Detesto il provvisorio

Le mani nelle tasche del cappotto e il collo sprofondato nel bavero, stringo intorno a me calore da non lasciar fuggire via. Il clima in questi giorni s’è fatto mite ma quando il Sole tramonta l’umidità prova sempre a intimidirti.
Passeggio. Poi mi fermo, mi appoggio al muro. Riprendo a camminare. Credo che i passanti mi osservino. Forse notano che son forestiero. Ho l’impressione che noi napoletani per fisionomia ci distinguiamo dagli altri. Che poi a mia volta essendo io provinciale penso di distinguermi dai cittadini di Napoli veri e propri.

40 chilometri da fare due volte, andata e ritorno. Ho le scarpe pulite e la camicia fresca di bucato, come Nicola Arigliano. Ma l’ho battuto, ho fatto 4 volte la sua strada.

Mi fa male lo stomaco. Sarà il caffè di stamattina. Io non devo strafare, ne bevo un paio al mese, adesso invece siamo già al terzo in poco più di due settimane.
Saranno le farfalle in decomposizione. La putresceina starà fermentando dentro di me. Ecco, per darmi il colpo di grazia andiamo al bar e prendo un altro caffè. Due in un giorno, giornata di follie.

Prima di salire in auto e andar via vuoto il sacco.
Sono qui perché devo parlare. Parlare. Che strana parola. In latino era parabolare. Rende l’idea di un qualcosa costruito per immagini, artifici creativi e metaforici. I Latini, pragmatici, credo infatti usassero loquor per riferirsi al chiacchierare comune. Noi invece dobbiamo adornarci di allegorie per dare forma e sostanza al nostro Io.

Quando durante l’attesa pensavo a ciò che avrei detto mi percepivo molto figo. Carismatico, deciso, il fascino enigmatico dell’uomo che non chiede mai ma dice solo Hey baby con lo sguardo. Ero Humphrey Bogart.
Adesso mentre parlo mi sento più come Donald Duck. Biascico e farfuglio con tono querulo e patetico.

Ma non faccio promesse da marinaio, son sincero e convinto. Espongo le mie considerazioni. Su vita, morte, vita di rimpianti e morte di speranze. Ho deciso di riprendere un filo che avevo perso in questi mesi. Quello della comunicazione. Sarà egoista, ma preferisco liberarmi di ciò che ho da dire.

Non basta.
Che ore sono a New York? Ah, cosa? No no lascia perdere. È ora che io me ne vada. Getto le carte e abbandono il tavolo. Questa partita mi vede perdente.

Volevo provare un’uscita di scena da film, voltarmi e lasciare la mia sagoma rimpicciolirsi sempre più, con le mie spalle a lasciar trapelare sentimenti al posto mio.
Peccato io abbia l’auto proprio qui. Allora ti allontani tu lasciandoti inghiottire dall’ombra.

Ma salta su, porco boia, ti do un passaggio.

Dopo torno a casa affrontando tornanti di montagna bui e umidi.
Non ho lo stereo in auto. Canto da solo.

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