La conobbi alla festa che aveva organizzato per dire addio al suo appartamento cittadino. Una festa in cui mi ritrovavo, non per volontà mia, imbucato. Lei indossava una maglia bianca e una gonna lunga nera. Sobria. Seno piccolo, ma amichevole e non pretenzioso (cit). Sottile. Di una magrezza all’apparenza fragile, ma in realtà dotata di carattere. Penseresti di romperla a toccarla, forse scalfirebbe te, invece. Ospite esemplare, si impegna di intrattenere tutti i presenti. Sconosciuti compresi: uno solo ce n’era.
La rivedo tre giorni dopo, ultima sua sera in città, ultimo saluto alla compagnia. Giocherellando col bicchiere, le parlo di vino e cucina asiatica, tra il divertimento degli astanti. Così brillante in scena, non mi ricordavano.
Nel prosieguo della serata, mi cerca.
Chi sono, da dove vengo, cosa faccio. Quante domande. Ho lasciato le risposte nel vestito buono. Improvviso. Coinvolgenti ghirigori di parole.
Nel parlare, mi si avvicina. Molto. Il suo respiro mi solletica il volto. I suoi occhi color castagna sembrano chiedere qualcosa. Forse è magnetismo che la trascina a me. Forse, ha problemi di udito e deve avvicinarsi per sentire.
Parliamo, parliamo, parliamo. Non le chiedo contatti, nulla. La lascio partire per la sua destinazione ignota. Arrivederci, guidate con prudenza. Chiamatemi Telepass, guardo le vite scorrere.
Succedeva due mesi fa.
Perché rivango tale insignificante episodio? Perché un libro di Hermann Hesse che ho letto in questi giorni, invogliato da questo post, mi ha offerto degli spunti di riflessione. Andiamo con ordine.
Perché non le chiesi un contatto? Perché tanto non l’avrei mai chiamata. Non che non fossi interessato, ma la realtà è che non voglio interessarmi.
Forse tento di punirmi, espiare.
Forse è ricerca della solitudine.
Forse è paura di rivelarsi incapace.
Quanti dubbi.
La verità è che pascolo in un campo d’ipocrisia: desideri carnali e ricerca d’amorevoli attenzioni attraversano le mie fibre nervose, ma io proseguo stoico, fingendo disinteresse.
Poi ho letto il libro. Due passi mi hanno illuminato:
Più è difficile avere una cosa, più la si ama
Il mio destino era di soffrire d’amore, e quando il possesso dell’amata cominciò a guarire e a mitigare questa sofferenza, fui preso dall’inquietudine
Nella mia vita ho desiderato e sofferto di più, pur non essendocene razionalmente le basi, per colei che non fu mai realmente mia. Anni fa. Fu un passaggio, una storiella, nulla più, eppure ha segnato quella che oggi è la mia anima rabberciata. Amore? Ah, che paroloni, silenzio in sala. Troppo complesso. Non saprei nemmeno definire tale concetto, né mi sforzo di farlo, non ambisco al premio Bacio Perugina 2013. Anzi, direi che non fu il sentimento più serio. I miei pensieri più concreti son stati per un’altra, con la quale avrei voluto viverci insieme, pensavo a un futuro per noi due.
Poi, ecco, venne quella parola che fino a qualche giorno fa non riuscivo a concepire. O non volevo concepire. L’inquietudine. Finii per disfare il tutto.
Ho realizzato.
Come un bambino in un negozio di costosi balocchi, amo ciò che non posso avere. Il resto mi dà noia.
Ecco.