Non è che per il farmacista gli Oki siano lo specchio dell’anima

Non ho mai capito quelli che partono per trovare sé stessi.

Io farei un viaggio per non ritrovarmi più. Mi lascerei un biglietto di commiato con l’invito a non cercarmi. Sto bene, non ti preoccupare, ho soldi, telefono e medicinali, e poi non mi farei sentire più da me.

La fuga andrebbe preparata con attenzione perché non vorrei scoprirmi e dovermi poi esibire in imbarazzanti spiegazioni davanti allo specchio con cose di sensi di colpa e vergogne.

La meta ancora non la so ma anche se la conoscessi non la scriverei qui per paura poi di passare a rileggermi.

È un passo importante, ci vuol coraggio. Ma ci vuol anche coraggio a restare. L’importante è fare una scelta coraggiosa, qualunque essa sia. Coi ragazzi, a scuola, a volte concludevo dicendo «Sceglietevi una battaglia» (e mi devo sempre fermare dal partire con Scegliete la vita. Scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici). E quando sarebbe arrivato – perché arriverà prima o poi – qualcuno a dire «Ma perché non fate questo? Perché non prima…?» invitavo a rispondergli «Perché, tu che fai, a parte criticare?».

La cosa peggiore, a mio avviso, è l’ignavia. È il non far niente. Il non-scegliere. Il Limbo. Non quello che si faceva alle feste, che mi chiedo se qualcuno pratichi ancora. Di certo non alle feste dove vado io perché dopo i 30 anni certi movimenti si fanno pericolosi.

Un po’ tutto comincia a essere pericoloso dopo i 30. A cene o a feste non si va senza portarsi dietro il trio OMG. Che non sta per Oh My God ma per Oki, Maalox e Gaviscon. C’è gente che si defila non più per scambiarsi il fumo ma bustine di medicinali.

Per non parlare dei mal di testa il giorno dopo e quella sensazione di chiodi nelle tempie soltanto per aver bevuto un bicchiere di troppo.

Con queste premesse e cose di precarietà fisica e disagio di stomaco ci vuol proprio tanto coraggio a scegliere di fuggirsi dopo i 30.

Non è che per giocare a polo devi spegnere il riscaldamento

Il ritorno al lavoro dopo un periodo di ferie è un evento traumatico, in genere. È una sveglia del lunedì mattina moltiplicata in modo esponenziale.
È una cefalea pulsante.
È un programma televisivo pomeridiano dove una donna racconta di essersi ripresa da una sbronza dopo che le è apparso Paolo Brosio e il pubblico inquadrato si commuove e fa anche l’espressione di chi non si accorge di essere inquadrato.

Per me non è così.

Sono il tipo di individuo che, sin dai tempi delle scuole elementari, vive il rientro con positiva agitazione.

Nei giorni precedenti avverto tristezza per la fine delle vacanze, ma quando è il mattino del ritorno al dovere mi ritrovo invece piacevolmente ansioso di ricominciare, rivedere persone note con cui condividere esperienze, scoprire le novità che il nuovo inizio porta.

Tale fanciullesco entusiasmo si è poi ogni volta rivelato effimero. Durava il tempo necessario per tornare a odiare le persone note e le esperienze color marrone che le riguardavano. Senza considerare che le uniche novità che la vita offre si trovano al massimo nel volantino di un supermercato che deve liberarsi dalle eccedenze di magazzino spacciandole per nuove offerte.

Durante il periodo della scuola, il ritorno dopo le vacanze di Natale significava fare i conti con i termosifoni che non funzionavano a dovere, essendo stati spenti per due settimane. È ciò che sta accadendo anche in questi giorni in vari istituti lungo lo Stivale. È bello vedere una continuità storica tra le generazioni.

Quando ero a scuola io però nessuno mai ha sollevato polveroni per il fatto che in classe eravamo costretti a stare col cappotto.
Anche perché probabilmente visti i nostri edifici sarebbero stati polveroni di amianto e non era il caso quindi di sollevarli.

Alle elementari per esorcizzare il gelido periodo alcuni di noi inventarono “La Banda FBI”, con un arzigogolato collegamento logico.

Si sa che gli investigatori vanno in giro sempre in cappotto o impermeabile anche a Ferragosto. Tanto per loro poco cambia perché in qualsiasi periodo dell’anno c’è buio e/o pioggia e/o freddo. Ebbene, noi che indossavamo il giaccone in classe e nei corridoi eravamo quindi come dei detective.


È un po’ come dire che mettendosi una boccia di vetro in testa si è un astronauta. E solo ora realizzo che questa sarebbe stata un’idea più divertente di quella dei detective.


Domanda: ma se tutti indossano giacconi e cappotti cosa rendeva degni di appartenere “all’FBI” solo alcuni?

La simpatia.

Una delle regole non scritte del mondo infantile è che qualsiasi decisione viene presa democraticamente a simpatia. Se piaci sei dentro, se non piaci sei fuori. Insomma, le giurie popolari non le hanno inventate mica gli adulti.

E io piacevo o no?

Io a dire il vero sono sempre stato “un tipo” e quindi andava come capitava.
Alle volte ero dentro, altre volte ero fuori.

Ironia della sorte quando crescendo si è cominciato a parlare di ragazze mi sono sentito anche io, come tanti, dire “Sei simpatico, ma…” al che ho replicato “Allora se ti sto simpatico formiamo una banda!” ma lei mi ha guardato strano ed è fuggita.


Per la cronaca, fui “dentro” l’FBI, ma solo perché avevo un bel giaccone che aveva anche uno stemma sul petto all’altezza del cuore che sembrava tanto un distintivo. Ebbi quindi il dubbio che non fossi io quello simpatico alla banda, ma il mio giaccone, e provai un sentimento di rancorosa invidia.


 

Recensire mutande e reggiseni non fa di te uno scrittore intimista

Lulu mi ha chiesto di scrivere qualcosa da farle leggere. Non una fiaba o un racconto, la richiesta è stata molto più specifica: “qualcosa che ti viene in mente”.

Ho sempre timore del qualcosa: qualcosa da dire, qualcosa da pensare, qualcosa di personale.

Qualcosa deve venire da dentro, qualcosa è qualcosa che in genere non si mostra. Come una canottiera, non la si fa certo vedere agli altri.


DIDASCALIA ESTETICA
Anche se ricordo qualche tempo fa la moda della canottiera bianca per uscire il sabato sera e io pensavo ogni volta agli americani che hanno in mente lo stereotipo dell’italiano canottiera e baffoni.


Ho sempre problemi a raccontare qualcosa di mio. Sul blog può essere più semplice perché io non conosco chi mi legge e chi mi legge non conosce me, quindi tra non conoscenti ci si può sentire più a proprio agio. E comunque non è detto, perché non scrivo tutto e se per caso lo scrivessi lo camufferei in modo che chi legge non possa avere idea alcuna di cosa io stia parlando.


A volte mi è riuscito così bene che anche io non capivo più di cosa stessi parlando.


Questa stipsi espressiva l’ho sempre avuta. A scuola non amavo le tracce dei temi troppo intimiste: “Parla del valore che ha per te l’amicizia raccontando un episodio in cui un amico è stato per te importante”.

Cosa dovevo dire dell’amicizia? Al massimo, essendo gatto, potevo scrivere della micizia.

Per questo sceglievo sempre il saggio breve, l’articolo o il tema di attualità. Purtroppo, tutti gli insegnanti assegnavano come compiti per casa per le settimane successive le altre tracce. E quando non c’erano compiti in classe in quel periodo, un tema personale come lavoro a casa finiva sempre nell’assegno.

In genere evadevo sempre il tema in maniera molto impersonale e distaccata. Nel caso citato come esempio, dopo qualche frase retorica e ridondante (e anche verbosa e prolissa per riempire la pagina) sull’amicizia, concludevo brevemente con un esempio freddo e materialista: un amico è stato per me importante quando mi ha ceduto la figurina di Roberto Policano.


DIDASCALIA CALCISTICA
Roberto Policano, classe ’64, è un ex calciatore che ha vestito, tra le altre, le maglie di Roma, Torino e Napoli a cavallo di ’80 e ’90. Era detto Rambo per la grinta che metteva in campo. Per dare un’idea del personaggio, consiglio di guardare questo video storico della purtroppo sfortunata finale di Coppa Uefa del 1992 del Toro. Minuto 4:44, lo svedese Pettersson perde tempo vicino la bandierina per far trascorrere i secondi, Rambo irrompe e fa giustizia. Lo svedese tornerà a casa con un braccio rotto…


Il clou lo raggiunsi una volta, alle scuole medie. Compito a casa (non ricordo la traccia per filo e per segno ma il senso era questo): “Parla dell’importanza del ricevere aiuto e di quando tu ne hai avuto bisogno”.

Svolgimento:
Non ho mai chiesto l’aiuto di qualcuno e se l’ho chiesto non me lo ricordo.

La professoressa, che mi aveva chiesto di leggere il mio tema, ascoltando queste parole esclamò: Eccolo! Il solito Gintoki, arrogante e irriverente. Bah, vai avanti, su.

Prof, guardi che è finito qui, dissi.

Scoppio di risa della classe. La professoressa sgranò gli occhi, poi riprese lucidità e mi mise una nota sul registro.

Suonò la campanella in quel momento. Ero stato beffato a pochi minuti dal fischio finale!

Alla luce di queste premesse, come mi si può chiedere di essere intimo? E poi intimo come? Di seta, di cotone, di lycra, di microfibra?

Paganini non ripete: per questo va male alle interrogazioni

Oggi ho iniziato oggi a dare ripetizioni a un ragazzino. “Ragazzino” è fuorviante, ha 17 anni. Ma credo che l’età biologica e quella reale non coincidano: il mio discepolo dipende in tutto e per tutto dalla madre e non è in grado di studiare in modo autonomo.

Insomma, non esiste – secondo me – che uno studente al quarto anno di liceo abbia ancora bisogno dell’aiuto della madre per studiare, che gli sottolinea il libro o che accorre alle 2 di notte perché lui la sveglia dicendole che ancora deve finire i compiti.

Il meteorologo: tra i pochi giustificati ad avere la testa fra le nuvole

Il ragazzo è sveglio e intelligente, fa domande argute, ma ha la mia stessa sindrome: il deficit di attenzione. Se sta da solo su una pagina aperta, non avanza d’un rigo perché poi si distrae a pensare alla riproduzione dei lepidotteri giganti dell’Amazzonia. Se deve svolgere un compito, due minuti dopo lo abbandona e si mette a fare altro. Quelli come noi ci impiegano di più a fare una cosa, perché siamo cattivi amministratori del tempo. A volte ci incantiamo a pensare ad altro.

Tra parentesi, mentre ero a metà di questo post mi sono alzato e sono andato a giocare col gatto. Così, perché mi girava.

Tornando a noi, più che di uno che gli insegni qualcosa, lui ha bisogno di uno che gli stia accanto e lo pungoli. Uno dei suoi problemi è che non ripete e che non ha proprietà espositiva, quindi oggi abbiamo provato a lavorare su questo, ragionare insieme, fare esempi. Il tutto senza paracadute per me, perché mi aspettavo di partire con storia e invece abbiam fatto filosofia, in cui mi trovavo molto arrugginito.

Aggiungiamo che non ho mai dato ripetizioni in vita mia, tranne che a me stesso ma senza frutto perché non faccio altro che ripetermi di fare o non fare delle cose e puntualmente non faccio delle cose che dovrei fare o faccio delle cose che non dovrei fare. Chiaro, no? Sennò ripeto.

La madre durante la lezione ci ha lasciati soli, ma credo di tanto in tanto prestasse orecchio dietro la porta. Mi ha fissato un altro appuntamento, quindi presumo sia soddisfatta. Il ragazzo non lo so, la scena finale si è svolta così:
– Quindi lei quando è libero?
– Io fino a domenica son qui.
– Allora potremmo fare venerdì. Oppure sabato, che dici, T. (rivolta al ragazzo)?
– … (il ragazzo fissa il vuoto)
– Allora va benissimo, facciamo venerdì. Ma lei è libero anche di mattina?
– Venerdì sì.
– Allora potremmo fare venerdì mattina che è festa a scuola. Va bene, vero, T.?
– …(il ragazzo fissa di nuovo il vuoto ma non si sa se è lo stesso di prima o ha trovato un altro vuoto da contemplare)
– Va bene, allora venerdì alle 10:30. Poi ci penso io a svegliarlo e farlo stare in piedi.

Nel frattempo io debbo rimettermi a studiare e non trovo più i miei libri del liceo.

Manuale del perfetto ambulante di frutta e verdura

Il migliore antidoto alla crisi? Diversificare la produzione industriale? Il taglio dei tassi d’interesse? Iniezioni di investimenti di capitali? Il contrabbando?

Ma no! Un sano ritorno alla vita bucolica e agreste e alla vendita del prodotto direttamente al consumatore. Oggi infatti voglio parlare dell’ambulante che richiama giù in strada le massaie per offrire le proprie primizie. Lo farò prendendo in esame tre esempi che hanno caratterizzato la mia infanzia, due dei quali sono ancora in attività a tutt’oggi: zi’ Pascal (zio Pasquale), Aniello e Rafél ‘re banan (Raffaele delle banane).

Primo step: il settore
Prima di iniziare qualsiasi attività di vendita ambulante, bisogna decidere in che settore investire. Solo verdura, come zi’ Pascal? Frutta & Verdura, come Aniello? Oppure gettarsi in un mercato alternativo, come Rafél? Il nostro, infatti, ha scelto di vendere prodotti come ananas, kiwi, noci e noccioline, cocco…e, ovviamente, banane. E fu così che venne ribattezzato Raffaele delle banane. Sì, abbiamo molta fantasia.

Secondo step: il mezzo
Il mezzo di trasporto per eccellenza è l’Apecar. Facendo proprio il detto “chi va piano va sano e va lontano”, con la propria velocità di punta di 10 km/h un Apecar ha una longevità ineguagliabile, durerà decenni anche ridotto in pessime condizioni. Di zi’ Pascal ricordo l’Apecar arancione tenuta insieme col fil di ferro e iniezioni di silicone sigillante per le giunture. Nonostante i rattoppi che pareva dovessero sfasciarsi alla prima buca, quell’affare macinava chilometri senza problemi.
Rafél invece era stato più alternativo e aveva optato per un vecchio furgoncino anni ’70, una roba quasi stile hippy. Purtroppo, dopo tanti anni di onorato servizio, il furgoncino è venuto a mancare all’improvviso e Rafél ora gira in una semplice Punto grigia. Visto cosa succede a non affidarsi all’Apecar?

Terzo step: l’outfit
Un vero venditore non può prescindere dal curare il proprio look, la propria divisa da lavoro, che deve avere quel tocco caratteristico che lo faccia distinguere dagli altri venditori. Per esempio, zi’ Pascal era noto per la maglietta della salute che indossava estate e inverno. Sotto la maglia? No. Come maglia da lavoro usava proprio una maglietta della salute, di quelle di vecchia fattura composte di lana selvaggia che sulla pelle di un uomo normale farebbero l’effetto Vergine di Norimberga:

Nulla invece poteva sulla pelle temprata da sole, pioggia e vento di un uomo dei campi.
Aniello invece ha optato per un look più sobrio e classico, sempre in camicia e sempre vestito di azzurro, lo stesso colore dell’Apecar che guida. Coincidenza? Io non credo.
Rafél come tratto distintivo ha scelto la coppola, portata sempre calata sugli occhi a visibilità praticamente zero. Quando lo vidi senza copricapo stentai a riconoscerlo, pensavo fosse un’altra persona.

Quarto step: il grido di battaglia
Il grido di battaglia È il venditore. È il proprio segno distintivo, ciò che lo rende riconoscibile alle massaie anche a distanza, quello che lo accompagnerà per tutta la carriera perché il grido, una volta scelto, non si cambia mica. Vi immaginate il Signor Nike che un mattino si sveglia e dice “Ragazzi, da oggi niente più Nike, ci chiameremo Bubulonia Sport”. No, non ci sta proprio. Il grido è marketing, è quello che trascina la gente giù in strada a verificare cosa porti di buono nelle loro case.
Non so come funzioni nel resto d’Italia, ma il grido di battaglia da queste parti deve avere tre caratteristiche precise:
1) essere originale (ogni venditore ha il proprio);
2) urlato con la propria voce, niente nastri registrati stile Arrotino & Ombrellaio e ripariamo cucine a gasse. È concesso l’ausilio di un megafono, anche se i puristi preferiscono utilizzare solo polmoni e corde vocali senza aiuti esterni;
3) essere incomprensibile. Ci ho messo anni a capire cosa dicesse Rafél. Scriverò prima il suono che arrivava alle mie orecchie:

Guahuhaheghell!

Nel corso degli anni ho poi capito che diceva “Guard quant è béll”, guarda quanto è bella (la merce, sottointeso).

Aniello invece utilizza un grido più articolato e in due tempi:

Auecaccioffl…Auanieee

Con la seconda parte che viene ripetuta dopo qualche istante di pausa, a mo’ di eco. Purtroppo non sono riuscito a decifrare molto, ho capito solo “caccioffl”, ossia carciofi mentre il finale della seconda parte, quel -anieee credo stia per Aniello, per l’appunto. Tra parentesi, il perché della scelta di urlare proprio “carciofi” non mi è chiaro. È vero che nelle nostre zone è molto in voga l’usanza del carciofo arrostito la domenica mattina da servire poi a tavola per il pranzo. È una delle cose che andrebbero vietate per legge, dato che produce l’inquinamento atmosferico di una fonderia.

Di zi’ Pascal invece resterà purtroppo sempre un mistero cosa dicesse in realtà:

Aiainieee, ieee tchià tchiàààà

Credo fosse accadico o un dialetto sumero, non c’è altra spiegazione. Magari non diceva semplicemente nulla ma faceva solo dei versi e ci ha fregati tutti, un po’ come la scrittura Lineare A di Creta su cui i filologi da decenni sbattono la testa e che magari non significa proprio niente, sarà stato un alfabeto segreto inventato dai bambini per comunicare senza farsi scoprire dagli adulti o da componenti delle “bande” rivali a scuola.

Bene, spero che queste poche indicazioni che ho dato vi siano utili nel caso decideste di puntare su questa attività per il vostro futuro!

Ghintochioiaaaattt! Ghintochioiaaaatttt! (Gintoki il gatto. È il mio grido, non fregatemelo).

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