Quando bisogna nuotare a delfino, l’istruttore, con sarcasmo e umorismo del tutto personali, ripete sempre che la cosa importante di questo stile è il movimento di bacino. Lo dice mentre mima delle spinte pelviche, alludendo che noi allievi siamo poco allenati in questo tipo di movimento.
Non ha mai fatto ridere. Spero sempre che dopo un tot di volte ci strappi un sorriso per dargli una soddisfazione. Forse è per questo che lo dice sempre.
Si è imprigionato in un ruolo, quello del simpatico, che egli stesso si è creato. Non è più lui a produrre la battuta, è la battuta che produce lui.
Il fenomeno della spersonalizzazione del parlante lo noto soprattutto nei romanzi. Ci sono libri, anche scritti molto bene, in cui i personaggi conversano in un modo del tutto irreale, che non attribuiresti a persone con quelle caratteristiche, in quel contesto, con quei tratti culturali. Ti rendi conto allora di non ascoltare più la voce del personaggio che sta parlando, ma una voce astratta che diventa uguale per tutti.
Ad esempio, immaginiamo due trentenni che convivono. Lui rientra a casa con le buste della spesa:
– Ti sei ricordato di prendere l’Anitra WC?
– Lo sapevo…me ne sono dimenticato…la mia solita memoria!
– La dimenticanza è sempre un brutto demone. Spesso fingiamo di non ricordare quel che ci arreca dolore, lo seppelliamo nella soffitta della mente e non ci pensiamo più. Ci abituiamo allora a dimenticare. Solo che quando qualcuno arriva a rovistare nelle nostre vite temiamo che ci metta a soqquadro e tiri fuori quel che abbiamo nascosto. Questa è la condanna delle relazioni tra esseri umani.
Il nonsense qui sopra potrebbe benissimo comparire in un qualsiasi romanzo che soffre dell’artificiosità dei discorsi (il “romanzese”, di cui parlavo anche in un altro post) cui accennavo sopra. Quando mi imbatto in una cosa del genere non riesco più a visualizzare i protagonisti del libro. Vedo solo delle figure, dei manichini, che portano in giro sofismi che non gli appartengono ma che gli ha messo in bocca l’autore.
Anche nella realtà vedo spesso persone che sembrano cucite dentro una veste che li porta in giro. Non fanno sofismi (purtroppo o per fortuna) ma più che altro sembrano degli Edgar-abiti (cit.) ambulanti.
Io che abito ho non l’ho capito molto bene. Preferisco non pormi la questione dei vestiti che indosso.
Letteralmente.
L’altro giorno, tornato a casa, mentre toglievo le scarpe mi sono reso conto che sono uscito con indosso un calzino che sul tallone aveva ceduto. Un tempo mi sarei vergognato di ciò, per il pensiero che se mi fosse successo qualcosa e in ospedale mi avessero tolto le scarpe avrebbero visto che giro col calzino bucato. Un’atavica, vecchia, paura materna: più dell’incidente poté il disonore.
Madre ricordo quando mi invitava a sistemarmi prima di uscire diceva «Sennò la gente dice questo la madre come lo fa uscir di casa?». L’onta del giudizio altrui che ricade sulla famiglia intera, da evitare in modo assoluto!
Questi sono i discorsi reali!
I calzini bucati servono per far prendere aria ai passi quando son costretti a stare chiusi.
Non è disordine ma amore per i propri piedi.
Come madre son nella fase “controllo abiti ad ogni uscita” ma son ferma al ” ti prego, che siano puliti”
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Quindi visto che mi dicono che a volte ragiono coi piedi il buco serve a rinfrescarmi le idee 😀
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