Non è che il programmatore a Capodanno spari i Bot

Il concetto di distanza non è una novità del 2020. L’introduzione di forme di distacco tra individui è iniziata un po’ prima.

Il distacco del contatto tra esseri umani nei servizi di assistenza clienti ne è un chiaro esempio. Oggi è molto più difficile chiamare un numero e riuscire a parlare subito con un operatore. Il passare attraverso una sequenza di scelte tramite tastiera ricorda una storia a bivi, dove il finale può essere quello errato.

L’economista Michael Porter nell’85 (o giù di lì) descrisse il servizio clienti come uno dei processi fondamentali del modello della catena del valore. Da allora il caring del cliente si è sempre più strutturato e specializzato.

E spersonalizzato, allontanato dalla persona.

Sempre più siti sui loro portali implementano delle chat con quelli che sono bot automatizzati.

Una mail inviata dall’assistenza proviene nella maggior parte dei casi da un indirizzo non atto a ricevere posta in entrata.

È ovvio che la razionalizzazione del servizio clienti risponde a logiche di ottimizzazione e smistamento delle richieste, oltre che a dover fare da filtro per non finire subissati da lamentele da parte di gente che ha dimenticato come ci si siede o quale mano debba tenere fermo il nodo per fare i lacci.


Per esempio a me hanno fatto notare che nell’allacciarmi le scarpe uso le mani in modo invertito: quello che fa la destra lo fa la sinistra e viceversa. Sinceramente ignoravo che esistesse una simile distinzione.


Anche gli esseri umani di assistenza riflettono lo stesso schematismo automatizzato dei bot: quasi sicuramente chi vi risponde ha delle risposte preimpostate e se per caso non fosse in grado di trovare soluzione al vostro caso reindirizzerà la richiesta a un altro step.

Ho dovuto scrivere 3 volte all’assistenza di un sito perché per 2 volte non hanno centrato il punto. Presumo mi abbiano risposto 3 persone diverse.

Il primo mi ha detto che dovevo capire se il mio caso rientrasse nella casistica 1 o nella casistica 2 e poi seguire la procedura 1 o 2. I casi 1 e 2 non c’entravano niente.

Il secondo si è fermato alla prima riga del quesito e mi ha detto una cosa che non c’entrava.

Il terzo ha risolto il problema.


Dopo 10 giorni da quando avevo chiesto aiuto la prima volta.


E sono certo che nei primi due casi io abbia ricevuto delle risposte preimpostate frutto di un copione e solo al terzo tentativo qualcuno ha realmente letto cosa ho scritto.

Quale è allora la differenza tra un essere umano e un computer in questi casi? Ha un senso creare sempre più distacco?

Non è che il ferramenta s’interroghi sulla vite degli altri

C’è una poesia di Borges contenuta ne L’oro delle tigri – che conosco solo nella versione spagnola, non riesco a trovarla in italiano (online, s’intende, in cartaceo credo l’abbia pubblicato Adeplhi) – che inizia più o meno così:

Dove sarà la mia vita
quella che sarebbe potuta essere
e non è stata

Il tema dei propri diversi sé stessi e di cosa sarebbero potuti essere mi ha sempre affascinato e dato da pensare. E mi chiedo spesso dove saranno e cosa staranno facendo questi altri me stesso che ho lasciato indietro e da qualche parte stanno vivendo altre vite.

D’altro canto io stesso sento che in me hanno vissuto diverse vite e mi chiedo se sia sempre io o, nel momento in cui un’esperienza ha cessato di essere e ne è iniziata un’altra, io sia diventato un altro. E quindi io sono io solo qui, in questo preciso istante, mentre ciò che mi lascio dietro è una sequenza di cloni che non coincidono più con me e che prendono altre strade.

Ci ripensavo in questi giorni. Accantonate le Feste, questo 2020 si apre, come sapevo e messo in preventivo da tempo, con me che devo cercare – in vista dei termini di scadenza di entrambi – un nuovo lavoro e una nuova casa.

Un’altra vita, un altro ambiente, un altro soffitto sconosciuto da familiarizzare. Un nuovo me stesso, un me stesso nuovo.

Quando ci penso a tutti questi cambiamenti sinora affrontati a volte mi smarrisco. Non è che io possa vantare chissà quante e varie esperienze o chissà quale vita da globetrotter, chiariamo; sta di fatto che a volte mi fermo e mi sembra di aver fatto tanto e niente allo stesso tempo, di conoscere e di non conoscere, di essere qualcosa ed essere zero. Vorrei fermarmi e assumere una forma definita.

Poi c’era Bruce Lee che diceva non prendere un’unica forma, sii l’acqua, che in una teiera diventa teiera, in una bottiglia diventa bottiglia, in una tazza diventa tazza.

Sì. Ma se poi la tazza è quella del water?