più giovani che si sono persi gli anni in cui non c’erano? O cosa vi fareste raccontare? O cosa mi raccontereste?

Non è che i dentisti che hai incontrato sono scarsi perché sono medici per-denti

Una volta alle elementari in classe tra noi maschi scoppiò la moda delle pistole-portachiavi. Alcune di esse avevano anche un tamburo funzionante dentro il quale inserire un colpo esplosivo, che faceva il botto e lasciava puzzo di polvere da sparo per una giornata intera.
Invidioso, perché il sentimento che più è diffuso tra i bambini è l’invidia, decisi che dovevo averne una anche io.


Un gruppo di bambini è come una comunità preistorica: nessuno desidera nulla, finché un giorno non arriva nel villaggio qualcuno con infilato un osso nel naso e da quel momento tutti vogliono l’osso da infilare nel naso.

A pensarci bene forse funziona così anche per gli adulti.


Dopo aver dato molto fastidio a casa per avere anche io un oggetto di così tanto valore simbolico, mi feci accompagnare al tabacchi vicino la scuola dove ne uscii con una pistola-portachiavi replica di un trombone da pirata, così grande che aveva spazio nel tamburo per ben tre colpi.

Il ‘ferro’ destò l’ammirazione dei miei compagni – uno esclamò Wà cu chest può accir’r n’ippopot’m! (Wow, con questa puoi uccidere un ippopotamo!) – e mi garantì ben 5 minuti di celebrità durante l’intervallo. Non bisogna sottovalutare quei 5 minuti in cui si è al centro dell’attenzione, perché rappresentano molto nella vita di un alunno delle elementari. La società bambinesca è una lama di rasoio sulla quale cammini ogni giorno. Un passo falso ed è game over: puoi squalificarti agli occhi altrui per un niente a causa di un brutto paio di scarpe o di una parola sbagliata. Uno per aver chiamato “mamma” la maestra – tipico lapsus freudiano – dovette sparire per qualche giorno dalla circolazione per la vergogna. Lui disse che era influenza, ma nessuno ci credette.

Ma capirete che è dura mantenere un proprio status sociale dignitoso quando gli eventi remano contro di te. Puoi contrattare con Madre i metri di distanza dal cancello della scuola cui lei deve rigidamente attenersi per salvaguardare la tua dignità ma è tutto inutile: all’orario di uscita, come un black bloc, lei ignorerà il cordone di sicurezza e si fionderà all’interno. Sono questi gli esempi che vogliamo dare ai nostri figli? Che i divieti non si rispettano?!

Aggiungiamo che, tra l’altro, ero anche il più piccolo essendo stato iscritto a scuola a 5 anni e mezzo. Quei 6 mesi in meno fanno la differenza, in 6 mesi ti possono anche spuntare baffi e basette. O i denti nuovi.

La permuta degli incisivi per me era un gap importante. Invidiavo i dentoni altrui, anche perché io manco più gli incisivi da latte avevo, avendo avuto un incontro ravvicinato muso-pavimento all’età di tre anni che mi ha fatto capire che non si salta sui divani.

In compenso negli anni successivi ho sempre avuto una dentatura perfetta, non ho dovuto mettere l’apparecchio e i denti del giudizio mi sono spuntati tutti senza problemi e quindi il tempo galantuomo mi ha compensato.

Non saranno mai famosi: l’Uomo delle assenze

Vorrei inaugurare una serie di post a periodicità sconclusionata dedicati a personaggi che ho incontrato nella mia vita che non hanno avuto alcun ruolo in particolare, non sono stati dei mentori, non hanno dato un contributo alla ricerca scientifica sulla calvizie maschile dei polpacci, non hanno lasciato alcun segno insomma ma mi sono rimasti impressi in qualche modo e, in fondo, li considero come degli eroi del loro campo.

Oggi parlo dell’Uomo delle assenze.

Durante le scuole medie, ogni giorno assistevamo all’ingresso in classe di questo personaggio che, con in mano un registro, passava a segnare le assenze. Tutti i giorni, per i tre anni che sono stato lì ho visto il ripetersi di questa identica scena:

Toc Toc
– Professoressa: Avanti
– Lui: Buongiorno. (pausa di un paio di secondi) Chi è assente?
– Professoressa: allora…(legge i nomi)
– Lui: (annota)
– Lui: Arrivederci
Fine.

Ho conosciuto la sua storia solo dopo aver finito la scuola.
Un tempo era un professore di educazione fisica. Poi, un brutto giorno, venne colto da un infarto. Non poté più fare l’insegnante e venne re-impiegato in segreteria come Uomo delle assenze.

Alto 1.85-1.90, aveva una coppola color cammello e un lungo cappotto color spinacio cotto, che abbandonava soltanto a primavera inoltrata. Non l’ho mai visto con indosso un capo diversi né senza coppola, quindi non saprei dire se fosse calvo o meno ma a giudicare dai capelli radi sulle tempi sospetto che sulla sommità non li avesse.

Non l’ho mai sentito parlare pronunciando parole diverse da quelle che ho riportato.

Tranne che per il giro nei corridoi, infine, non l’ho mai visto impegnato in altre attività.

Ho pensato che avrà ricoperto questa mansione prima che io arrivassi in quella scuola e avrà continuato quando me ne sono andato. Anni e anni a fare il giro dei corridoi a metà mattinata, classe per classe, per dire “Chi è assente?”, dopo la pausa necessaria a esaurire l’eco del “buongiorno”.

Non so neanche come si chiamasse: era l’Uomo delle assenze.

La mia credenza non è popolare perché la presi al Mercatone Uno

Ricordo quando mi dissero “È per colpa di quelli come te che esiste il male nel mondo” e io ci rimasi un po’ così. In quel periodo c’era la guerra in Iraq (la chiamo guerra perché geopoliticamente parlando sono rimasto indietro di decenni e non mi sono aggiornato), tra le tante cose che affliggevano il mondo. E io sarei voluto andare lì e dire Ragazzi, vi prego smettetela, state facendo un casino solo per colpa mia. Purtroppo voli diretti Napoli – Baghdad non ce ne erano e così alla fine non ho risolto niente.

Una compagna di classe, invece, si infervorò proprio tanto e alzò la voce dicendo “Ma allora che cazzo ci stai a fare al mondo, perché non ti uccidi allora” e in effetti me lo chiesi anche io, non proprio al mondo ma mi chiesi Sì, cosa cazzo sto a fare qui di fronte a te, che a parte sei sempre stata una stronza, ora ti inalberi e attacchi in modo gratuito. Mi ha sempre infastidito la predicazione di amore e il contrabbando di odio che alcune persone mettono in atto.

Uno sconosciuto su un forum fece un’osservazione: “Ma scusa, se tu vedi uno che si sta gettando da un ponte, non corri a fermarlo?” E io pensai che non faceva una piega, come disse lo stiratore mettendo l’appretto. Se non fosse per un particolare: una persona che sta per suicidarsi è una realtà sensibile e oggettiva, mentre tu parli di una cosa che vedi tu. Insomma, provate a immaginare la scena: siete lì che camminate per strada placidi e tranquilli, con le mani dietro la schiena, canticchiando urca urca tirulero

All’improvviso vi si avventa contro una persona che vi abbranca e vi grida Non lo fare! Pensaci! Fermati finché sei in tempo!

Assurdo, no?
Eppure avevo pensato di provare a farlo. Solo che la gente che cammina per strada non credo abbia tutta questa voglia di giocare e poi non si sa mai chi incontri, si possono rischiare le botte. A meno di non avere la prontezza di riflessi di dire Sorrida alla telecamera! Stiamo girando, guardi lì in fondo, vede?

Perché, in fondo, la televisione ci rende tutti più buoni.

Una collega universitaria invece provò a convincermi che in realtà io credessi nel niente e quindi tecnicamente io professassi un credo. Quindi alla fine non si scappa perché uno può pure dir di no ma alla fine crede sempre ed è come se quello che ti dice questa cosa avesse vinto perché ha dimostrato la tua ipocrisia.

Io vorrei dire, al di là del ragionamento capzioso, Ma va là, che scoperta.
Io credo in tante cose. Credo che, avendolo visto per 29 anni, 10 mesi e un giorno, domani il Sole sorga di nuovo, a meno di cataclismi imprevedibili e immediati. Credo che se mangio i peperoni o una qualsiasi cosa che contenga un aroma al peperone, poi mi sento dell’acidità salire dal fondo della gola. Mi hanno detto che bisogna mettere un po’ di zucchero nei peperoni per ammazzarne l’acido, ma finché non provo non ci credo. Credo che non bisognerebbe perdere mai la capacità di emozionarsi di fronte alle piccole cose, perché se poi ci pensi anche questo ti fa sentire vivo. Credo non ci sia bisogno a volte di tante parole, perché le persone spesso vogliono semplicemente essere ascoltate e l’ascolto attivo è un esercizio difficile ma produttivo di benessere per te e per il prossimo. Credo che gli esseri umani siano esseri umani e gli animali siano animali e non si debbano confondere le cose, ma credo anche che possiamo pure mettere camicie a quadri ma al di sotto di esse restiamo dei mammiferi e facciamo tutte le cose che fa un mammifero e questo non andrebbe dimenticato.

Credo nei batteri.
È inquietante sapere che abbiano all’interno del nostro corpo miliardi di microrganismi che influenzano la nostra vita più di un Concilio Vaticano. Magari le nostre scelte, il nostro carattere, le nostre azioni, sono decise dal nostro microbiota. Ti sei svegliato con una voglia di kebab alla cipolla? Magari non sei tu realmente a volerlo, ma è un bifidobatterio microscopico dentro il tuo tubo digerente.

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E ho pensato a tutte queste cose mentre oggi rassettavo un po’ casa, approfittando della giornata che sembra primaverile. E ho concluso poi la mattinata operativa dando una bella spazzolata all’anziana gatta. Era da tempo non lo facevo. Vederla che si beava al sole delle mie attenzioni mi ha riempito di gioia. E forse questo non è dovuto a un batterio e mi ha fatto sorridere.

Cogito, ergo meow.

E credo infine che questo qui fosse un bel film, anche se poi per un lungo periodo ho odiato l’eterna adolescenzialità di Accorsi tanto da non sopportare l’idea di vedere un film con lui presente.

Il Dottor Divago. La chimica di sigarette elettroniche in doppia fila

Avevo delle idee, sparse e confuse come le foglie che continuano a cadere sulla rotonda vicino la scuola. La carreggiata si riduce negli orari di ingresso e uscita, le mamme gareggiano nel riuscire a posizionarsi con l’auto il più vicino possibile all’entrata, come bocce verso il pallino. Sigarette elettroniche cambiano la chimica atmosferica. Anche oggi non ho investito nessuno pur essendo distratto, procedendo a passo di gatto.

Avevo qualche idea, sparsa e confusa come le foglie morte. Speravo di poterle raccogliere con un bastone appuntito e chiuderle in un sacchetto, lasciandole decomporre sino a semplici molecole. Ne valuterò il peso e le assemblerò per creare nuove sostanze di cui nutrire i pensieri.

Il cibo del futuro dicono sarà calibrato a livello atomico. La mia bilancia non peserà più i miei 120 grammi di pasta giornalieri ma un tot di atomi che mi spetteranno per il mio fabbisogno energetico. Potremmo vivere sino a 120 anni, probabilmente, seguendo un tenore di vita prescritto su un foglio. Se questo mi potrà dare la felicità non ne sono certo. Forse a un tenore di vita preferirei la vita di un tenore e far rimbombare i vetri delle finestre con la voce.

Se prolungare le cose abbia un senso o meno.
Alcune cose devono spegnersi quando invece non hanno più una raison d’être.
Con la voce avvolta in un plaid, calda e ovattata, mi hai detto ciò a proposito dei rapporti umani. Le interazioni hanno un loro sviluppo, che può portare a un qualcosa, di qualunque natura sia. Nel momento in cui un’evoluzione non c’è, tale rapporto si arresta e muore di consunzione naturale.

Lo so bene io che ho visto nascere e morire molti rapporti. La socialità mi sottrae molte energie, chi non è un introverso non comprende appieno il dispendio di forze che comporta gestire molte interazioni. Forse un nutrizionista sociale potrebbe trovarmi una dieta adatta per ovviare al consumo cerebrale. Prediligo quindi il poco ma buono, mentre il resto, confinato nel Limbo della semplice conoscenza, è destinato a spegnersi presto o tardi.

In genere non rifletto mai su questo. Svicolo come il gatto cui vuoi dar a forza le pastiglie dei medicinali. Prendo tempo divagando e fingendo di celarmi, quando in realtà non ho le risposte perché non mi pongo le domande. Le cose son lì, non si muovono, non mi pongo il problema perché non me ne capacito dell’esistenza.

Sono così indie.

Non riesco a superare la mia adolescenza perché ha il motore truccato

Guidare un’auto presa in prestito ti mette di fronte a curiose innovazioni nella tua vita. Ad esempio che l’auto sia fornita di lettore cd. Sì quei cosi di policarbonato con incisa della musica. Da tempo mi sono votato allo streaming, all’immateriale e ho perso il gusto di comprare dischi. E anche di masterizzarli.

Ieri, scartabellando tra i vecchi dischi, tiro fuori Nevermind e mi dico perché no?. È stato strano, era da anni che non lo riascoltavo. E la cosa curiosa è che mi ha trasmesso le stesse sensazioni di 10, 15 anni fa.

Ho sempre pensato che su certe cose cui siamo legati in determinati momenti della vita le impressioni variassero poi con gli anni. Alcune cose magari possono non piacere più, come quei pantaloni che ho scoperto sono ancora nel mio armadio dal 2005 e che non metto più da allora. Probabilmente un giorno usciranno da soli per strada. Alcune cose possono essere percepite in modo diverso. Kafka a 12 anni non è lo stesso a 22 o a 29, secondo me. I Nirvana, ovviamente mi piacciono ancora, ma non immaginavo che riascoltare quel disco mi avrebbe fatto ripercorrere gli stessi pensieri di una volta.

A volte ho la sensazione di non essermi mai staccato completamente dal me stesso di anni fa. Cosa voglia dire maturità io credo di non capirlo ancora bene. E già questo è un segnale preoccupante.

Le mie camicie e le magliette mi sottraggono anni mentali, soprattutto se mi si mette di fianco a Collega Onicofago (a proposito, è un po’ che non porto news dall’Arkham Asylum dove lavoro), che ha 2 anni meno di me ma è vestito sempre come un uomo fatto e finito e ha un sarto che gli fa le camicie su misura a casa.

Però poi la madre gli rifà ancora il letto e la mattina gli fa trovare la colazione pronta. Insomma, son cose che io darei per acquisite in terza media, poi non so. Ciò che mi domando è: ma quando abbandonerà il tetto genitoriale per andare sotto quello matrimoniale (perché credo il passaggio sia strettamente consequenziale), la moglie gli rifarà il letto e gli preparerà la colazione e tutto quanto appresso anche?