Mi piacciono gli aeroporti. Le vetrate, i soffitti alti e le luci, le poltrone sulle quali non mi stendo perché a una occhiata approfondita non mi sembrano il massimo della pulizia.
Guardo i negozi anche se sono sempre gli stessi, confesso poi di aver sostato, in occasione di lunghi trasferimenti o di voli presi al termine di una giornata lavorativa, nell’area dei profumi per cercare una fragranza-prova che mi desse un olezzo gradevole come si usava fare nella Parigi del ‘700 per coprire i propri afrori.
Ho dormito negli aeroporti. Esperienze allucinanti che mi hanno reso esperto del contorsionismo quando ho cercato giaciglio tra un paio di travi messe a V.
Ho usato i servizi igienici per scopi fisiologici non procrastinabili. I bagni per disabili hanno dei comfort aggiuntivi, in termini di spazi, ganci, lavandini e privacy; so che non andrebbe fatto il rubare spazi simili. Per rendere meno grave la mia infrazione ho cercato servizi localizzati in aree imbarco in quel momento disabitate e lontane lunghi corridoi dalle zone frequentate, accertandomi che nei paraggi non ci fosse nessuno che avrebbe avuto necessità più di me di quel bagno.
Mi sono divertito a utilizzare scale mobili e tappeti scorrevoli, ho provato cucine diverse, ho constatato chi è più severo nella sicurezza e chi meno.
Insomma, gli aeroporti dall’interno sono posti dove potrei, per un breve tempo, vivere.
L’esterno degli aeroporti, invece, mi mette tristezza. Soprattutto nei bui inverni quelle aree disabitate perse nella nebbia di qualche pianura mi incutono angoscia. Tutte le persone che avevo intorno dentro l’aeroporto, con cui sentivo una sorta di legame ideale perché condividevo con loro l’essere un passeggero, all’esterno mi sembrano pisellini Findus che rotolano via da una confezione che si rompe. Ognuno rotola per la propria strada, qualcuno che si nasconde sotto un mobile per non farsi più trovare, qualcun altro che forse finirà calpestato.
E io, che mi sento abituato a star per conto mio, avverto invece in quell’occasione un cappotto di solitudine che mi si stringe sulle spalle mentre mi lascio indietro le luci incandescenti dell’interno dell’aeroporto, verso un anonimo buio esterno.
C’è della poesia malinconica, crepuscolare, nel finale di questo scritto. Dipende forse dalle condizioni meteorologiche in cui si viaggia, e dall’ora? Di notte, si sa, tutti i gatti son bigi. Non devi sentirti in colpa nell’usare i bagni per disabili. Pensa alle volte in cui, in autostrada, i bagni maschili sono invasi dalle donne che scappano dalle loro code chilometriche. Personalmente ancora oggi gli aeroporti mettono ansia: non vedo l’ora di partire e soprattutto di tornare.
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Santi numi che fastidio quelle invasioni negli autogrill!
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E che occhiatacce ti lanciano se pretendi di usare gli orinatoi! Come se fossimo dei depravati. È imbarazzante. Non si capisce perché gli autogrill continuino a mettere lo stesso numero di wc per i maschi e per le femmine. Prendano atto delle diverse necessità!
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Macché. Vi ritroverete a pisciare nelle bottigliette di plastica.
E’ un gombloddoh!
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Basta che poi non ci fermi un poliziotto che scambia le bottiglie per alcolici (dal film “Scemo&+Scemo”)…
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