Un ospedale a 10 minuti scarsi di macchina è una risorsa. O una iattura, se è ridotto in condizioni pessime. Non so se sia messo più male l’edificio o il personale che vi lavora.
Pareti che non vengono tinteggiate probabilmente da prima della caduta del Muro, sporcizia, medici che fumano nei corridoi, infermieri scortesi che trattano le persone come bestiame in un mattatoio.
Scendo le scale e attraverso un cortiletto interno. La porta è aperta, non ci sono indicazioni di alcun tipo. Entro in questo ambiente completamente spoglio e privo di luce artificiale, rischiarato da enormi finestroni sulla parete in fondo. Qualche vetro è rotto, ma tanto ci sono le sbarre di ferro a prevenire intrusioni. Ho un déjà vù. Questo stanzone mi ricorda il campo di concentramento di Dachau.
Giro a sinistra e una stanza che trasuda ocra e grigio dalle pareti mi accoglie. Una fila di quattro sedie sulla destra. A sinistra, abbandonato sul pavimento, un negativoscopio 32 pollici impolverato. Probabilmente è rotto ma non capisco perché debba stare qui.
Di fronte a me si erge un un crocifisso di un metro e novanta di altezza. Salve, Sig. Yehoshua ben Yosef.
Al centro della sala, il tavolo di ferro su cui giace mia nonna 92enne.
Benvenuti nella camera mortuaria del nostro ospedale.
Mia nonna è avvolta alla bell’e meglio in un lenzuolo bianco, chiuso sul petto con un pezzo di scotch di carta con sopra scritto a penna il suo nome e cognome. Neanche un cartellino o un foglietto, un nome scritto sullo scotch. Non le hanno neanche chiuso la bocca, il volto sembra congelato nell’atto di lasciar sfuggire l’ultimo respiro. Le gambe non sono state composte, abbiamo dovuto pensarci noi con delle fascette di garza prima che sopraggiungesse il rigor.
Ho visto animali trattati meglio. Mi è salita una rabbia. Avrei voluto salire sull’auto e irrompere con l’acceleratore a tavoletta nel cancello dell’ospedale falciando a caso qualche medico appena sceso dalla sua bella Mercedes. Così, perché non avevo altro da fare.
Poi ho pensato.
Ho pensato che, alla fine dei conti, tante attenzioni per i morti servano solo ai vivi.
Io ho le mie idee. Penso che si possa vivere in modo dignitoso, ma morire no. Nella morte non c’è nulla di dignitoso. La morte è brutta e fa cose brutte ai nostri corpi. Io penso che tutto ciò che facciamo per i morti sia fatto unicamente per noi stessi. Sono solo rituali catartici di liberazione per farci sentire meglio. Ma a chi non c’è più cosa può importare?
È probabile che le mie considerazioni siano influenzate dal fatto che non sono un credente. Mi sono scontrato spesso con le persone per questo motivo. La gente non può accettare che tu non sia credente. È come se dicessi loro “Sai, mi piace fare sesso con gli animali”. Con l’aggravante che, al disgusto provocato dalla tua affermazione, si aggiunge un malcelato senso di astio nei tuoi confronti. Una volta questo atteggiamento mi innervosiva, poi ho imparato a prenderlo con filosofia. E sorrido pensando alla facilità con cui chi predica amore passa all’odiare. Io non so se sono una brava o una cattiva persona, ai posteri l’ardua sentenza. Diciamo che preferisco subire il male piuttosto che farlo, ma non riesco sempre bene nell’intento. A parte questo, preferisco essere giudicato per ciò che faccio e non per ciò in cui credo o non credo.
Ieri sera, quando mi hanno avvisato che mia nonna era stata ricoverata, ero in ansia. Mi avevano detto che non c’era bisogno che venissi, non si aspettavano uno sviluppo degli eventi così. Stamattina ero ancora più in ansia, poi è arrivata la notizia. Mentre raggiungevo l’ospedale avevo un groppo in gola e un nodo allo stomaco.
Poi, quando sono arrivato nella camera a gas mortuaria e l’ho vista, passata la rabbia è scomparso tutto. Il rituale. Aiuta.
L’ultimo ricordo che ho di mia nonna risale a questo venerdì mattina. Mia madre mi sveglia, mia nonna era scivolata in bagno e occorreva una mano a rialzarla. Non si era fatta niente, accadeva sempre così. Era buffo. Mia nonna cadeva spesso per terra ma praticamente scivolando e finendo in posizione seduta. Come una bambina.
Una volta che l’abbiamo rialzata, la mettiamo a letto. Mia zia le chiede, indicandomi, “Chi è questo?”. Lei mi guarda e dice il mio nome. È l’ultimo ricordo che ho.
Però io preferisco ricordare quest’altro episodio. L’avevo narrato qui. Ero appena tornato da Berlino. Le avevo portato una calamita da frigo. Lei la prende in mano, la guarda e le dà un bacio come se fosse una reliquia.
Ecco, io ho scattato questa fotografia mentale che porterò con me.